Barbara Grespi sostiene che «nel gesto prevalgono le forme di contagio sociale, i processi imitativi, e soprattutto le strutture di potere, perfettamente riflesse dall’atteggiarsi dei corpi».11Barbara Grespi, Figure del corpo. Gesto e immagini in movimento, Meltemi, Milano, 2019, p.15.
La riflessione sul cinema come immagine e corpo in movimento, nonché sul rapporto tra il corpo schermico e il corpo spettatoriale è stata al centro di un Laboratorio di scrittura critica per il cinema e lo spettacolo dell’Università IULM che, nell’a.a. 2019-’20 ha dato modo allə studentə di riflettere sulla relazione tra la dimensione corporea e quella socio-culturale dell’esperienza cinematica, le forme dell’immaginario e i processi di soggettivazione.22I videosaggi qui presentati sono stati realizzati da alcunə studentə che hanno seguito il laboratorio, pensato come modulo del corso di Film Studies tenuto da Luisella Farinotti all’interno del Corso di Laurea Magistrale in Televisione, cinema e new media, nell’a.a. 2020-’21.
Ci sono i corpi sullo schermo, ma anche il corpo di chi guarda, di unə spettatorə situatə, implicatə e sollecitatə a livello multisensoriale. Non a caso, i videosaggi33Si tratta di una forma di critica che usa il (ri)montaggio come «metodo analitico che consente di creare nuovi percorsi di senso». Cf. Chiara Grizzaffi, I film attraverso i film. Dal “testo introvabile” al videoessay, Mimesis, Milano, 2017, p. 56. Ne abbiamo parlato anche qui.
che qui presentiamo si concentrano su un cinema che è spesso concepito per turbare, sconvolgere, suscitare reazioni forti sia sul piano fisico che su quello emotivo.
Vitalità e lutto, eros e pulsione di morte sono al centro della riflessione sul corpo a cui invita Dogs don’t wear pants, di Chiara Di Noto: ipnotico e coinvolgente, il video alterna un ritmo incalzante a momenti più distesi e meditativi, puntellando con poche parole chiave e con una citazione da Gilles Deleuze un lavoro che altrimenti si affida completamente all’immagine e al suono, per restituire la dimensione sensuale di un film il cui protagonista anela proprio di tornare a “sentire”.
Somatica. The Body According to Bertrand Mandico, di Barbara Martire, abbraccia la natura anarchica, sovversiva e queer dell’opera del cineasta francese, distillandone la poetica in un collage di bizzarre simbologie e giocose mostruosità: il video mette in risalto la fluidità dei corpi che pulsano e si disfano, si legano e si separano in una continua trasformazione
Anche Lost in Reflection, di Elisa Chiari, non fa ricorso a interventi di natura verbale come testo scritto o voice over per lasciare che a parlare siano, di nuovo, le immagini: in questo caso, una collezione di riflessi, di immagini allo specchio, di forme e cliché della messa in scena del corpo transgender, troppo spesso confinato dentro narrazioni della sofferenza affidate ad attori e ad attrici cisgender.
Con Body Swap, invece, Francesca Trovato sperimenta con split screen e picture in picture per rendere immediatamente visibile come l’espediente narrativo del body swap sia l’innesco per una serie di situazioni ricorrenti e ripetute fino alla sclerotizzazione, mostrando come, nel tentativo di rovesciare le differenze di genere o di età si finisca – fatte salve alcune eccezioni – col perpetuarne gli stereotipi.
Luigi Bontempi, infine, attraverso l’imitazione, la completa adesione alle strategie formali del suo oggetto – in particolare all’estetica dei titoli dei film di Gaspar Noé – e un collage di citazioni bibliografiche, invita a riflettere sull’esperienza spettatoriale sollecitata dai film del cineasta franco-argentino e al tempo stesso ambisce a richiamarla alla memoria – e ai sensi.
Chiara Di Noto
Urti violenti, pelle scorticata o bruciata, organi in mostra e parti del corpo isolate, se non asportate con dolore. In Dogs don’t wear pants il dolore della scomparsa di una persona cara si trasforma in un dolore fisico, e allo stesso tempo in una piacevole forma di erotismo che lascia segni evidenti sulla pelle. Juha, segnato dalla perdita della moglie, la cerca nel contatto con i vestiti e il profumo della donna, ritrovandone la sessualità nelle ultime tracce materiali di un’esistenza passata. Questo contatto superficiale non è tuttavia sufficiente per soddisfare i desideri di Juha che, travolto dalla dominatrix Mona, scopre di provare un intenso piacere nello strangolamento, e si avvicina al mondo delle pratiche BDSM. È nel disfacimento del corpo e nel dolore fisico che i due personaggi ritrovano l’armonia interiore. La macchina da presa fa a pezzi i corpi in primi piani e dettagli che mostrano l’oggetto parziale, in quella che Deleuze chiama «immagine-pulsione»:
«L’oggetto della pulsione è sempre l’oggetto parziale o il feticcio […]. Il primo piano è oggetto parziale […]. La pulsione è un atto che lacera, dilania, disarticola. La perversione non è dunque la sua deviazione, ma la sua derivazione».44 Cf. Gilles Deleuze, Dall’affetto all’azione: l’immagine pulsione, in Id., L’image-mouvement. Cinéma 1, Les Éditions de Minuit, Paris, 1983; trad. it. L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino, 2016, cit., p. 159.
Dietro il ritmo frenetico e coinvolgente della trasgressione si nascondono quindi la lentezza e il dramma della morte, che avvolge l’intero film come un alone sottile sin dalle prime scene. Lo strangolamento, questo contatto violento e impetuoso, genera un avvicinamento emotivo e al contempo riporta Juha indietro nel tempo, dove il protagonista ha la possibilità di esplorare sé stesso, di tornare a una dimensione embrionale, una percezione prolungata. È in questi momenti di rivelazione, di ascesa a un’altra dimensione – che richiamano le sacre rappresentazioni dell’ascensione di San Francesco e dell’estasi di Santa Teresa – che Juha ritrova della pace interiore nell’accettazione della propria soggettività.
Barbara Martire
Se in Sogni d’Oro (1981) Nanni Moretti esorta a «ricordare che nel letto non ci sono due organi sessuali, ma due persone», in un improbabile remake Bertrand Mandico direbbe che nel letto – o su un prato d’erba cangiante – non ci sono due persone ma due organi sessuali, e stanno benissimo. Nell’immaginario del cineasta francese, che preferisce la pellicola al digitale perché «la celluloide è per definizione un medium sensuale», il corpo – non gli attori, ma le loro componenti biologiche – è protagonista nella sua forma più pura.
In una dimensione onirica che increspa i confini e le forme, riconoscibili e rassicuranti, della quotidianità, i corpi di Mandico mutano costantemente: la prosopografia e la natura del loro sesso sono oggetto di un rimodellamento che il regista stesso definisce “vitale”.55Nicholas Elliott, Bertrand Mandico on Metamorphosis, Lovable Monsters, and the Obscure Object of Desire, «Extra Extra Magazine», 10, 2018.
Lo smantellamento del sistema-corpo – come nel caso degli alberi dotati di sesso in Y’a-t-il une vierge encore vivante? (2015) – compone il ritratto di questo singolare “manichino vivente” che è l’essere umano nell’universo di Mandico: un produttore di simulacri che vivono, si trasformano e assumono ruoli fuori dal loro “padrone”.
La giustapposizione di corpi e oggetti in Our Lady of Hormones (2014) o Apocalypse After (2018), stimolano un senso di torsione, svuotamento e vertigine, in quella che Gianfranco Bettetini definisce “protesi simbolica” dellə spettatorə,66Luca Malavasi, Racconti di corpi: cinema, film, spettatori, Kaplan, Torino, 2009.
e che in un gioco di associazioni richiama la visione deformante di David Cronenberg, quando fa convivere oggetti e carne (si pensi alla pistola d’ossa in eXistenZ del 1999).
In Mandico, il corpo, pure smembrato, deformato e stressato, mantiene la sua capacità di percepire,77Elliott, cit.
e addirittura la amplifica, liberato dal suo involucro: se il body horror di Carpenter in La Cosa (1982) insiste sulla mostruosità della cesura tra apparenza e identità, e l’Alien (1972) di Scott consacra a orrore l’alterità di una creatura il cui sangue corrode gli oggetti, il monstrum in Mandico è sensuale, non repulsivo, eppure grottesco.
La sbavatura del confine prescrittivo che demarca dualità tipiche come soggetto e oggetto, uomo e donna, non può che trovare un terreno fertile di simboli e significati nella sfera sessuale. Gli occhi di Giovanna D’Arco, che animati di volontà propria si protendono sul corpo inerme di una giovane, i seni che si presentano come ospiti improvvisi del corpo di una donna in Souvenirs d’un montreur de seins (2016), persino lo strano oggetto del desiderio di Lune e Lautre in Our Lady of Hormones (2014) sono schegge fuggite da un marasma di impulsi, inestricabile e imbarazzante.
Elisa Chiari
Il cinema ha offerto diverse rappresentazioni dei corpi transgender, talvolta piuttosto problematiche: dalla tradizione del cross-dressing drag – The Rocky Horror Picture Show (1975), Priscilla, Queen of the Desert (1994) – alla sottocategoria horror dei transkiller, dove il soggetto trans viene associato a disturbi psicotici e violenti – Psycho (1960), Dressed to Kill (1980), Silence of the Lambs (1994) – fino ad alcuni film hollywoodiani come Boys Don’t Cry (1999), in cui viene enfatizzata la componente tragica dei personaggi e la violenza del loro contesto sociale. Si tratta di rappresentazioni oggetto di numerose critiche da parte della comunità trans, soprattutto per il fatto che la quasi totalità di questi film è interpretata da attori e attrici cisgender. Infatti, dei nove film presi in considerazione dal videoessay solamente uno è interpretato da un’attrice trans: Daniela Vega in Una mujer fantástica (Sebastián Lelio, 2017).
Il videosaggio usa il montaggio sequenziale per mettere in evidenza una costante che accomuna i diversi film presi in considerazione: la presenza quasi esasperata di specchi e altre superfici riflettenti, che enfatizzano il carattere performativo del genere come sdoppiamento tra il “being” del proprio sesso e il “doing” del genere a cui il soggetto decide di appartenere.88Judith Butler, Gender trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York, London, 1990; trad. it. Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Milano, Sansoni, 2004.
Il titolo prende spunto dal noto film di Sofia Coppola, Lost in Translation, che fa riferimento a quei modi di dire e a quelle sfumature tipiche di una lingua che si perdono nella traduzione. Allo stesso modo, Lost in Reflection si riferisce alla complessità e alle sfaccettature della tematica transgender, che rischiano di dissolversi in numerosi stereotipi e topoi che richiamano il disagio psichico e la disforia fisica,99Cael M. Keegan, Moving bodies: sympathetic migrations in transgender narrativity, University of Colorado Boulder, 2013.
anziché configurarsi come uno spazio aperto e mutevole per inedite modalità di rappresentazione.
Francesca Trovato
Secondo Ahmed Abdel-Raheem, le strutture che sorgono dalle combinazioni di situazioni incompatibili nei film che ritraggono scambi di corpi ci consentono di testare la flessibilità del nostro sistema mentale e concettuale, esplorando le conseguenze sociali ed emozionali che si possono innescare. In particolare, vengono chiamate in causa condizioni riguardanti la nostalgia per il passato o il desiderio degli individui di cambiare vita.1010Ahmed Abdel-Raheem, Mental models, (de)compressions, and the actor’s process in body-swap movies, John Benjamins Publishing, 2019.
Sin dalla sua introduzione nel cinema mainstream con Freaky Friday (Gary Nelson, 1976), il body swap è stato un affidabile espediente per la commedia, che porta in scena l’ossessione nel transfert tra corpi, proiettando i personaggi in nuovi contesti, e mostrando il lato ridicolo di una situazione grave o il lato più serio del ridicolo. Oltre a mettere in luce le differenze di età, sesso e contesti sociali, la convenzione filmica funziona come racconto morale, predicando l’importanza dell’empatia e del “mettersi nei panni di qualcun altro”, di cui si può arrivare persino a godere.
Il videosaggio enfatizza il confine tra le aree grigie della mascolinità e della femminilità, di tradizione e modernità, ma anche tra le diverse fasi della vita e le norme sociali. L’accostamento, la sovrapposizione e la continua comparsa di riquadri multipli nel video ricreano visivamente un catalogo dei topoi di rappresentazione più comuni: il momento dello scambio, che avviene spesso attraverso l’incontro con un oggetto misterioso; il risveglio nel nuovo corpo; la presa di coscienza della realtà della trasformazione attraverso l’incontro con uno specchio o una superficie riflettente.
In particolare, il videosaggio mette in evidenza la ricorrenza di una serie di rappresentazioni che restano poco approfondite e tendono a riprodurre dei cliché circa le aspettative comportamentali a seconda del sesso o dell’età di appartenenza. Tra i vari lungometraggi presi in considerazione solamente un titolo sembra allontanarsi leggermente dai topoi più classici della narrazione del body swap: Your Name (2016) del giapponese Makoto Shinkai. Il film, sebbene evidenzi sempre le contraddizioni delle norme di genere all’interno della società giapponese, aggiunge ulteriori livelli di transfert collocando i personaggi su diverse linee temporali e in ambientazioni antitetiche, esaltando il confronto tra i paesaggi rurali giapponesi e la metropoli di Tokyo.
Luigi Bontempi
I film del cineasta franco-argentino Gaspar Noé propongono un’esperienza filmica cosiddetta “aptica”, una percezione dell’immagine non solo visiva ma anche tattile, creando così un’idea di cinema multisensoriale, che non sollecita più esclusivamente il senso della vista e dell’udito. Esibendo corpi ora svuotati di vitalità, ora fortemente vivi e realistici, Noé sembra voler ribadire che l’unico corpo vivo è quello di noi spettatori, invitati a immergerci nel racconto con continui stimoli e sollecitazioni, per essere spinti fuori un attimo dopo.
Utilizzando il brano Touch dei Daft Punk e Paul Williams, e il font Futura per i titoli e le didascalie – che richiama quello usato dal regista nei suoi film –, il videosaggio evidenzia diversi leitmotiv ricorrenti nella filmografia di Noé: le inquadrature soggettive e semi-soggettive, l’impiego frequente di interpellanze, i suoni a basse frequenze, la scelta di attori che spesso non sono professionisti. Tutti espedienti filmici che sollecitano l’immersione spettatoriale nei corpi in scena. Il videosaggio poggia inoltre su due riflessioni molto diverse tra loro, suggerite da alcune letture critiche del cinema di Noé e utilizzate come fossero l’una la risposta dell’altra: una di Vivian Sobchack e l’altra di Pier Paolo Pasolini.
La teorica Vivian Sobchack sostiene che durante la percezione filmica si viene a mescolare la comprensione intellettuale dell’opera con una cognizione fortemente più corporea rispetto a ciò che si sta guardando, poiché «il film è sempre espressione di un’esperienza“…il film è sempre espressione di un’esperienza”, e tale espressione viene a sua volta esperita, così riconvertendosi in esperienza di un’esperienza»,1111Thomas Elsaesser, Malte Hagener, Teoria del film: un’introduzione, Einaudi, Torino, 2007, p. 129.
facilitando in questo modo tutti i processi di identificazione, immedesimazione e immersione dellə spettatorə nella diegesi. In Lettere Luterane, invece, Pier Paolo Pasolini parla di corpi svuotati, in cui la realtà non abita più, a causa di una crescente ansia di conformismo, ponendo così al centro della discussione la perdita della dimensione corporea: Noé sembra trarre spunto proprio da questo pensiero e agire conseguentemente nello stravolgere l’esperienza filmica, rendendola multisensoriale e d’impatto per la mente e il corpo dellə spettatorə.1212Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, giugno 1975. I punti di contatto tra Pasolini e Noé sono ben evidenziati da Fabio Fulfaro nella sua recensione di Irréversible, «Lo Specchio Scuro», 29 agosto 2017.
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Annalisa PellinoAnnalisa Pellino è PhD candidate in Visual and Media Studies presso l'Università IULM di Milano. I suoi attuali interessi di ricerca riguardano la convergenza tra il cinema, l'arte contemporanea e la cultura visuale, con particolare riferimento agli usi estetici e politici della voce come medium del linguaggio ed estensione materiale del corpo. I suoi contributi sono apparsi su «Il Tascabile», «doppiozero», «e-flux» e «Droste Effect». Collabora con la sezione di Cinema & Contemporary Art della Spring School dell'Università di Udine-Gorizia (MAGIS) e ha pubblicato Immagini in movimento, decolonialità e pratiche simboliche in Documenta 11 (2002), in Paolo Giovannetti (a cura di), Le forme del simbolo. Discorsi e pratiche del contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2020. È co-founder e attivista di AWI – Art Workers Italia.
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Chiara GrizzaffiChiara Grizzaffi è assegnista di ricerca presso l’Università IULM di Milano. Tra i suoi interessi di ricerca ci sono i video essay e più in generale le forme audiovisive di riflessione sul cinema, il cinema nonfiction, le pratiche amatoriali nell’era digitale, e i modi e le culture della produzione cinematografica in Italia. Ha pubblicato saggi e videosaggi in riviste come «[in]Transition», «Imago», «Bianco e Nero», «Cinergie», «The Cine-Files». Ha inoltre scritto contributi per diversi volumi, tra cui "Writing About Screen Media", a cura di Lisa Patti (Routledge 2019), "Harun Farocki. Pensare con gli occhi", a cura di Luisella Farinotti, Barbara Grespi e Federica Villa (Mimesis, Milano 2017) e "Critofilm. Cinema che pensa il cinema", a cura di Adriano Aprà (Pesaro Nuovo Cinema, 2016). La sua monografia "I film attraverso i film. Dal 'testo introvabile' ai video essay", è uscita per Mimesis nel 2017.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.