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Tentare il massacro
Magazine, PLANARIA - Part I - Gennaio 2023
Tempo di lettura: 11 min
Gabriele Doria

Tentare il massacro

Un commento sulla poetica linguistica di Emilio Villa.
Nuvolo, [Dettaglio di]: Armadio di Emilio Villa, collage di carta dipinta su legno, 1956.

 

«Si tratta, così, di tentare il massacro svelto e soave di ogni qualifica di linguaggio, in direzione di senso e di non-senso; tentare l’incrinatura, la sfaldatura dei nuclei emozionali previsti e approssimativi, la deflessione degli strati mnemonici in stato attivo, e dei valori vaneggianti (i valori precostituiti). Così rivendicare la scena il teatro lo stadium del libero, evocare spessori geniali, spessori critici dell’empito dinamico su tavole nude e libere».
(Emilio Villa)

«Ma tutto governa la folgore».
(Eraclito, fr. 64)

Emilio Villa, “Autoritratto”, data sconosciuta.

Duchamp lo soprannominò Villadrome, André Breton lo fece commuovere citando a memoria un suo verso in francese, Carmelo Bene lo definì il più grande genio che avesse mai conosciuto. 

Il tentativo di ricostruire filologicamente la biografia del poeta Emilio Villa si scontra fin da subito con un falso originario: il bombardamento aereo che distrugge l’ufficio anagrafe di Affori, dove il 21 settembre 1914 era stata registrata la sua nascita, gli consentì di sostenere lungo tutta la sua esistenza di essere nato solo l’anno successivo. La strada è tracciata per una sorta di parabola della combustione: muovendosi da clandestino e da falsario, poeta e giullare, in uno stato perennemente belligerante contro la porca razza dei letterati ( pretesi detentori di un linguaggio privilegiato), il poeta getterà via il meglio di ciò che farà, bruciandolo, disperdendolo, e dandolo in pasto all’annichilimento, tutto questo perché esiste un solo modo per andare oltre la pagina bianca, ed è la pagina annientata.11Da un appunto di Emilio Villa riportato in Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa di Aldo Tagliaferri. DeriveApprodi, 2004, p.183: «sono il solo che ha buttato via il meglio che ha fatto: quello che s’è consumato nella tasca di dietro dei calzoni, scappando di qua e di là, quello scritto sui sassi buttati a Tevere, quello stampato da un tipografo che non c’è più, quello lasciato in una camera di via della croce. Solo così si poteva andare oltre la pagina bianca: con la pagina annientata».

Per tutta la vita, Villa proverà come una sorta di puerile soddisfazione nel farsi beffe della legge in ogni sua forma ed espressione, oltre che nello scavalcare le convenzioni, protraendo il gusto della sfida sino a degenerare nell’autolesionismo, contrario a ogni forma di autorità e autoritarismo: una sorta di anti-Edipo.

«Liberare l’umanità dalla tirannia del padre.
Ma e il “Pater Noster”?
Analizzare bene, in fondo c’è la devozione fittizia, e surrettizia, dell’uomo che tende a invocare il padre perché lo conservi in vita e non lo uccida».

Renitente, sin dalle elementari, al sistema educativo istituzionale e a ogni forma di autoritarismo, in tempi in cui la sopravvivenza era messa a dura prova, venne iscritto al seminario. Nei suoi studi, che proseguirono sempre con un andamento sussultorio, cominciò a mostrare interessi filologici che andavano ben oltre le ristrette mura dell’ortodossia clericale: nello specifico, si interessò dapprima al latino asiano irregolare e virtuosistico come riserva millenaria di suggestioni etimologistiche e di eleganza formale, e poi al fenicio e al caldeo. Su di lui, un’attrazione potentissima fu esercitata dalla storia delle varianti protocanoniche e deuterocanoniche dell’Antico Testamento, che studierà di nascosto. 

Prima pagina della traduzione di Villa del libro “Genesi”, conservata nell’archivio della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.

Più tardi, negli anni ’50, comincerà per l’editore Einaudi una traduzione della Bibbia che non sarà mai pubblicata, e a cui nonostante tutto continuerà a dedicarsi per gran parte della vita. In questo lavoro, Villa puntò a una versione che liberasse il testo dalle fortissime valenze confessionali stratificate nel corso dei millenni, in decisa polemica con la tradizione normativa cristiana, cercando di riportarlo il più possibile alla sua dimensione originaria, pagana e mitopoietica. La lettura orientata del testo in senso teologico, dal punto di vista villiano, annienta così i mitologemi arcaici delle origini, vale a dire la sua piattaforma preistorica, «giudicando ogni teologumeno cristiano un’opzione artificiale e superflua, un mitologismo in via di deperimento». È interessante in questo senso notare come in una sua versione del mito della creazione, cogliendo riferimenti mitologici sumeri, il primo uomo venga chiamato come “Padre-Sangue-Terra”, mentre la prima donna “Madre-Vita-Serpe”.

Durante la sua ricerca, Villa si convinse sempre più della necessità di non accontentarsi delle versioni canoniche e di seguire la strada che le antiche scritture mesopotamiche sembravano aprire verso le origini della lingua e dell’alfabeto. Scrisse poesie in latino, lingua parlata da mane a sera, ma allo stesso tempo rimase legato alle forme del varesotto degli affetti infantili, parlato dalle nonne, di cui la sua poesia sarà trapunta ancora a distanza di molti anni.

L’urgenza, avvertita sin da subito, di contestare la lingua madre, negli anni in cui il regime fascista si faceva portabandiera di una campagna anti-dialettale,22Per una rassegna delle politiche linguistiche adottate dal regime fascista nei confronti dei dialetti si veda la voce “fascismo, lingua del” di Alberto Raffaelli su «Treccani».
lo portò a sondare nuove forme di plurilinguismo, espressione di una topografia randagia, materia verbale organica continuamente masticata e risputata

Percepito paradossalmente come “lingua morta” artificiale, perché imposta, l’italiano risultò ai suoi occhi uno strumento esangue rispetto a un latino vissuto invece quotidianamente, legato indissolubilmente a una tradizione sacrale su cui non smetterà mai di interrogarsi, in un misto di rispetto e diffidenza: «Ogni lingua che non rifletta le condizioni reali di un ambiente, di una cultura, e si congeli in qualsiasi modo, per pregiudizio e retorica, perde le proprie funzioni, trasformandosi in convenzione priva di senso, perde ogni autorità e in poco tempo sparisce».33Emilio Villa da un articolo apparso su “Habitat”, 1951.

Nell’intera opera villiana echeggia il convincimento secondo cui l’uomo si scopre esule, “caduto”, in un “mondo cattivo” di cui “non bisogna essere partecipi”, di chiara derivazione gnostica. Su queste premesse gravano le ombre di esperienze storiche disastrose, che lo segnano profondamente. Nell’autunno del ’43 fa visita all’amico Macrì “vestito da fantaccino” e disertore, dopo aver attraversato due volte le linee nemiche correndo rischi gravissimi, facendo spola tra la capitale e Milano. Drammatica l’esperienza della deportazione a Meppel, in Olanda, da cui torna molto provato. Nei ranghi della Resistenza, resta, secondo alcune testimonianze,44Si veda la testimonianza del critico comunista Mario De Micheli, compagno d’armi di Villa, riportata ne Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa di Aldo Tagliaferri, DeriveApprodi, pag.63.
“un po’ fuori posto”, molto volenteroso ma inadatto ad assumere il ruolo del combattente. 

Finisce per fare proprie le abitudini del clandestino, assumendo un modello di vita che gli sarà congeniale: senza fissa dimora, appare e scompare agli amici all’improvviso, con incursioni inattese quanto impellenti, in cui si presenta di solito male in arnese, sdrucito, e con le tasche del cappotto piene di fogli unti e palpeggiati. Tende a calarsi all’improvviso nel silenzio, alterna momenti di facondia sfrenata ad altri in cui sembra assentarsi dall’ambiente che lo circonda. Lo scultore Mazzacurati lo soprannominerà “Villa dei Misteri”.

«È una lama di assenza che ci unisce, in una roteante ragnatela / di inutile desiderio / di chiasmo feroce».
Emilio Villa, Sybilla (foedus, foetus)

Villa rivendica il proprio diritto a praticare “le più delicate e voluttuose trasgressioni”, e si identifica con la sibilla, simbolo di una inesausta erranza poetica ed esistenziale. Le parole sibilline giungono da un tempo dell’origine (aion) che racchiude in sé, in un eterno presente, anche il tempo mondano, e al contempo delegano il compito di decifrarle al soggetto interrogante. 

Alberto Burri, “Nero Plastica”, 1963.

L’ostilità nei confronti di ogni purismo linguistico, che per Villa coincide sempre con la difesa di un aberrante status quo, si manifesta attraverso la pratica di giustapporre e, più tardi, far confluire progressivamente ogni lingua in una sorta di esperanto babelico, ancora più magmatico di quello realizzato in Finnegans Wake (Villa e Joyce hanno in comune il ritorcere i fondamenti del sapere acquisito dopo un’educazione rigorosamente cattolica contro l’autorità della tradizione dalla quale provengono: “sacerdoti dell’immaginazione” per autoelezione).

È l’aspirazione a una lingua che vuole essere barbara, impura, in dissidio insanabile con ogni codice prestabilito, sorretta dall’ambizione di volere realizzare quell’“idioma degli angeli, annunciatore del silenzio divino”, già teorizzato da Dionigi Areopagita.

 

Nella poetica villiana si è imposta una concezione di totale svalutazione dell’oggetto artistico e di critica del permanere di uno “stile”. Ogni artista, una volta raggiunto il successo, diviene in qualche modo il primo falsario di sé stesso, che pur di essere integrato tende a riprodurre all’infinito la stessa opera attraverso un processo di serializzazione, contrassegnandola con uno stile riconoscibile, riducendola a simulacro garantito da firma e data. Posizioni così estreme, questo “adoperarsi per un meritato e clamoroso insuccesso”, generano comprensibili perplessità negli artisti a lui legati, come Alberto Burri, che cerca invece di combattere il mercato conquistandolo dall’interno. Non mancheranno tra i due i motivi di tensione: Burri, notoriamente molto geloso delle sue opere, deve accettare che quelle regalate all’amico siano svendute a un prezzo vile, assecondando una frenesia da viveur. Tuttavia, fu il poeta a “scoprire” Burri, a creare, lavorando sulla parola (mentre il pittore non amava indugiare sul significato delle proprie opere), l’apparato concettuale, il “rapporto” tra l’artista e il pubblico. Così, i sacchi e le muffe non sono altro che i «materiali più prossimi e analoghi alla suscettibilità e incertezza del deserto mondano, della assurdità totale e incoerenza della storia; i materiali sorpresi nella crisi del compianto».55Emilio Villa, Pittura dell’ultimo giorno. Scritti per Alberto Burri, Le Lettere, 1996, p.22.

Nuvolo, Senza Titolo (Tensione), 1962, pelle di daino e tela in tensione su tela preparata.

Si arriva così al capovolgimento della nozione corrente di valore per sconfiggere il feticismo della meta raggiunta, ritenendo illusorio il tentativo epistemologico di assoggettare l’irriducibile esperienza umana, facendo del fallimento (a cominciare dal fallimento del comprendere) il segno nobilitante dell’arte. L’artista deve perseguire deliberatamente questo fallimento, evitare la hybris della competenza, smettere di cercare una Verità stabilita una volta per tutte, che è il punto di partenza di ogni sclerosi istituzionale, e affrancarsi da qualsiasi messaggio salvifico, da qualunque certezza, per riscattare, infine, nel linguaggio, la perdita, l’Innominabile. Si tratta di «riscattare il paradosso del linguaggio con il linguaggio del paradosso».66Aldo Tagliaferri, Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, DeriveApprodi, 2004.

Nella concezione dell’arte di Emilio Villa, una tela può accogliere l’Assoluto, a condizione di non pretendere di trattenerlo. Non può che tornare a essere materia insignificante in assenza di quella scintilla che nella visione gnostica può abitarla e redimerla, e che riecheggia l’attimo della lacerazione dello sguardo amoroso.

In questo modo, determinante diventa la visione dello spettatore, che partecipa a creare l’opera, nell’attimo di rinascita che torna continuamente, ma anche del “critico come artista”, che ha la possibilità di integrare e persino migliorare l’opera.

La creazione avviene per sommossa, la chance rivoluzionaria presente in ogni momento di grazia è il rifiuto del dominio dei discendenti del Padrone celeste: Villa attingerà alle religioni per convertirne l’ispirazione originaria in poesia dissidente, al di fuori dell’ufficiale e della catechesi istituzionale, al di fuori di ogni coro, di ogni patto preventivo, evitando di essere «…sotto l’ascendente ideologico di quel Verbo che dà la misura della nostra impotenza».77Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968.

Nei giorni dello sconforto arriverà a ripudiare la poesia stessa, mero gioco illusorio, «baldracca di quel baldraccone che è il linguaggio»,88In Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Aldo Tagliaferri, DeriveApprodi, 2004.
e poi contraddicendosi tenterà di restaurarne l’aura in testi come Niger Mundus, poema latino dedicato all’amato (da Nietzsche, oltre che da Villa) Lucrezio.

Non c’è la normativa di una classicità codificata, si ha la decisiva apertura al meticciato tra il variegato passato paretimologico e la vertiginosa applicabilità di questo al sapere moderno: Niger Mundus ingloba echi della Vulgata e salmodie medievali con le più paradossali scoperte della fisica contemporanea inscritte nel paradigma mitico, continuamente metamorfico. 

Ritratto “prospettico” di Emilio Villa (esemplare di un manifesto stampato in cianotipia da Pari&Dispari editori).

Villa non sa nulla di fisica, ma si interessa alle ricerche del figlio, gli chiede di Kurt Gödel e dei teoremi dell’incompletezza. È una folgorazione: il Caos originario, il «grande vuoto brulicante di possibilità» di cui Villa aveva letto negli antichi poemi della creazione studiando le tavolette sumere, è postulato dalla Scienza, diventa centrale il primato dell’accidentalità sull’illusorietà delle determinazioni calcolistiche. Tagliaferri, per spiegare il chaos vehefactus (“caos energizzato”) di cui parla il poema, userà i paradossi attinenti alla fisica dei quanti, che hanno rivoluzionato il punto di vista dell’osservatore, «soggettuale eternamente minacciato di estinzione dall’invadenza della storia». 

Viene così ripresa l’intuizione di Nietzsche riguardo la forma aforistica, aprendo la strada all’enunciazione polisemica e criptica, imparentata con il delirio mantico e l’estasi sciamanica, forme primordiali della sofia, che sfrutta a proprio vantaggio l’irriducibilità dell’ambiguo e l’atemporalità. È il kèrigma: il senso della bellezza non sarà più edulcorato, la sublimità sarà in grado di farsi carico anche del brutto.

Le parole della sibilla giunte dall’aion sono messe nelle mani del soggetto interrogante l’oracolo, del giocatore “arrischiante” (Martin Heidegger), disposto a mettere in gioco la propria vita nella consapevolezza di interpretarla, e di inventarla, incessantemente, completamente libero, di fronte a figure libere dalle regole che ne guidavano la decifrazione. Un interrogare senza l’ombrello protettivo di un’armonia prestabilita, un continuo «slogarsi x logarsi», consci che «la risposta è soltanto l’ultimissimo passo del domandare stesso, e una risposta che congeda il domandare annienta sé stessa come risposta».99Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, 1994.

In Niger Mundus, la prospettiva del Genesi viene rovesciata: quello che le religioni monoteistiche chiamano “creato” deriva ex nihilo da Ate, figura della cecità umana e generatrice di hybris. Il primo motore non è l’ordine, bensì il caso, non il Verbo giovanneo, ma il Caos, sfondo ineludibile per il fare poetico, il vuoto brulicante di possibilità.

Risale al 1939 la pubblicazione, sulla rivista «Letteratura», di una traduzione villiana dall’accadico di una tavoletta del poema babilonese della creazione, l’Enuma Elis. L’incipit è così tradotto: «Allorché lassù il cielo non aveva nome / e quaggiù la forma non era pronunciata con parola».

Emilio Villa muore il 14 gennaio 2003, dopo che un ictus lo aveva da molti anni privato quasi del tutto della parola e della scrittura. Racconta Nanni Cagnone:1010In Cognizione di Emilio Villa di Nanni Cagnone, RebStein, 2013.
 «Desidero riferire una sola parola tra le poche che ora proferisce. A un amico il quale domandava “A che pensi?” ha risposto “Eterno”, come diceva a me in altro tempo per la via, impuntando di colpo la voce, “Eskhaton! Eskhaton!”».

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di Gabriele Doria