Seguire il ritmo: dalla sincronizzazione neuronale al fenomeno del tarantismo.
Gustave Dorè, Divina Commedia, 1861.
«Le rythme n’est pas une mesure: c’est une vision du monde».
(Octavio Paz)
Trattare di stati alterati di coscienza e, in questo caso particolare, della trance provocata dalla musica, è una questione delicata già a livello concettuale. È problematico fornire definizioni univoche, e le opinioni a riguardo sono molteplici e contrastanti. La difficoltà dell’argomento dipende ulteriormente dai pochi studi effettuati. In ambito scientifico gli studi condotti sull’argomento sono infatti pochi e isolati (Neher, 1962; Hove et al., 2015). È possibile che il poco peso accordato dalla comunità scientifica a questo genere di ricerche dipenda dalla tendenza a ricondurre il fenomeno a rituali tribali e primitivi relegati al campo dell’antropologia e dell’etnomusicologia (De Martino, E., & Gallini, C., 2013; Rouget, G., & Leiris, M., 1980; Lapassade, 1997).
Skopas, Menade danzante, 330 a.C.
La trance è uno stato di coscienza transitorio, inabituale e soprattutto non patologico, strettamente e frequentemente legato alla musica, la quale contribuirebbe a creare una condizione di sovrastimolazione sensoriale in presenza di tremori, convulsioni, paralisi e conseguente amnesia (Rouget, G., & Leiris, M.,1980). Nella trance ci si trova assorbiti in uno stato contemplativo e ipnotico connotato da un’alta focalizzazione dell’attenzione verso gli stati interni e una consapevolezza diminuita dell’ambiente circostante (Walsh, 2007). Agli occhi della psichiatria, e quindi di parte della comunità scientifica, questi fenomeni sarebbero la manifestazione di sindromi patologiche e psichiatriche (Lapassade, 1997). Si può pensare alla trance come fenomeno «parossistico» dell’esperienza musicale. Come suggerisce l’antropologo G. Rouget è importante leggere il fenomeno ogni volta come inserito in un contesto socioculturale ben definito. L’elemento musicale diventerebbe quindi solo uno tra i tanti ma importanti fattori legati al contesto che causerebbe lo scatenamento della trance (Rousseau, J.J, 2012; Rouget, G., & Leiris, M., 1980). Essa definisce la forma che assumerà il fenomeno. Infatti ci sarebbero musiche più adatte a suscitare stati meditativi e di rilassamento, o altre stati di trance con ritmi sfrenati e martellanti (Kathryn A., Becker-Blease, 2004). Non a caso diversi antropologi hanno ritrovato nei rituali sciamanici una forte presenza di ritmi monotoni e regolari e l’utilizzo di molte percussioni (Rouget, G., & Leiris, M., 1980; Eliade, 1964; Harner, 1990).
Dato il ruolo che la musica gioca da sempre nel nostro quotidiano, è interessante capire come questa riesca a entrare in contatto con l’essere umano influenzandone i vissuti. Tentando di rispondere a questo interrogativo è utile introdurre un fenomeno fisico basilare quando si parla di ascolto musicale: la risonanza. Nella risonanza (lat. resonantia, «eco», «rimbombo») l’ampiezza di una vibrazione aumenta se vi si applica una forza della medesima frequenza. Quindi il fenomeno si verifica quando una forza esterna agisce su un sistema fisico con una frequenza capace di amplificare il moto del sistema stesso. Se prendiamo due chitarre identiche poste l’una di fronte all’altra, a breve distanza, con lo stesso tipo di corde e intonate allo stesso modo, possiamo notare che, facendo vibrare una corda del primo strumento, istantaneamente, nel secondo, otterremo per risonanza acustica la vibrazione della corda corrispondente. Le onde sonore trasmesse dall’aria al secondo strumento faranno risuonare in esso non solo la stessa nota, ma anche le armoniche e le subarmoniche, ossia le frequenze multiple e sottomultiple della frequenza fondamentale dell’emittente. Vi sarebbe dunque una trasmissione di energia da un corpo all’altro in grado di creare una ‘comunicazione’ tra i due corpi secondo un processo che si genera nel tempo e che non è già dato, un processo di aggiustamento di «fase», di allineamento tra i due corpi che emettono energia. Un esempio esplicativo è l’esperimento condotto nei laboratori giapponesi Ikeguchi, in cui 32 metronomi battono tutti lo stesso tempo, partendo tuttavia con piccoli ritardi ‘out-phase’. Dopo circa due minuti si ritrovano tutti perfettamente in fase e dunque sincronizzati. I metronomi poggiano su una base elastica e in leggero movimento. In questo modo, l’energia del movimento di ogni metronomo attivo riesce a condizionare quelli accanto, e viceversa: questo ‘dialogo’ è dato dal piano di appoggio che trasmette le vibrazioni in modo più rapido di quanto avverrebbe su un piano statico.
L’esperimento ricorda la composizione di musica sperimentale di György Ligeti del 1962 per il gruppo dadaista Fluxus. Il Poème symphonique si presentava come una sinfonia di cento metronomi azionati in differenti velocità da dieci musicisti diversi. In mancanza del piano d’appoggio elastico, la composizione non terminava però con la sincronizzazione degli “strumenti”, quanto con la loro progressiva disattivazione.
Studi scientifici continuano ad affermare il potere della musica nel sincronizzare sulle proprie frequenze i ritmi cerebrali creando dei fenomeni di sincronizzazione detti di Entrainment (Large, 2008; Nozaradan et al., 2011). Attraverso questa sincronizzazione, il ritmo musicale cattura e guida la nostra attenzione in punti precisi della sua struttura, consentendo di prevederla e comprenderla e, di conseguenza, di poterla seguire (Bolger et al., 2013). A livello speculativo, questo fenomeno della risonanza tra musica e ritmi cerebrali rientra nelle diverse ipotesi vagliate sull’origine dei fenomeni di trance in musica (Jovanov, E., & Maxfield, M. C. (2011). Una delle teorie più interessanti a riguardo è la Dynamic Attending Theory, o DAT (Large and Kolen, 1994; Large, 2000; Large and Jones, 1999) che indaga come la nostra attenzione si distribuisca nel tempo e nello spazio durante la percezione di un evento. Secondo la teoria, il cervello decodificherebbe la struttura dello stimolo individuando in essa degli elementi chiave che si ripeterebbero regolarmente nel tempo e la cui periodicità creerebbe in noi delle aspettative e delle attese.
La nostra energia attenzionale sarebbe dunque massima nei momenti chiave della struttura e minima nei momenti in cui non vi è alcuna aspettativa. Tale modulazione avverrebbe secondo dei meccanismi cerebrali di tipo oscillatorio (Large, 2008). Utilizzando un esempio tratto dal quotidiano, quando seguiamo il tempo di un brano musicale battiamo le mani o i piedi sincronicamente seguendo un ritmo che si ripete regolarmente e che diviene sempre più atteso e prevedibile. La struttura metrica e ritmica della musica sarebbe quindi determinante per la creazione di queste aspettative e per la coordinazione tra le aspettative temporali endogene e l’effettiva struttura degli stimoli esterni. Basterebbe anche solo immaginare di seguire un ritmo per scatenare questi fenomeni di sincronizzazione (Nozaradan et al., 2011). Secondo alcuni studi, la capacità di seguire il ritmo sarebbe innata in quanto presente sia nei bambini sia in alcuni animali (Patel, 2006).
Partendo dagli assunti teorici della Dynamic Attending Theory, si potrebbe spingere la riflessione su un terreno più delicato chiedendoci se in questa sincronizzazione entri in gioco anche un fattore motivazionale. Se è vero che esiste una capacità intrinseca nell’essere umano di seguire un ritmo esterno (come il fenomeno dell’Entrainment lascerebbe supporre), alla base di tale capacità vi potrebbe essere un fondamento di intenzionalità? O si deve considerare la sincronizzazione esclusivamente come un fenomeno meccanico e automatico?
L’ipotesi avanzata è quindi che lo stato psicofisiologico dell’individuo e, quindi, le energie psicofisiche, le credenze, le rappresentazioni di cui esso dispone rispetto al fenomeno e a se stesso rispetto a quest’ultimo potrebbero giocare un ruolo cruciale nel gradiente di predisposizione a lasciarsi andare. L’incastro di cause agenti è complesso e il groviglio di fattori interni ed esterni determinanti non sempre facile da sciogliere. In maniera semplicistica si potrebbe affermare che più cisicrede, ci si lascia andare, migliore sarà il dialogo tra i due sistemi interagenti interno/esterno. Prendiamo quindi in considerazione il fenomeno del tarantismo come esempio di affascinante incontro (e a volte salvifico) tra un sistema culturale di cui fa parte anche l’elemento musicale e il sistema psicofisiologico compromesso dei tarantolati.
Il rituale del tarantismo.
Le origini del tarantismo non sono chiarissime ma, secondo l’antropologo De Martino, che per primo in Italia ha descritto compiutamente il fenomeno, sembrerebbero risalire al Medioevo. Tale datazione è riferibile solamente alla forma del fenomeno nelle sue ultime manifestazioni nell’Italia meridionale, in quanto di fatto esisterebbero documentazioni di pratiche simili o affini molto più antiche e di diversa locazione. Il tarantismo di cui si parla era particolarmente praticato nel cosiddetto Salento, ovvero la parte meridionale della Puglia. Il fenomeno è costruito attorno al mito del morso velenoso della Lycosa tarentula, un tipo di ragno denominato tradizionalmente ‘tarantola’.
Gli individui più soggetti a essere morsi erano contadini, durante la mietitura estiva. Il veleno era in grado di provocare una vera e propria malattia che portava a uno stato di prostrazione fisica e mentale tanto da condurre ad annichilimento e profondo torpore. I cosiddetti ‘tarantolati’ cadevano in uno stato di depressione, angoscia e stanchezza che eliminava la loro voglia di interagire con la realtà. La medicina del tempo non possedeva le conoscenze necessarie a trattare casi simili, per cui l’unico rimedio sembrava consistere in un rito musicale in cui si spingeva il soggetto in uno stato di trance tramite l’utilizzo di ritmi ossessivi e una danza frenetica. La trance dunque diveniva fondamento di un vero e proprio rituale terapeutico. Apparentemente tale ‘esorcismo musicale’ purificava lo spirito dei malati dal veleno del ragno, sino a liberarli dalla loro agonia. Ogni tarantolato si sentiva scazzicato (stimolato a reagire, provocato) da motivi musicali diversi a seconda del malessere, alcuni da nenie funebri, altri da ritmi molto sostenuti (come quello della pizzica-tarantata), altri da musiche leggere, altri ancora da suoni che provenivano dai mezzi più inconsueti: utensili da cucina come pentole. Un altro aspetto fondamentale era quello cromatico: durante il rito erano presenti fazzoletti colorati, determinanti per lo svolgimento del rituale. Alcuni tarantolati erano sensibili ai colori forti, altri a quelli più tenui (fatta eccezione per il nero che era rifiutato da tutti). Una volta scelto il proprio colore, durante il ballo il soggetto arrivava persino a distruggere violentemente la stoffa colorata. Per delimitare il contesto cerimoniale, durante il rituale veniva steso a terra un lenzuolo: in posizione di riposo, il soggetto si dimenava strisciando e seguendo il ritmo del tamburello. Dopo essersi alzato, cominciava a sbattere i piedi come per schiacciare l’animale responsabile della sua sofferenza. Terminato il rituale, il soggetto cercava conforto nel riposo, tuttavia più spesso la pratica non riusciva a concludersi, arrivando persino a durare dei giorni (cf. De Martino, E., & Gallini, C., 2013).
Malgrado il Tarantismo sia stato ampiamente studiato, esso resta un fenomeno ricco di simboli e miti arcaici. Il fenomeno, ormai estinto (almeno nella forma descritta), appartiene naturalmente al sistema di valori, credenze e simboli di un mondo che non esiste più e che di volta in volta rivive soltanto grazie ai movimenti musicali di riscoperta della tradizione. Appare pertanto chiaro come il contesto in cui si nasce e si vive sia predominante nella comprensione dei fenomeni di trance e musica. Le credenze legate al fenomeno e al proprio ruolo nella società faranno invece da sfondo all’«étrange mécanisme» della trance, così come definito da Rouget.
In tutto ciò il ruolo interessante rivestito dalla musica, e in particolar modo dalla sua componente ritmica, sembrerebbe quasi rappresentare e testimoniare quel substrato ancestrale della vita che è il ritmo. Ritmo presente nelle attività vitali cardiache e respiratorie, nel linguaggio, nell’alternarsi ciclico delle stagioni.
"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
di Cosima Lanzilotti
Cosima Lanzilotti è psicologa psicoterapeuta specializzanda presso “Noûs – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Costruttivista” di Milano e dottoranda in Neuroscienze alla Sorbonne di Parigi. Come dottoranda indaga l’Effetto Cocktail Party in collaborazione tra Toulouse e Parigi. Si occupa di consulenza e divulgazione scientifica, supporto psicologico e psicoterapia individuale. Ha svolto attività di tirocinio nel reparto di Psichiatria Adulta all’Hôpital Sainte Anne di Parigi.
Bibliography
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