Tim Ingold, Man On Sand.
Il problema dell’educazione
Inizierei premettendo che la percezione della verità e del valore è una questione di educazione, e che l’educazione abbraccia tutto ciò che chiamiamo insegnamento, ricerca e scolarizzazione. Nonostante queste attività siano inseparabili, nel testo che segue vorrei concentrarmi sulla ricerca. Che cosa significa affermare che la ricerca è soprattutto una pratica educativa, o che l’educazione è soprattutto una pratica di ricerca?
«Educare», ha presumibilmente dichiarato il poeta William Butler Yeats, «non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco».11Anche se viene comunemente attribuita a Yeats (es. Biesta 2013:1), vi sono prove che supportano l’elusività di queste attribuzioni. La fonte più probabile sembra essere l’autore greco-romano Plutarco. Nel suo saggio L’arte di saper ascoltare, Plutarco ha scritto «La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso della ricerca e un amore ardente per la verità» (Plutarco, p. 18).
Il secchio offre certezze e prevedibilità, un punto di inizio e uno di fine, con passi misurabili lungo la strada. Ha delle conseguenze, che dovrebbero essere conosciute e comprese ancora prima che il processo inizi. Il fuoco, dall’altro lato, ci mette a rischio. Non si può sapere che cosa brucerà e cosa no, per quanto rimarrà vivo, come si espanderà, e quali saranno le sue conseguenze.
Nel suo libro, recentemente pubblicato, The Beautiful Risk of Education (Il meraviglioso rischio dell’educazione), Gert Biesta parla di una scelta tra essenza ed esistenza, o in altre parole, tra metafisica e vita. Nel registro metafisico, prestiamo attenzione a una determinata essenza della trascendenza umana. L’educazione, allora, è il processo tramite cui diventiamo umani, instillando nella materia cruda di esseri umani immaturi la conoscenza, le norme, i valori e le responsabilità dell’essere persona e del vivere all’interno di una società civile. Il secchio si riempie in questo modo. Tuttavia, scegliere l’esistenza significa riportare gli esseri umani a un processo di vita vissuta in compagnia degli altri, 33Per questa distinzione si veda Ingold (2013a, pp. 6-9).
che è vita sociale. L’esistenza – la vita – non è un processo che fa diventare umani; ma è piuttosto il cambiamento umano.
La questione educativa, come la intende Biesta, riguarda il nostro essere o meno preparati a prenderci il rischio della vita, con tutte le sue incertezze, imprevedibilità e frustrazioni, o se preferiamo cercare una certezza che superi o che sia sottintesa alla vita, sul livello della metafisica. La scelta è tra ciò che lui chiama metodi educativi forti o deboli. Il metodo forte offre sicurezza, prevedibilità e libertà dai rischi. Il metodo debole, per contrasto, è lento, difficile e non porta in alcun modo a risultati certi – se si può poi parlare di “risultati”. Viviamo in un’epoca in cui i politici, i policymaker e il pubblico chiedono con veemenza un’educazione forte. La debolezza è vista come un problema. Al contrario, con la sua tesi Biesta sostiene che, eliminando la debolezza dall’educazione, corriamo il rischio di eliminare l’educazione stessa.44Biesta (2013, p. 1).
Farlo significherebbe spegnere il fuoco.
Tim Ingold: Art, science and the meaning of research. Conferenza, 28 marzo 2018, GAM Torino. Nell’ambito di IperPianalto, in collaborazione con GAM di Torino e Fondazione Spinola Banna per l’Arte. Progetto grafico: CCN studio.
Dati e metodologia
La vita è un problema, e come tutti i problemi reali non ha soluzioni pronte all’uso. Dobbiamo continuamente lavorarci. È questo lavoro che fa la differenza tra vivere semplicemente la vita e condurla.55Sulla differenza tra vivere e condurre la vita, si veda Ingold (2015, p. 118).
Un’educazione che conduce non si dedica alla soddisfazione dei desideri immediati, ma all’infinita ricerca di ciò che nella vita dovrebbe essere desiderabile. L’imperativo dell’educazione si trova nella ricerca stessa, non nelle risposte pronte. Ma se l’educazione, nella sua accezione debole, è un processo che porta a cercare, che cosa dobbiamo aggiungervi perché diventi ri-cerca? Il “ri” in “ricerca” la fa suonare come se dovessimo continuamente ricominciare daccapo. Forse, allora, la ricerca è un’educazione iterativa, che torna indietro mentre si muove in avanti, riflettendo sulle sue stesse condizioni di produzione.
Tuttavia, in questo periodo, quando parliamo di ricerca, l’educazione è spesso l’ultima cosa a venirci in mente. La prima, di solito, sono i “dati” e la loro raccolta, mentre la seconda – che la segue da molto vicino – è la metodologia con cui si attua tale raccolta. I dati e il metodo sono gli ingredienti necessari a ogni progetto: mettili insieme e ottieni il “risultato” che il progetto promette di produrre.
In senso letterale, ovviamente, “datum” significa ciò che viene dato. Ciò che il mondo dà, noi riceviamo. Ciononostante né la generosità del dare né la grazia del ricevere si accostano facilmente ai protocolli della ricerca scientifica che richiedono, nel nome dell’oggettività, il taglio di qualsiasi relazione personale con le cose studiate e il rimanere immobili e imperturbabili davanti alle loro condizioni. Secondo tale protocollo, con loro non abbiamo alcun debito, e loro, in cambio, non ci offrono nulla. In effetti, per uno scienziato, l’ammissione di una relazione di dare e avere con le cose del mondo di cui si occupa sarebbe sufficiente a squalificare la propria indagine e qualunque intuizione da essa scaturita. Poiché ciò che la scienza considera come dato non è stato ricevuto nella forma di un dono o di un’offerta. Nel raccogliere, gli scienziati non ricevono ciò che è dato loro, quanto cercano ciò che dato non è, utilizzando come risorsa stratagemmi ingannevoli e trucchetti nascosti nella progettazione di quelli che chiamano “esperimenti”. E l’esperimento scientifico non è tanto un’esperienza fatta in modo attivo, quanto un test inflitto deliberatamente.
È nella somministrazione del test che ha inizio la metodologia. Perché qual è il ruolo della metodologia, se non quello di conferire immunità a qualunque infezione germogliata dal contatto immediato con gli altri? Cercando metodi di lavoro interni a una logica procedurale che sia indifferente all’esperienza e alla sensibilità umane, la metodologia tratta la presenza dell’osservatore nel campo dell’indagine non come un prerequisito essenziale all’apprendimento di ciò che il mondo ha da offrire, ma come una fonte di pregiudizi che va ridotta a ogni costo. Qualunque scienza fallisca in questo campo è considerata – di solito in senso negativo – “morbida”.
La scienza dura, quando si avvicina alle altre cose del mondo, ha un impatto. Può colpirle, o anche romperle. Ogni colpo è un dato; accumulando abbastanza dati, si potrebbe arrivare a un punto di rottura. La superficie del mondo ha ceduto sotto l’impatto di colpi costanti, e avendolo fatto cede alcuni dei suoi segreti. La scienza morbida, per contrasto, si piega e si deforma quando incontra altre cose, facendosi carico di alcune loro caratteristiche, mentre esse, in cambio, si piegano sotto la sua pressione in accordo con le loro stesse inclinazioni e disposizioni. Risponde alle cose e queste a lei. Userò il termine “corrispondenza” per far riferimento a questo processo di reciproca risposta, di cose e persone che simultaneamente si fanno domande e si rispondono a vicenda.66Si veda Ingold, 2017.
Tim Ingold, Drawing The Man.
Una scienza della corrispondenza
L’avvio di una relazione di corrispondenza con persone o cose, allora, è l’esatto contrario dell’applicazione di una metodologia solida. Lungi dal forgiare uno scudo inespugnabile che protegga il ricercatore dal dover condividere la sofferenza di chi subisce le sue strategie di gioco, la corrispondenza equivale a una modalità di lavoro simile a un’arte, tramite cui il mondo si apre alla nostra percezione, a ciò che sta accadendo altrove, in modo che a nostra volta ci possiamo interfacciare con esso. [La corrispondenza] Non è guidata né dalla violenza né dall’inganno, bensì dalla speranza: la speranza che, prestando attenzione alle persone e alle cose con cui interagiamo, loro stesse daranno attenzione a noi e risponderanno alle nostre proposte. La corrispondenza è un lavoro d’amore, di restituzione di ciò che dobbiamo agli esseri umani e non umani con cui e con i quali condividiamo il nostro mondo, per la nostra stessa esistenza.
Due secoli fa, Johan Wolfgang von Goethe ha proposto proprio questa scienza della corrispondenza: richiedeva a dei professionisti di trascorrere del tempo con l’oggetto della propria attenzione, di osservarlo da vicino e con tutti i sensi, di disegnare ciò che avevano osservato e adoperarsi per raggiungere un livello di mutuo coinvolgimento, nella percezione e nell’azione, tale da rendere l’osservatore e l’osservato quasi indistinguibili.77Holdrege (2005) offre un’eccellente sintesi sul goethiano metodo di fare scienza.
È da questo crogiolo di mutuo coinvolgimento, sosteneva Goethe, che tutta la conoscenza si espande. Eppure gli atteggiamenti contemporanei riguardo a ciò che oggi è chiamata la “scienza goethiana”, nel mainstream tecnologico-scientifico, sono indicativi. [La scienza della corrispondenza] È comunemente considerata con un grado di indifferenza che rasenta il disprezzo, i suoi professionisti sono ridicolizzati e le proposte di pubblicazione sistematicamente respinte. Metodologia, non corrispondenza, è l’ordine del giorno.
Non è sempre stato così. Periodi precedenti della storia della scienza non hanno visto la polarizzazione che oggi è così rigidamente evidente. Inoltre, sembra poco probabile che negli ultimi decenni si sia manifestato un “irrigidimento” della scienza tale che possa essere facilmente collegato, come vedremo in seguito, alla sua commercializzazione come motore di un’economia della conoscenza globale. La mercificazione della conoscenza richiede infatti che i frutti dello sforzo scientifico vengano staccati [dall’albero] dalle correnti della vita, dai loro flussi e riflussi e dalle loro reciproche implicazioni. Questa violazione viene effettuata attraverso la metodologia: quindi più resistente è la scienza, più vigorosa è la metodologia.
L’effetto di una concorrenza inesorabile per “innovazione” ed “eccellenza” è stato quello di alimentare una specie di metodologica corsa agli armamenti che trascina gli scienziati ancor più lontano dai fenomeni che dichiarano di studiare e sempre più dentro mondi virtuali da loro stessi creati. Tuttavia, per quanto sia tenue la connessione con il reale, essa non può essere completamente infranta. Non può esserci scienza senza osservazione e nessuna osservazione senza che l’attenzione dell’osservatore sia in sintonia con quegli aspetti del mondo [reale] a cui è connesso. Evidenziare tali azioni di dedizione verso l’osservazione – seguire le pratiche della scienza piuttosto che i suoi protocolli – significa recuperare quegli impegni esperienziali e performativi che la metodologia va a nascondere. In pratica, anche gli scienziati sono immersi in un mondo senziente, sempre attento e sensibile ai fruscii e ai bisbigli di ciò che li circonda.
La seconda parte del testo è disponibile qui.
Traduzione di Elena D’Angelo & KABUL magazine