Hito Steyerl, How not to be seen, 2013, still da video. Image CC 4.0 Hito Steyerl. Courtesy of the artist, Andrew Kreps Gallery, New York and Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul.
How not to be seen: a fucking didactic educational.mov file
Alla Biennale di Venezia del 2013, Il Palazzo Enciclopedico, tra le opere esposte nel Giardino delle Vergini, quasi nascosta in fondo all’Arsenale, veniva proiettata How not to be seen: a fucking didactic educational.mov file, di Hito Steyerl,11Il video di Hito Steyerl, How Not to be Seen: A Fucking Didactic Educational.mov File, 2013, è reperibile sul sito di «Artforum» al seguente link: https://www.artforum.com/video/hito-steyerl-how-not-to-be-seen-a-fucking-didactic-educational-mov-file-2013-165845/
che ironicamente commentava: «Per raggiungerla, bisogna nuotare attraverso due canali e scalare un muro».22Micheal Connor, Hito Steyerl’s “How Not to be Seen: A Fucking Didactic Educational.mov File”, «Rhizome», 2013: https://rhizome.org/editorial/2013/may/31/hito-steyerl-how-not-to-be-seen/.
Il titolo How not to be seen cita l’omonimo corto dei Monty Python del 1970, la parodia di uno spot governativo britannico che dimostrava l’importanza di non essere visti. Il video si apre con un panorama apparentemente deserto, in cui sono nascoste 47 persone – nessuna delle quali è visibile. Nella scena successiva, un uomo si mimetizza nel paesaggio finché il narratore non gli ordina di mostrarsi; non appena obbedisce ed entra nell’inquadratura, viene colpito a morte da uno sparo «This demonstrates the value of not being seen», recita la voce fuori campo, mentre prosegue la cronaca di una serie di esplosioni e colpi di pistola che eliminano tutti coloro che falliscono nel rimanere nascosti.33Il corto dei Monty Python è presente su YouTube al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=C-M2hs3sXGo.
Omaggio al cortometraggio britannico, l’opera di Steyerl si presenta come un manuale didattico che, con tono satirico, illustra tecniche più o meno praticabili per rendersi invisibili alle lenti della videosorveglianza. Nell’era dell’esposizione digitale totale, in cui l’invisibilità sembra destinata all’estinzione, scomparire nel nulla sembra infatti quasi impossibile. Eppure ciò accade – e forse proprio grazie alla moltiplicazione di informazioni e immagini.
«Are people hidden by too many images? Do they go hide amongst other images? Do they become images?»44Göksu Kunak, Interview // Hito Steyerl: Zero Probability and the Age of Mass Art Production, «BerlinArtLink», 2013: https://www.berlinartlink.com/2013/11/19/interview-hito-steyerl-zero-probability-and-the-age-of-mass-art-production/.
si chiede Steyerl, evocando la figura di Andrea Wolf, sua amica e membro della resistenza curda, scomparsa nel 1998 nella regione di Van, probabilmente per mano del governo turco. Con How not to be seen, l’artista trasforma la mimetizzazione in una strategia di guerriglia, un mezzo di resistenza attiva contro i dispositivi di controllo.
Il video, della durata di quindici minuti, è suddiviso in cinque capitoli, guidati da una voce narrante elettronica che oscilla tra il giocoso e l’inquietante. Il primo, How to Make Something Invisible for a Camera, nasce dalla riflessione sulle differenze tra la percezione umana e quella delle macchine. Sempre fortemente politica, Steyerl attinge alle tecniche di occultamento utilizzate dai ribelli, ribaltando i meccanismi di sorveglianza e trasformandoli in strumenti di sovversione:
«Tutto è iniziato con una storia vera che mi è stata raccontata sul modo in cui i ribelli evitano di essere individuati dai droni. Il drone “vede” il movimento e il calore dei corpi, così queste persone si coprono con un foglio di plastica riflettente e si spargono addosso dell’acqua per abbassare la temperatura corporea. Il paradosso, naturalmente, è che un paesaggio disseminato di fogli di plastica lucidi e monocromi sarebbe chiaramente visibile a qualsiasi occhio umano, ma rimane invisibile ai computer del drone».55Hito Steyerl, Laura Poitras, Techniques of the Observer: Hito Steyerl and Laura Poitras in Conversation, «ArtForum International», vol. 53, n. 9, New York, maggio 2015, pp. 308, 314-315, 317.
Nel primo capitolo una lunga ripresa da Google Earth, a partire da una pavimentazione sulla quale sono disegnate alcune barre bianche di diverse dimensioni, zooma all’indietro visualizzando il deserto della California, poi il Nord America e, infine, il pianeta Terra fluttuante. La distesa d’asfalto, il punto di partenza, è un resolution target: una struttura militare “povera” utilizzata negli anni Cinquanta e Sessanta per calibrare le telecamere e i satelliti, nonché per misurare la risoluzione delle immagini aeree, a quel tempo scattate ancora in analogico. «This is a resolution target: it measures the visibility of the world as a picture. Resolution determines visibility. Whatever is not captured by resolution is invisible»66Steyerl, HNTBS, min: 01:35.
spiega la voce elettronica che continua a descrivere il funzionamento del dispositivo anche nei capitoli successivi. A partire dal misuratore di risoluzione, Steyerl elabora un’ipotesi: se intorno agli anni 2000 la precisione delle macchine fotografiche aeree era diventata tale da far coincidere un pixel a un’area di 30 cm2, allora, per diventare invisibili all’occhio elettronico delle fotocamere ad alta risoluzione, si sarebbe dovuti giungere a occupare un’area pari o inferiore ai 30 cm2 e sparire dentro a un pixel (l’elemento primario dell’immagine computerizzata): «To become invisible, one has to become smaller or equal to one pixel» spiega la voce, e a questo punto dai resolution target fuoriescono uomini e donne danzanti che indossano un curioso copricapo: una cesta di Ikea dalle dimensioni di 30 cm3. Per essere invisibili occorre scomparire dall’immagine, pur restando presenti in essa.
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In difesa dell’immagine povera e la bassa risoluzione
La riflessione di Steyerl sull’immagine digitale, scomposta in una miriade di pixel nel video del 2013, era già avvenuta con la pubblicazione su «e-flux» del saggio intitolato In defense of the poor image nel 2009.77Hito Steyerl, In defense of the poor image, «e-flux», 2009: https://www.e-flux.com/journal/10/61362/in-defense-of-the-poor-image/.
Si tratta di un testo parecchio diffuso online e che è diventato presto oggetto di dibattito tra artisti e teorici di tutto il mondo. Qui Steyerl definisce l’immagine ad alta definizione come “ricca”, in quanto legata a un potere economico e autoritario che, nell’attenzione alla sua resa estetica, cela il controllo: dalla fase di realizzazione alla circolazione, sino al suo impiego pubblico. Come strumento di emancipazione da questo sistema, l’artista proponeva di contrapporre alla produzione di fotografie patinate l’utilizzo e la trasmissione di immagini a bassa risoluzione. Anche la videoartista Simonetta Fadda, nel 1999, nel primo studio italiano sulla videoarte come forma di attivismo politico, esprimeva un’intuizione lungimirante:
«All’immagine della realtà, con il suo nitore, verrebbe affidato il compito sociale di sostituire la realtà stessa che essa riproduce, in sé sporca e contraddittoria ovvero, in una parola, impresentabile. L’atteggiamento che difende l’alta definizione, quindi, è in realtà spinto dal desiderio di igienizzare e edulcorare il mondo».88Simonetta Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione, Genova, Costa&Nolan, 1999.
Questo discorso, che è applicabile sia all’immagine in movimento che a quella statica, esplode definitivamente con l’uso reale che si fa dei file che circolano tra gli utenti del web: in linea teorica, le immagini digitali possono essere riprodotte infinitamente senza subire la perdita dei dati, ma in realtà, sottoposte a un continuo processo di tagli, compressioni, download, invii e rinvii, queste cambiano informazioni e, alterandosi, generano di volta in volta un panorama visuale sgranato e distorto. Inoltre, nella bulimica diffusione di immagini, si perde l’autorialità e, di conseguenza, ci si apre di fronte alla possibilità di liberarsi dal copyright e dalle sue barriere legali. La tematica della bassa risoluzione è dunque indagata da molti artisti, che la accolgono nella propria pratica comprendendone gli aspetti intrinsecamente politici.
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Ad esempio, il fotografo Thomas Ruff, nella serie Nudes (1999 – in corso), recupera da Internet diverse immagini pornografiche sgranate, le ingigantisce e le elabora digitalmente, aggiunge sfocature, effetti di movimento, e interviene su alcuni dettagli attraverso la modifica dei singoli pixel che le compongono. Ruff rende esplicito il desiderio e il voyeurismo dell’utente che cerca e utilizza queste fotografie e, attraverso la loro stampa, le trasforma in oggetto fisico sottraendole all’effimero a cui sono solitamente destinate. Con la successiva serie JPEGS (2004 – 2007) il fotografo attinge nuovamente da Internet e dal proprio archivio personale, selezionando foto di catastrofi naturali e umane: inondazioni, funghi atomici, il crollo delle torri gemelle e foto satellitari che avrebbero provato l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq; ne rimpicciolisce le dimensioni, ne comprime i file e successivamente le espande di nuovo, sottoponendole allo stesso processo di ingigantimento della serie precedente. A differenza di Nudes, in cui il reticolo di pixel che componeva la foto rendeva incognito il soggetto erotico, ora, in assenza della figura umana, è l’oggetto dell’immagine stessa a diventare anonimo. A questo punto occorre chiedersi se nella mancanza di dettagli di una fotografia violenta come quella di un’esplosione si perdano anche l’odore del fumo e il rumore delle grida che hanno circondato la scena. Infatti, la rappresentazione sui media di scene violente, di contesti di guerra e di corpi straziati avviene spesso tramite la censura dei dettagli più cruenti sotto sfocature o grandi pixel applicati in post-produzione.
Ecco allora che anche la bassa definizione viene utilizzata da quello stesso sistema mediatico che di solito esalta la diffusione di immagini perfette. Questa contraddizione è evidenziata dall’artista Thomas Hirschhorn, che in occasione della presentazione dei suoi Pixel collages (2015 – 2017), scrive: «The world has to be “de-pixelated”».99Thomas Hirshhorn, De-pixelation, Parigi, 2017: http://www.thomashirschhorn.com/de-pixelation/.
Come Ruff, anche Hirschhorn scarica le sue immagini da Internet, selezionando due tipologie di fotografie: quelle pubblicitarie, diffuse su riviste patinate, e foto violente, spesso scattate da cellulari e da telecamere di videosorveglianza. Una volta collezionate, le immagini sono rielaborate dall’artista che vi censura con dei grandi pixel ciò che solitamente è esplicito (i fisici delle modelle delle pubblicità, gli oggetti di consumo e di desiderio) e rivela le scene più brutali (i corpi morti e il loro sangue); successivamente, in sede espositiva i Pixel collages sono allestiti alternati l’un l’altro. Con questa operazione, l’artista effettua un ribaltamento: nella giustapposizione tra scene sconcertanti e foto di moda, il pixel è utilizzato non più come espediente utile a offuscare ma come strumento di messa in evidenza del violento, svelando come l’ipersensibilità mediatica sia la causa della censura che nel tentativo di una rassicurante autoprotezione porta in realtà all’esclusione dell’altro e del suo dolore.
Dal controllo delle immagini alle immagini di controllo
Se la verità può essere nascosta in piena vista, allora vedere non significa necessariamente sapere. Quando Steyerl proponeva di mimetizzarsi all’interno dell’immagine per eludere i sistemi di sorveglianza ragionava per assurdo: era già consapevole di quanto questi fossero ben più pervasivi, estendendosi oltre la semplice analisi del visibile. La consapevolezza di essere costantemente monitorati – sia negli spazi pubblici che in quelli privati – è infatti una condizione ormai interiorizzata nell’esperienza contemporanea.
Già nel 2001, il cineasta Harun Farocki, con l’opera video Die Schöpfer der Einkaufswelten (The Creators of the Shopping Worlds) indagava il ruolo dell’architettura dei centri commerciali come strumento di controllo. Questi spazi, infatti, non sono solo progettati per ospitare i consumatori, ma per seguirli con le telecamere, orientarne i movimenti e incentivarne gli acquisti.1010Miriam De Rosa, Poetics and politics of the trace – Notes on surveillance practices through Harun Farocki’s work, «NECSUS. European Journal of Media Studies», Nr. 1, 2014, 129-149.
In opere successive come Gegen-Musik (2004), Farocki amplifica questa riflessione attraverso un uso eterogeneo di fonti: infografiche che analizzano il traffico autostradale si intrecciano a riprese di telecamere termiche, capaci di scrutare oltre le mura degli edifici, mentre il sonno di un bambino viene osservato attraverso il tracciato del suo elettroencefalogramma in movimento. L’artista effettua qui un’accumulazione di immagini e le compone in un video-collage con l’obiettivo di dimostrare come l’enorme quantità di informazioni a cui è possibile risalire trasformino anche il singolo soggetto in un individuo altamente tracciabile.
A vent’anni di distanza dalla produzione di Gegen-Musik, le considerazioni di Farocki restano sorprendentemente attuali. Già allora l’artista individuava nell’aumento esponenziale delle informazioni non solo un accumulo, ma la messa in pratica di una loro connessione attraverso reti integrate e banche dati. Oggi, questo processo ha raggiunto un livello ancora più definitivo e radicale: ogni azione compiuta dagli utenti su Internet è attentamente tracciata, alimentando enormi archivi di dati analizzati da algoritmi di machine learning e intelligenza artificiale, in continua evoluzione e sempre più sofisticati. Persino il semplice upload di un selfie su un social network contribuisce ad affinare i sistemi di riconoscimento facciale, che ormai raggiungono un’accuratezza del 97% e sono in grado di identificare un individuo anche in immagini di appena 100×100 pixel – un centesimo rispetto alla risoluzione media di un post su Instagram.1111Le informazioni qui riportate sono prese da un articolo abbastanza datato: vista la velocità dello sviluppo di questi mezzi evidenzio che oggi la tecnologia di riconoscimento facciale è ancora più sviluppata (si vedano startup come Clearview AI o PimEyes, di cui parla in modo estensivo la giornalista Kashmir Hill: https://www.nytimes.com/2023/09/09/technology/google-facebook-facial-recognition.html), ma in questa sede vi faccio ricorso in quanto utile a livello dimostrativo.
L’articolo in questione: Christy Lange, Surveillance, Bias and Control in the Age of Facial Recognition Software, «Frieze», 2018: https://www.frieze.com/article/surveillance-bias-and-control-age-facial-recognition-software.
Per rendere tangibile la vastità di questi dataset, l’artista e ricercatore Adam Harvey ha creato MegaPixel (2017-ongoing), un’installazione interattiva che combina una videocamera, un computer con software di image processing e un monitor. La telecamera cattura il volto del visitatore, il software lo confronta con quelli dei 672.000 individui presenti nel dataset MegaFaceV2 e sullo schermo appaiono i suoi molteplici doppelgänger. MegaFaceV2 è un vasto archivio pubblico di volti, composto da oltre 4,2 milioni di fotografie raccolte da Flickr senza il consenso degli autori, e rappresenta uno strumento cruciale per l’addestramento dei sistemi di riconoscimento facciale in tutto il mondo. Come spiega Valentina Tanni:
«Questi dispositivi raccolgono scatti e riprese video senza soluzione di continuità, andando ad alimentare giganteschi archivi di immagini che nella maggior parte dei casi non verranno mai visualizzate da un occhio umano. Sono insomma immagini prodotte dalle macchine per le macchine, guardate da occhi elettronici […]».1212Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, Nero, Roma, 2020.
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Nel suo automatismo, l’occhio elettronico spesso non ha memoria di ciò che ha visto: le registrazioni di molte telecamere di videosorveglianza vengono solitamente sovrascritte ogni 24 ore e non lasciano alcuna traccia di sé. Infinite quantità di immagini sono generate di continuo, e di continuo scompaiono in un ricambio ininterrotto. Molti dispositivi di sorveglianza, specialmente quelli più economici, trasmettono il proprio streaming online ed è semplice accedervi: al momento dell’acquisto, le telecamere sono dotate di un sistema di protezione poco sicuro che utilizza password generiche sempre uguali e – se non sono modificate dall’utente – è possibile reperirle facilmente su Internet. Sfruttando questa faglia nel sistema, l’artista Irene Fenara, con la serie Self Portraits from surveillance camera (2018 – in corso), individua dispositivi di videosorveglianza accessibili, si posiziona di fronte a essi con un abbigliamento sempre identico, fissa l’obiettivo meccanico e salva il suo autoritratto tramite uno screenshot. Il punto di vista della macchina è fisso, e lei vi si inserisce, compiendo un’incursione nel suo campo visivo. Ne ricava immagini in cui appare immobile in ambienti di natura eterogenea: parchi giochi, fermate dell’autobus, chiese, parcheggi, paesaggi montani innevati e stabilimenti balneari chiusi per il periodo invernale. I dettagli del contesto si dissolvono nella bassa risoluzione, il suo corpo a volte risulta distorto dalle lenti grandangolari delle telecamere, ma il soggetto dell’immagine rimane inconfondibilmente lei – tanto che la dimensione della stampa dello scatto è determinata dalle proporzioni del suo stesso corpo.

Con questo lavoro, Fenara sottrae la propria rappresentazione all’incessante flusso di immagini prodotte da questi dispositivi, restituendole una fisicità attraverso la stampa. In questo gesto si cela un atto di resistenza ai sistemi di controllo, che l’artista sovverte trasformandoli in strumenti della propria autorappresentazione.
Se in How to Disappear Hito Steyerl proponeva strategie per eludere la sorveglianza e i sistemi di controllo invasivi già ampiamente analizzati da Harun Farocki, Irene Fenara, invece, cerca un modo di riapparire, di riappropriarsi della propria immagine. Come dimostrano i lavori di Thomas Ruff e Thomas Hirschhorn, è possibile occultare la verità dietro immagini a bassa risoluzione, ma queste non potranno mai sostituire la realtà, che rimane troppo fisica e tangibile per essere del tutto nascosta. I tentativi di scomparire dentro un’immagine si rivelano sempre paradossali e impraticabili – e, in fondo, persino nel celebre sketch dei Monty Python, anche chi trova un rifugio apparentemente infallibile finisce per essere fatto saltare in aria.
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Chiara Badde è laureata in Storia dell’Arte alla Sapienza e attualmente lavora come mediatrice culturale presso la Biennale di Venezia. Ha collaborato con gli archivi della Galleria Nazionale e con Paratissima, fiera torinese, dove ha curato le mostre “Music for airports” e “Bahar Heiderzade: i miei sogni ballano per la libertà”.
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Simonetta Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione, Genova, Costa&Nolan, 1999.
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Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, Roma, Nero, 2020.
Stefano Velotti, Sotto la soglia del controllo. Pratiche artistiche e forme di vita, Bari, Laterza, 2024.
Sitografia
Kashmir Hill, The Technology Facebook and Google Didn’t Dare Releas, in «NewYork Times», 2023. https://www.nytimes.com/2023/09/09/technology/google-facebook-facial-recognition.html
Thomas Hirshhorn, De-pixelation, Parigi 2017 http://www.thomashirschhorn.com/de-pixelation/
Christy Lange, Surveillance, Bias and Control in the Age of Facial Recognition Software, in «Frieze», 2018. https://www.frieze.com/article/surveillance-bias-and-control-age-facial-recognition-software
Steyerl Hito, in defense of the poor image, in «E-flux», 2009, reperibile al link: https://www.e-flux.com/journal/10/61362/in-defense-of-the-poor-image/
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