L’elaborazione di un ragionamento stratificato sul concetto di mortalità è un paradigma non estraneo alle radici del cinema europeo, per quanto concerne il veicolo culturale. Se infatti appare obsolescente l’appellarsi al numero di autori che abbiano trattato l’argomento nelle loro filmografie, più interessante è stato notare come negli anni siano stati gli intellettuali – quando non gli stessi autori – a sviluppare un apparato in grado di omogeneizzare l’aspetto visivo a quello critico, con estrema lucidità.
Scrivendo della morte del personaggio di Emmanuelle Riva in Kapò di Gillo Pontecorvo11Film drammatico del 1959, diretto da Gillo Pontecorvo e scritto da Pontecorvo insieme a Franco Solinas. L’opera, prodotta da Franco Salinas e Moris Ergas, racconta la storia di una giovane ebrea costretta agli orrori del lager.
, Jacques Rivette così commentava: «Guardate […] l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sulla recinzione elettrificata; l’uomo che decide, in quel preciso momento, di fare un carrello per inquadrare di nuovo il cadavere dal basso, facendo particolare attenzione a inscrivere esattamente la mano protesa in un angolo dell’inquadratura finale; quest’uomo merita il più profondo disprezzo».22Jacques Rivette, oltre a essere considerato uno dei maestri della Nouvelle Vague e aver firmato titoli come Parigi ci appartiene (Paris nous appartient, 1961) e Suzanne Simonin. La religiosa (La Religieuse, 1966), è stato collaboratore – e in seguito caporedattore, dal 1963 al 1965 – dei Cahiers du Cinéma, la rivista fondata nel 1951 da André Bazin, Léonide Keigel, Joseph-Marie Lo Duca e Jacques Doniol-Valcroze.
J. Rivette, De l’abjection, «Cahiers du cinéma», 120, giugno 1961.
Nella visione di Jacques Rivette lo spettacolo della morte, al cinema, si ascrive a una sobrietà anti-ingannevole che rifugge il virtuosismo, in virtù di una sospensione necessaria e rispettosa. Il “carrello di Kapò”, che peraltro avrebbe ispirato anche la creazione di un saggio firmato da Serge Daney,33S. Daney, Le Traveling de Kapò, «Trafic», 4, autunno 1992.
rivela come la riflessione di Rivette sia in sostanza affine al pensiero della Politique des auteurs, il manifesto di critica cinematografica teorizzato negli anni Cinquanta dai collaboratori di «Cahiers du Cinéma», secondo i quali non esistono opere ma autori.44A dare la prima definizione di Politiche des auteurs è il regista e critico François Truffaut, in riferimento al film Alì babà (Ali Baba et les quarante voleurs) di Jacques Becker, del 1954: «Da Alì Babà si sprigiona un fascino, o meglio un’influenza affascinante che i film francesi più elogiati di quest’anno non hanno saputo procurarmi. Anche se Alì babà fosse mal riuscito, lo avrei difeso ugualmente in virtù della ‘politica degli autori’ che i miei consimili nella critica e io stesso pratichiamo. Tutta basata sulla bella la frase di Giraudoux: ‘Non ci sono opere, ci sono solo autori’, essa consiste nel negare l’assioma, caro ai nostri predecessori, secondo cui vale per i film quello che vale per le maionesi, o vengono male o vengono bene» (Alì Babà e la politica degli autori, «Cahiers du cinéma», 44, febbraio 1955).
Il pensiero di Rivette non è l’esempio reazionario di chi rifugge la morte sullo schermo, quanto uno dei paradigmi che il pensiero critico francese aveva sviluppato sull’argomento: «Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido; la morte è una di quelle, senza dubbio; e come, nel momento di filmare una cosa così misteriosa, non sentirsi un impostore? Andrebbe meglio in tutti i casi porsi la questione e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si filma: ma è proprio del dubbio che Pontecorvo e i suoi simili sono più sprovvisti».55Rivette, cit.
Nel 1961, a quasi un decennio dalla teorizzazione dei Cahiers, Rivette condensa nel mistero – o per meglio dire, nella sospensione – del giudizio e della morale. L’esposizione estetica cui Gillo Pontecorvo sottopone il suo film è, per Rivette, indicativa di una politica sì d’autore, eppure scandalosa. Oggi può apparire un punto di vista rigido, ai limiti dell’oscurantismo; eppure la spettacolarizzazione della morte, nel dibattito critico tra gli anni Cinquanta e Sessanta, era un aspetto al quale avvicinarsi con cautela. Anzi, riprendendo le parole di Rivette, con «timore e brivido».
È interessante ricordare come uno dei pionieri dei Cahiers, André Bazin,66André Bazin, critico cinematografico francese (1918 – 1958).
ragioni sull’argomento (influenzando, com’è prevedibile, la filosofia di Jacques Rivette): «La morte non è altro che un istante dopo l’altro, ma è l’ultimo. Senza dubbio nessun istante vissuto è identico agli altri, ma gli istanti possono somigliarsi come le foglie di un albero; di qui proviene il fatto che la loro ripetizione cinematografica è più paradossale in teoria che in pratica: l’ammettiamo nonostante la sua contraddizione ontologica come una sorta di replica oggettiva della memoria».77A. Bazin, La morte ogni pomeriggio, in Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1973.
Per dirla con Gabriele Pedullà, che cura la prefazione del saggio di Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, la questione di Bazin non si risolve solo nel considerare il dissidio tra immagine e realtà ma nel definire quella che Pedullà chiama la «questione complementare dell’irrappresentabilità».88P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2010, pag. XV.
Ovvero: il cinema è chiamato a testimoniare ogni componente della realtà? O può decidere, in totale autonomia, di non raccontarne alcuni? Per Bazin la scelta è chiara: «Ma due momenti della vita sfuggono radicalmente a questa concessione della coscienza: l’atto sessuale e la morte. L’uno e l’altro sono alla loro maniera la negazione assoluta del tempo oggettivo: l’istante qualitativo allo stato puro. Come la morte, l’amore si vive e non si rappresenta […] o almeno non lo si rappresenta senza la violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità».99Bazin, cit.
Osceno, dal latino obscenus, “di cattivo presagio”; per il pensiero di Bazin, piuttosto, qualcosa da tenere ai margini, fuori dalla scena. Del resto, come ben ricorda il critico Michele Dell’Ambrogi in un suo scritto, Come si muore nei film, per comprendere appieno la “posizione di Bazin”1010M. Dell’Ambrogi, Come si muore nei film.
occorre riprendere un saggio del francese datato 1946, Ontologia dell’immagine cinematografica, in cui il concetto di imbalsamazione diventa un paradigma in grado di definire il valore delle arti plastiche: «Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo […]. Una psicoanalisi delle arti plastiche potrebbe considerare la pratica dell’imbalsamazione come fatto fondamentale della loro genesi; all’origine della pittura e della scultura si troverebbe il complesso della mummia».1111A. Bazin, Ontologia dell’immagine cinematografica, in cit.
Con il complesso della mummia, secondo Bazin, l’umano si difende dalla scorrevolezza del tempo, evitandone ogni applicabilità, deformazione o rilettura in arrivo del reale: tra queste la sua più estrema conseguenza, ovvero la morte. La sua spettacolarità, in Bazin, non esiste. Riprodurla è un oltraggio: «La rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica. Non si muore due volte»1212Bazin, cit.
.
Ciò che appare lampante, per chi conosce il lavoro del critico francese e le sue influenze sugli autori a lui più vicini (Godard, lo stesso Truffaut, Alain Resnais), è considerare come la sua lezione sia stata ereditata solo in parte.
Basti pensare a una personalità come quella di Robert Bresson: nella sua opera, la morte si impone come un veicolo di rappresentazione espressiva, un elemento che si interroga sulle stratificazioni del reale sentendo di farne parte. Un film come Mouchette, diretto da Bresson nel 1967 (e quindi a nove anni dalla morte di Bazin) rivela come la spettacolarizzazione di un decesso non debba cristallizzarsi come un tabù da relegare ai margini dell’inquadratura. Anzi: in Mouchette il suicidio della giovane protagonista si impone come azione motivata, pensata e più volte ripetuta sino alla sua effettiva realizzazione. È realtà? Simulazione? Più che rispondere a questa domanda, è fondamentale accettare una posizione che, prima di essere politica, è soprattutto estetica.
La morte, da tabù teorizzato, per maestri come Bresson diventa non tanto un’ossessione quanto una riscoperta della coscienza: non a caso, nel cinema del Maestro di Mouchette, i riferimenti al decesso sono fondanti e determinanti nel dipanarsi del plot. Titoli come Il diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne, 1951) o Au hasard Balthazar (1966) dimostrano proprio questo aspetto: la morte, sullo schermo, è un elemento tanto preponderante quanto le emozioni o le altre azioni.
Muovendoci in fast forward verso il contemporaneo, rilevante è l’antiparallelismo che Tommaso Subini elabora nel suo saggio1313T. Subini, lI cinema di Pasolini e la morte: tra complesso della mummia e sindrome di Frankenstein, Università degli Studi di Milano, Milano 2010, p. 76.
a partire dall’analisi del pensiero critico dello statunitense Noël Burch: «Se Bazin si riferisce al desiderio dell’uomo di vincere la morte (cui il cinema risponderebbe) con l’unica espressione di “complesso della mummia”, Burch vi si rivolge alternando una serie di varianti lessicali: si va dalle più asettiche Frankensteinian tradition […], Frankensteinian tendency e Frankensteinian ideology […]. L’operazione compiuta da Burch è chiara: conserva del baziniano “complesso della mummia” il primo termine, rigettandone il secondo. […] Burch rifiuta il respiro antropologico del discorso di Bazin per far spazio a una griglia classista che riconduce il ‘complesso’ a un bisogno borghese e trasforma quella che in Bazin era una ‘pulsione universale’ in una caratteristica storica. Da qui la sostituzione della mummia con Frankenstein».1414Ivi, p. 77.
Per Subini l’attenzione non va concentrata sulla “mummia” ma sul “complesso”: per Bazin, intellettuale cattolico, il termine indica una necessità confessionale. Per Burch, invece, “complesso” anticipa il concetto di rinascita: la morte, nel cinema, rievoca il sogno della re-interpretazione biologica propria del dottor Frankenstein: «La ricreazione della vita […] si realizzerebbe soltanto tramite un surrogato della vita».1515Ivi, p. 78. Significativo come nel suo testo, citando Burch, Subini dedichi spazio anche alla questione del “divismo”: «Lo star system non fa che prolungare il sogno frankensteiniano, il suo esorcismo della morte (il cinepersonaggio muore – se non altro perché il film finisce – ma la star rinascerà nel prossimo film). […] Ed è forse per questo che la morte di una star giovane, ovvero ancora star (Rodolfo Valentino, James Dean, Marilyn Monroe) viene vissuta come una tragedia» (N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Il Castoro, Milano 2001).
E se si considera la spettacolarizzazione del decesso in certo cinema occidentale, esistono almeno due autori con cui è necessario confrontarsi: sono Brian De Palma e Pippo Delbono.
Nel caso del primo la morte, a differenza di Bresson, non è una scelta prima politica, consapevole e successivamente estetica; non anticipa le necessità della sceneggiatura e i bisogni dello spettatore ma si trasfigura in un virtuosismo che, avanti a ogni urgenza, è soprattutto maniera.
Non in senso dispregiativo, tutt’altro: per il cinema di De Palma la morte è una richiesta di lusso, un abito dalle stoffe stratificate con cui irrobustire visioni e immaginazione. Si potrebbe biasimare l’estremo formalismo con cui De Palma “visualizza” la dipartita, se non fosse per l’estremo rigore, anche nella semplificazione, con cui accende l’accadimento sullo schermo.
La morte, per De Palma, è prima di tutto spettacolo nello spettacolo: in Blow Out (1981), l’urlo di terrore di Sally (il personaggio di Nancy Allen) è quello effettivo che anticipa il suo letale strangolamento. Un’azione che resta: il personaggio di John Travolta, un tecnico del suono di B Movies, lo registra su un suo dispositivo, rendendolo involontariamente un effetto sonoro perfetto per uno dei suoi lavori. Non solo per la sua autenticità, ma per la potenza che deriva dalla sua permanenza su uno strumento fisico. Un doppio canale, quindi: quello di fiction e quello, più concreto, della pellicola stessa.1616Colpisce in questo senso l’accostamento di Daria Pomponio su Quinlan: «è il trionfo del vero, sancito dal finale di Blow Out, che conduce a un risultato paradossale e dunque “osceno” in senso baziniano (a Bazin si devono i divieti di rappresentare al cinema il sesso e la morte), perché ottenuto al prezzo della vita»(https://quinlan.it/2017/11/28/blow-out/).
In Vestito per uccidere (1980) – al netto dei parallelismi con il cinema di Alfred Hitchcock –, sbalordisce la linearità della costruzione dell’immagine tramite cui De Palma architetta la scena dell’omicidio di Angie Dickinson: tutto è perversamente circolare, nell’ottica di una bidimensionalità1717L’aspetto della bi-dimensionalità, seppur in accezione negativa, viene affrontato da Michele Centini su Cinerunner: «il cine-sguardo si pone da tramite tra la vittima e il carnefice, fornendo la soggettiva del delirio rivelatorio, in cui la morte entra come soggetto imperante di un discorso che rivela la doppiezza dell’essere, traducendosi in un mosaico dalla musicalità violenta e suadente, che prende per la collotta lo spettatore solo per lasciarlo, infine, con la sensazione di un nulla di fatto. I personaggi di Vestito per Uccidere non vanno molto oltre la propria definizione d’essere, sono bidimensionali, non acquistano spessore. Così ci si accorge di aver assistito ad una sinfonia di morte ben orchestrata, ma senza alcuna sintesi tra contenuto e forma, come un guscio vuoto» (http://www.cinerunner.com/brian-de-palma/sinfonie-di-morte-ed-elegie-senza-tempo-il-cinema-di-brain-de-palma/).
voluta, che è vessillo estetico e feticcio spiazzante.
La donna è seguita in ascensore dalla “figura” che la ucciderà: la sequenza dell’assassinio è montata sia nella soggettiva della Dickinson che in quella dell’omicida; il primo colpo viene “visualizzato” nello specchio dell’ascensore, in alto a destra dell’inquadratura. Una decisione estetica che detta il bisogno, da parte dell’autore, di rivelare tutte le traiettorie coreografiche della morte; una costruzione che rafforza ancora di più, se necessario, la sua politica fortemente anti-realistica, in cui la crudezza viene sacrificata in nome della spettacolarità.
Scorrendo ancora la filmografia di De Palma, l’autore continua a diversificare la sua entertaining death con valenza significativa: da un lato c’è la circolarità di un titolo come Carlito’s way (1993), che si apre e si chiude con la sequenza dell’agguato fatale al protagonista, Al Pacino, nella stazione della metropolitana. In questo caso lo “spettacolo” avviene all’interno dei suoi occhi: in un gioco di soggettive e primi piani, la morte si presenta in maniera – per l’appunto – circolare, tradizionale, funzionale al plot – à là Bresson. Dall’altro, c’è la portata di un film come Redacted (2007), in cui, come Blow Out, torna a vivificarsi l’aspetto dello strumento: la morte filtrata dai dispositivi. Un’opera in cui, al di là del messaggio politico, a pulsare è soprattutto la potenza della tecnologia, che sovverte radicalmente ogni tabù baziniano: gli orrori e i decessi legati alla guerra diventano non solo rappresentazioni, ma testimonianze integrali di un’azione letale.
Dell’altro autore con cui confrontarsi, Pippo Delbono, si intende qui analizzare uno dei suoi lavori più controversi. In Sangue (2013), presentato al Festival di Locarno, l’artista lavora sul concetto di morte su due binari: uno segue la progressiva scomparsa della moglie di Giovanni Senzani, ex leader delle Brigate Rosse; l’altro, invece, ripercorre gli ultimi momenti di vita della madre dell’autore, che immortala il momento del decesso della donna. Delbono, ricorrendo a strumenti digitali (“liberi” dal giogo della fiction, a differenza di De Palma), filma questi ultimi istanti di vita con quello che alcuni definirebbero coraggio, altri spregiudicatezza immorale,1818Raffaele Meale, su «Quinlan», è tra i pochi a fornire un punto di vista sul titolo di Delbono che superi la logica da «recensione»: «Pippo Delbono non è un artista qualsiasi, né sarebbe possibile etichettarlo senza incorrere nel grave rischio di banalizzarlo: il suo approccio alla materia cinematografica si è finora sempre dimostrato straordinariamente limpido, quasi liquido nella sua capacità di mescolare le intuizioni, facendole cozzare in maniera fragorosa le une contro le altre.[…]. Si può rimanere inebetiti di fronte ad alcune scelte di Delbono, si può trovare persino inaccettabile […] che il regista mostri il corpo non più in vita della madre, ma non vi è nulla di artefatto e di non necessario in ciò che viene portato alla ribalta: l’indugiare nella camera ardente non è lì ad assolvere una qualche funzione meramente scopica, pornografica nella sua pubblica esibizione dell’intimo, ma sintetizza […] l’incapacità di staccarsi dai propri affetti» (R. Meale, Verrà la morte, «Quinlan», 14/01/2014).
offrendo al pubblico una testimonianza del corpo senza vita della donna. Al di là del giudizio (o della sua sospensione), a incidere è soprattutto la disinvoltura con cui Delbono supera – o prova a superare – le frontiere del terrore. Sovvertendo, ancora una volta, quanto sostenuto da Bazin: la morte, nello spettacolo, non va più tenuta fuori dall’inquadratura, per evitare traumi o sconforti morali. Deve – almeno per Delbono – intervenire in maniera politica, attiva. Far parte del gioco.
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Giuseppe Paternò Raddusa scrive il suo primo lungometraggio nel 2020, Maschile Singolare, per la regia di Matteo Pilati e Alessandro Guida. È lo sceneggiatore di Agatha Christie Scomparsa e di Lady Killer, serie in podcast pubblicate su Audible Amazon. È autore e conduttore di alcune serie in podcast della piattaforma Gli Ascoltabili: “Demoni Urbani", “Destini Incrociati”, “Il Muro”. Nel 2019 ha condotto la prima stagione del programma Sostenibilità for Beginners su LifeGate Radio. Scrive di cinema e teatro per Filmidee e Cultweek.
A. Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1973.
M. Centini, Sinfonie di morte ed elegie senza tempo: il cinema di Brian De Palma, «CineRunner».
R. Meale, Verrà la morte, «Quinlan», 14/01/2014.
D. Pomponio, Il testimone auricolare, «Quinlan», 28/11/2017.
J. Rivette, De l’abjection, «Cahiers du cinéma», 120, giugno 1961.
P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2010.
T. Subini, II cinema di Pasolini e la morte: tra complesso della mummia e sindrome di Frankenstein, Università degli Studi di Milano, Milano 2010.
F. Truffaut, Ali Babà e la politica degli autori, «Cahiers du cinéma», 44, febbraio 1955.
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