Juliana Curi, fotogramma dal film da Uýra: The Rising Forest, 2022.
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Cybernetic Culture Research Unit

Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

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Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

Sei paranoicə? Questo scritto, purtroppo, è per te!
Magazine, AUTOCOSCIENZA – Parte II - Aprile 2024
Tempo di lettura: 20 min
Caro Gervasi

Sei paranoicə? Questo scritto, purtroppo, è per te!

Due o tre cose da imparare, a proprie spese, sulla transizione.

Cassils, Humane Measure, 2022.

Sono le 10.01 quando mi presento all’ufficio dell’università in cui ho studiato per firmare l’accordo di riservatezza. Questa firma dovrebbe essere il penultimo passaggio dell’iter che mi permetterà di attivare la carriera alias. Prima che la segreteria proceda a rettificare il mio nome d’elezione e i pronomi che ho scelto, l’accordo dovrà essere controfirmato dal Magnifico Rettore. La procedura, prevista in molti ma non in tutti gli atenei italiani, non è uniforme: alcune università richiedono la documentazione psicologica ed endocrinologica, altri (pochi) si fanno bastare l’autodichiarazione della persona trans*. Nel mio caso ho dovuto consegnare al Comitato Unico di Garanzia11Non ho idea di chi faccia parte di questo fantomatico comitato preposto a stabilire se ho le credenziali per accedere alla carriera alias. Ricordo a chi legge e a me stesso che quest’ultima non ha valenza legale (l’accordo di riservatezza ripete il concetto fino alla nausea, mettendo centoventi mani avanti), ma è uno strumento per rendere la vita accademica delle persone trans più agevole.
la diagnosi erogata da un/a professionista della salute mentale e un documento rilasciato da un/a endocrinologo/a che attesti che ho iniziato una terapia ormonale sostitutiva. Tutte le volte che leggo la diagnosi della psicologa mi stupisco di quanto un documento che dovrebbe dire la verità più profonda su me stesso e sul mio “sesso” sia così platealmente distante da quello che sento e da quello che desidero. Per inciso, se la dicitura “vero sesso” vi sembra demodé, fidatevi di me: diversi uomini mi hanno chiesto, su dating app, quale fosse il mio “vero sesso”, introducendo l’invito a entrare in confessionale con il più inquietante dei preamboli:22Le persone trans sanno perfettamente a cosa mi riferisco.
«Posso farti una domanda personale?». 

La diagnosi, dicevo, mente. Mi permette di fare quello che voglio, di iniziare a prendere il testosterone, di attivare la carriera alias. Mi permetterà, in futuro e se me lo accollerò, di rettificare i miei documenti, ma mente e continuerà a mentire. Crea quello che dovrebbe limitarsi a descrivere. Carta canta, ma è canto di sirena. La psicologa che mi ha “seguito” ha volontariamente infranto le linee guida: si è fidata quando le ho detto che sono trans, non ha voluto parlarne, non ha voluto ripercorrere la mia vita in cerca di conferme o scandagliare la mia psiche per scongiurare eventuali passi indietro. Nel momento in cui mi ha consegnato il documento – ed è assurdo che a volte i più grandi cambiamenti avvengano grazie al passaggio di mano di un foglio A4 – il suo imbarazzo era evidente. Sapeva, perché ne avevamo parlato, che sono una persona non binaria, che desidero cambiare alcune cose, compreso il mio corpo, ma che non mi sento un uomo. Sapeva, perché è capitato di parlarne, che la disforia, la voglia di cambiare, non si accompagna all’odio per il mio corpo. Non dico questo a svantaggio di chi, legittimamente, desidera transizionare seguendo percorsi più binari. Il mio obiettivo polemico non sono le scelte delle persone trans, qualsiasi esse siano, ma la strettoia in cui ci si trova schiacciatə quando si decide di intraprendere una transizione anche medica e/o legale.“…Il mio obiettivo polemico non sono le scelte delle persone trans, qualsiasi esse siano, ma la strettoia in cui ci si trova schiacciatə quando si decide di intraprendere una transizione anche medica e/o legale.” Mentre leggevo la diagnosi, la psicologa mi ha spiegato che il DSM-5 prevede una serie di criteri che definiscono la disforia di genere e che più se ne spuntano, più la diagnosi risulterà efficace e credibile. Mi ha detto che nella mia ne ha messi cinque su sei. Mentre parlava mi è tornato in mente di quando alle superiori copiavamo le versioni cercando di non farci sgamare. Una versione perfetta avrebbe destato sospetti, soprattutto se la media pregressa era del sei scarso. Una versione ben fatta ma condita sapientemente di qualche errore avrebbe invece piacevolmente sorpreso la professoressa, senza far nascere troppi dubbi sulla sua autenticità. Sorrido nell’immaginare che la mia psicologa abbia fatto un ragionamento simile: sei criteri su sei sarebbe stato troppo, il trans* perfetto non esiste. Cinque su sei è più che sufficiente a non suscitare obiezioni, a far filare tutto liscio. Uno dei criteri prescrive «un forte sentimento di essere trattato in funzione del proprio genere di elezione», un altro «una forte convinzione di avere i sentimenti e le reazioni tipiche del proprio genere di elezione». Questo approccio binario ed essenzializzante mi dà i brividi. Che le diagnosi abbiano una funzione oggettivante, che contribuiscono significativamente a plasmare i tipi umani che dovrebbero descrivere, è cosa nota. Che le tassonomie non siano ingenue, pure. Altra cosa è trovarsi presi nelle spire del potere psichiatrico, vedersi tassidermizzati dalla sua vulgata triste. La verità è che la disforia più acuta me la dà leggere la diagnosi di disforia e realizzare che parla di me. Questi pensieri mi accompagnano latenti mentre varco il portone del rettorato. Sento la paranoia attivarsi. Come devo presentarmi alle persone dell’ufficio? Come mi vedranno? Penseranno che sono un ragazzo o una ragazza? L’interazione sarà sgradevole? Mentre mi avvicino all’ufficio che mi è stato indicato ripenso a quello che Sedgwick, una delle mie autrici preferite in assoluto, ha scritto a proposito della paranoia. In un saggio del 2003, Touching Feeling: Affect, Pedagogy, Performativity, l’autrice riporta un dialogo avuto con un’amica negli anni successivi alla diffusione dell’epidemia di AIDS. Discutendo della possibilità che il virus fosse stato volontariamente diffuso dall’alto per liberarsi di intere parti di popolazioni (omosessuali, africani/e e tossicodipendenti in primis), l’amica ha risposto a Sedgwick che la questione non la interessava proprio. Dopotutto, che si fosse trattato di un piano deliberato o una casualità, qual era la differenza? Saperlo non avrebbe cambiato più di tanto le cose: le vite delle persone africane, afroamericane e haitiane avrebbero continuato a essere sacrificabili agli occhi del governo e di una larga fetta della popolazione degli Stati Uniti; le vite degli omosessuali e dei i tossicodipendenti avrebbero continuato a essere disprezzate e svalorizzate. Se anche fossimo sicure che si sia trattato di una cospirazione, chiede a Sedgwick l’amica, che cosa sapremmo in più che già non sappiamo? Leggere queste parole è stato per me un balsamo, mi hanno parlato. Sedgwick, in sostanza, mi ha detto che se sono paranoico ho delle buone ragioni per esserlo. Mi ha invitato a essere indulgente nei confronti della mia paranoia, di non farmene una colpa. Potrebbe sembrare un’operazione dubbia, come gettare benzina sul fuoco, ma pensare alla paranoia come a una risposta sensata all’oppressione sistemica mi ha aiutato a calmarmi e a guardare alla mia disposizione ansiosa e preoccupata nei confronti del mondo con più dolcezza. Sedgwick non invita a lasciarsi consumare dalle passioni tristi, ma ad accogliere l’eventualità, certo dolorosa, che non siamo noi a essere pazzə. Il mondo ci ha ferito e ci ha lasciate col sospetto che potrebbe ferirci di nuovo, in qualsiasi momento. Dalle riflessioni di Sedgwick non può che derivare che qualsiasi risposta individuale alla paranoia è votata al fallimento. 

Christina Quarles, Beautiful Mourning, 2017.

La prima volta che ho visto una persona trans è stato sullo schermo della mia televisione, a dieci anni. La persona in questione era Brandon Teena, interpretato da Hilary Swank nel film Boys don’t cry. Il protagonista del film è un ragazzo trans, vive una vita sregolata lontano da casa, finisce in un brutto giro e la sua breve vita si conclude con uno stupro punitivo e un brutale omidio a opera di due amici che non riescono a indirizzare altrimenti la loro rabbia e il loro disgusto quando scoprono la “verità” su Brandon. Il film è tratto da una storia vera, ma se anche si fosse trattato di pura fiction l’impatto sarebbe stato lo stesso. Non ero solo, c’era anche mia madre, ma nei miei ricordi ci sono solo io di fronte allo schermo. Non ho mai più rivisto quel film, ma lo ricordo con precisione allucinata, scena per scena. All’epoca non sapevo ovviamente di essere trans, ma ricordo di essermi sentito interpellato, ricordo di aver pensato che quel film mi riguardava. Mi domando che tipo di impatto può aver avuto questa visione sul me bambino, che tipo di strascichi futuri può aver generato, che ruolo abbia assunto nella formazione della mia paranoia.

Sono arrivato all’ingresso dell’ufficio. Due signore sulla sessantina, con cardigan e occhiali appesi a un filo, stanno sedute dietro due scrivanie. Cerco di sfoggiare i miei modi più urbani, quando sono in ansia divento gentile e deferente, uno spettacolo ai limiti del ridicolo. Spiego alla più vicina perché sono lì. Mi guarda stringendo gli occhi. Il termine “accordo di riservatezza” le arriva alle orecchie per la prima volta, è evidente. La seconda signora si avvicina annuendo, con aria contrita. Mi dice che la faccenda è estremamente delicata e mi invita a sedermi fuori mentre cerca le carte da firmare. Ho avuto ragione a essere paranoico, non lo si è mai abbastanza. Che significa che la faccenda è delicata? Devo firmare uno stramaledetto foglio, cosa c’è di delicato? La signora ha forse usato un eufemismo per dire che è la mia condizione a essere delicata? Come si permette? Cerco di pensare che probabilmente non voleva farmi sentire a disagio, che era lei a essere a disagio. Il pensiero non mi fa sentire meglio. Non ho fatto niente di male, sono stato di una gentilezza probabilmente eccessiva, uno zerbino, e sono stato messo alla porta perché “la faccenda è estremamente delicata”.  Mi siedo nel corridoio. Provo a distrarmi, ma sul tavolino davanti a me ci sono solo decine di numeri del bollettino salesiano. Svariate immagini di Don Bosco mi sorridono. Non c’è niente da ridere, Giovanni.

Per farmi prescrivere le analisi del sangue – necessarie a monitorare l’assorbimento del testosterone che ho in corpo e di altri valori connessi – devo andare dal medico di base. Già i giorni prima comincio ad andare col pensiero a quel momento. Come quando devo prendere l’aereo, riesco a tenere l’apprensione ai margini del mio campo mentale, in una zona di latenza che ricorda il rumore bianco: quasi impercettibile. Quasi. Non posso dire di aver avuto esperienze mediche traumatiche o particolarmente memorabili, anche se quando prima di iniziare la terapia ormonale ho fatto l’ecografia per vedere se era tutto apposto il medico mi ha detto: «Lei ha un utero perfetto, ma riguardo al quesito diagnostico non saprei pronunciarmi». Il quesito diagnostico riportato in alto a destra nell’impegnativa recita “terapia gender affirming mascolinizzante”. La farmacista che mi ha fissato l’appuntamento era mia sorella in paranoia. Dopo aver letto il motivo delle visite che mi erano state prescritte mi ha detto che se volevo poteva evitare di metterlo nelle impegnative da consegnare ai medici. «Si può non specificare il motivo, non è obbligatorio». Il sottotesto era che lasciarlo avrebbe potuto portare a situazioni poco simpatiche. Il condizionale è il tempo delle brutte notizie, ancora più brutte perché possibili, mica certe. Le sue parole mi hanno agitato e calmato allo stesso tempo, veleno e balsamo per la mia paranoia: se lei, che aveva familiarità con l’ambiente, mi diceva così, avevo ottime ragioni per essere preoccupato al pensiero di quelle visite. Il modo in cui me l’ha detto è stato dolce, complice, e mi ha fatto sentire meno alienato. Nell’impegnativa per l’ecografia il quesito diagnostico però è rimasto, la farmacista deve essersi distratta. Non penso nemmeno per mezzo secondo che l’abbia fatto apposta, c’è un limite a tutto. Ed è quel quesito che il medico trova oscuro, è su quel quesito che il dottorone dice di non riuscire proprio a pronunciarsi. Il problema è che nessuno gli ha chiesto un’opinione, un parere, una congettura, un’ipotesi. Nessuno. Quello che gli è richiesto è di farmi una stramaledetta ecografia e annotare eventuali anomalie. Mentre mi allaccio le scarpe per andare dal mio medico di base mi sento schiumare di rabbia per come mi ha fatto sentire quel suo commento non richiesto. Come una cosa strana, come un quesito che fa alzare il sopracciglio e che lascia interdetti. A casa mia, però, quando uno è interdetto sta zitto, non dà aria alla bocca, ringhio mentalmente mentre mi chiudo la porta alle spalle. L’ambulatorio del medico è vicino a casa mia, nel breve tragitto a piedi mi rendo conto che respiro male, che mi sudano le mani. Ho paura della sua reazione, è la prima volta che vado, non l’ho mai vista in faccia e non ho idea di cosa aspettarmi. Cerco di rassicurarmi come posso: se anche fosse transfobica, o transcettica, la deontologia medica dovrebbe, in teoria, proteggermi da manifestazioni particolarmente virulente. Cerco di convincermi che l’incontro potrà essere al massimo sgradevole, ma che è implausibile che succeda qualcosa di grave. Dopotutto, che cazzo gliene dovrebbe fregare se sono trans, mi deve prescrivere delle analisi del sangue, punto. Banalissimo lavoro d’ufficio. Mi calmo per dieci secondi ma l’impalcatura crolla subito, il ragionamento è fallace, le basi friabilissime. Da che mondo è mondo le persone sembrano smaniare per controllare il comportamento e le scelte (se proprio vogliamo chiamarle così) delle altre persone. Pensare che il fatto che io sia trans sia affar mio non mi proteggerà perché è semplicemente falso: non è affar mio, è affare di medici, di psicologhe, di avvocati, di politici, è affare di familiari, parenti e amici, è affare di tutte e tutti. È, purtroppo, un po’ meno affare di tuttu. Faccio gli ultimi cinquanta metri in apnea – il brano di Emma Marrone non è ancora uscito, col senno di poi mi avrebbe aiutato a gestire il respiro accelerato e i prodromi della crisi. Quando mi siedo di fronte a lei ho raggiunto quel familiare stato di semi-dissociazione: sono  presente, riesco a interagire con quella che sembra cognizione di causa, a rispondere, a compiere appropriatamente gli atti richiesti dall’interazione, ma non provo più niente. Non riesco a dire se sia qualcosa di positivo o negativo perché la parte di me che gioisce o soffre è momentaneamente irreperibile. La ragionevolezza mi porta a concludere che non provare niente è meglio che provare qualcosa di brutto. Le valutazioni che faccio mentre siedo pietrificato in ambulatorio tendono al catastrofismo e alla fallacia della brutta china, ma sono di natura prettamente descrittiva: riferisco a qualcuno di assente (che poi sarei io) quello che succede, come se stessi telegrafando. La dottoressa ascolta quello che le dico. Stop. Il mio tono è, come sempre, deferente, eccessivamente gentile, appena recupererò le mie facoltà propriocettive mi disprezzerò per averlo usato. Stop. La dottoressa prende l’impegnativa dell’endocrinologa, inforca gli occhiali e la legge. Stop. Non dice niente, non mi guarda, nessuna inflessione della voce o espressione del viso, nessuna indicazione utile alla mia paranoia. Niente che confermi o smentisca. Stop. Comincia a digitare con i due indici le sostanze da ricercare nel sangue. Le ripete ad alta voce, salmodiando. Testosterone, Prolattina, Estradiolo, Emoglobina, Linfociti, Monociti. Punto. Pensare che queste cose – non so bene cosa siano: corpuscoli? Sostanze? Ormoni? Organuli? – circolano nel mio corpo mi tranquillizza. Punto. Pensare che gli equilibri somatici stanno cambiando, pure. Punto. Ho bisogno che qualcosa cambi per stare meglio. La disforia è questo, dopotutto. Punto. La dottoressa continua a non dire niente. Punto. Quando la paranoia non ha basi d’appoggio inizia a galoppare. Cosa pensa di me? Perché m’importa cosa pensa di me? Dovrò vederla, facendo le corna, due o tre volte all’anno per farmi prescrivere queste cazzo di analisi, anche se le facessi schifo, anche se tornata a casa dicesse a suo marito «oggi è venuta una ragazza che prende il testosterone, non so bene perché, ti pare che devo perdere tempo appresso a ste cose», cosa me ne importa, virgola, perché ho così spesso la sensazione di essere la prima persona trans con cui la gente si interfaccia?, virgola, perché questa stronza non dice qualcosa, perché non mi sorride, non fa una di quelle battute sul tempo che fanno tutte le persone normali per riempire i tempi morti, virgola, qui i tempi non sono solo morti, sono morti e sepolti, irrimediabilmente defunti, chiusi in matrioske di sarcofagi, calati in bare di amianto imbottite di tritolo trenta chilometri sottoterra, virgola, ti prego, ti scongiuro, dimmi qualcosa, qualsiasi cosa, fammi uscire da questa cortina ovattata, da questa prigione in cui non sento niente ma sento troppo, chiedimi se mi sono trasferito da poco, chiedimi perché non mi hai mai visto, usa il femminile se vuoi, non m’importa, chiedimi se fumo, se bevo, rimproverami gratuitamente e paternalisticamente per colpe che non ho, dimmi con biasimo di sti tempi tutti vogliono transizionare, dimmi qualcosa di grave sui neonati che vengono imbottiti di ormoni da genitori fuori controllo, virgola, dimmi che non hai nessuna intenzione di prescrivermi queste analisi perché sei obiettrice di coscienza, dimmi che mi rovinerò la vita e la salute, che farò piangere Gesù, tirami uno schiaffo, lanciami lo stetoscopio nei denti, dimmi che il testosterone mi farà crepare di trombosi, che morirò giovane e infelice e solo come un cane. Niente. Mi allunga la ricetta bianca e rossa e senza salutarmi mi dice di lasciare la porta aperta. Torno a casa con la testa che mi formicola e la certezza di essere pazzo.

ti prego, ti scongiuro, dimmi qualcosa

Mi sento riempito come un’oca da patè di contenuti, narrazioni, proiezioni che non sono mie. Dolore, coraggio, sacrificio, perseveranza, forza, morte, rinascita, miseria, nobiltà, sono questi i termini spesso affibbiati alle persone trans, usati per descrivere la loro parabola che dagli abissi dell’odio di sé risale verso una palingenesi da far invidia alle fenici. Certo, sono attributi certamente preferibili allo schifo, al disprezzo, all’odio. Ma si tratta comunque, a mio avviso, della scelta del male minore. Le persone che, più o meno coscientemente, mi rimpinzano di dolore e nobiltà pensano di star percorrendo la traiettoria contraria: pensano che quel dolore, quel coraggio, mi appartengono, pensano di scorgere in me una sofferenza o una nobiltà che sono miraggi. Non perché non soffra o non sappia, in circoscritti frangenti, essere nobile (cringe), ma perché le cose non stanno come pensano loro. Possibile che nessuno si chieda perché ci voglia tutta questa forza e tutto questo coraggio per essere trans in questo mondo? Quando le persone si congratulano con me, quando mi dicono che sono orgogliose per quello che sto facendo, per quello che sono o che sono finalmente diventato,33Cosa sarei diventato? Vorrei tanto saperlo, mi fa piacere che qualcuno a questo mondo lo sappia, o pensi di saperlo.
provo diverse gradazioni di frustrazione e fastidio. A darmi ai nervi è il tono che solitamente accompagna questo genere di esternazioni: c’è un che di patetico, di paternalistico, l’equivalente di un pat pat sulla spalla o di una carezza fatta al bambino timido che è riuscito, dopo tanto penare, a dire le sue due battute durante la recita scolastica. Potrei essere solo un paranoico senza speranza – e il punto di questo scritto, in effetti, è precisamente questo – ma posso assicurarvi che nel tono di chi esprime ammirazione per il mio coraggio c’è qualcosa di cristiano. Della compassione e la carità verso i meno fortunati (e le persone trans, nella narrazione mainstream, sono decisamente persone poco fortunate, nate con un buco che si riempirà solo col tempo, la perseveranza, le lacrime e il sangue) non so cosa farmene: se mi guardi e mi dici che ammiri il mio coraggio, parlandomi come se quello che mi succede non ha niente a che fare con te, come se quello che sto vivendo non ti riguarda, se non sei disposta a fare un passo indietro e a renderti conto che stai contribuendo attivamente, per quanto in buona fede, a plasmare un mondo in cui essere trans richiede questo benedetto coraggio, mi sei d’aiuto fino a un certo punto. (Certo, meglio questo di un calcio nei denti, ma non si può sempre vivere benedicendo il male minore che ci è toccato in grazia, pensando che poteva andare peggio). E dato che mi stai guardando con occhi umettati e fieri (sei fiera di me o sei fiera del tuo progressismo?), che sei gonfio di buoni sentimenti e pathos, mi metti in una posizione davvero scomoda. Come faccio a spiegarti tutto questo senza sembrare un ingrato? Potrei, ma non ho voglia, mi fa fatica, non sono nemmeno sicuro che persone che sembrano non fare un briciolo di sforzo per mettere in discussione ciò che sanno sul mondo si meritino il mio tempo e le mie energie. La paranoia rende snob. Preferisco continuare a incupirmi e a dubitare delle buone intenzioni altrui. Preferisco aggirarmi per le stanze del mondo e guardare con scetticismo ai sorrisi smielati che mi vengono rivolti. Non voglio l’apprezzamento di chi sminuisce il mio disagio, di chi mi dice che dovrei fregarmene di cosa pensano di me le persone. Il consiglio non è tutto da buttare, fortificarsi un po’ non guasterebbe, ma (guarda caso) più le persone non hanno idea di cosa significhi muoversi in un mondo che non prevede, o prevede solo a certe condizioni, la loro presenza, più sono disinvolte nell’esporre la loro filosofia: ma che te frega, tu vivi la tua vita, se sei sicuro di quello che sei gli altri lo percepiscono. E sticazzi.

Robert Gober, Untitled, 1991.

Qualche settimana fa ho ricevuto una chiamata da mia nonna. Le avevo spedito, su sua insistenza, un racconto che ho scritto ormai due anni fa. Si tratta di un racconto fantastico, in cui succedono cose tanto inquietanti quanto irrealistiche, almeno nelle mie intenzioni. Ho fatto coming out con mia nonna qualche mese fa. Ho riflettuto a lungo su come avrei potuto rendere comprensibile la mia esperienza a una persona di più di ottant’anni. La paranoia non ha tardato a sopraggiungere, facendo slittare di mesi e mesi il fatidico e odioso momento in cui si scoprono le carte e si dice la verità. Alla fine ho usato frasi semplici, sperando che le arrivassero limpide e senza ambiguità. Volevo essere il più chiaro possibile, evitare a ogni costo di dovermi sottoporre di nuovo alla procedura. «Non mi sono mai sentita una ragazza, mi sono sempre sentito un ragazzo e ho deciso di vivere come un ragazzo. È stato difficile rendermene conto, ma adesso sto molto meglio, sono felice». Mia nonna è stata zitta per una decina di secondi. Poi mi ha detto che le cose sono cambiate da quando era giovane lei, che in tv ormai si vedono «molte persone non proprio nei loro panni», che le dispiace sapere che ho sofferto così tanto e che sarò sempre sua nipote. Provo a farle capire che, sì, ho sofferto, ma che ora sto meglio, che sto bene. Non si schioda da lì, non smette di ripetermi di quanto sia dispiaciuta per la mia sofferenza. La conversazione procede così per un po’: io cerco di smarcarmi dal ruolo di martire, lei cerca di convincermi che è desolata che io soffra così tanto. Quando, mesi dopo, mi chiama per dirmi di aver appena finito il mio libro trattengo il respiro. La sua voce è funerea, viene da un brutto posto. La prima cosa che mi chiede è se quello di cui ho scritto mi è successo per davvero. La domanda è formidabile nella sua ingenuità: il racconto parla di cose soprannaturali e orrorifiche, provo a immaginare cosa abbia provato mia nonna leggendolo e pensando che fosse autobiografico. Mi dice che il turbamento che le ha procurato la lettura è stato tanto. Sento che sta per arrivare la stoccata. Solo una persona che ha sofferto molto, come te, poteva scrivere una cosa del genere. Mia nonna è una donna testarda, so che non c’è niente che posso dirle per farle cambiare idea: penserà sempre che ho scritto una storia così fosca perché sono trans, o, come direbbe lei, perché sono non proprio nei miei panni. Passo la successiva mezz’ora a tentare disperatamente di convincerla che la storia è narrativa pura, che fa parte di una collana di letteratura fantastica, che ho inventato tutto di sana pianta, che è un esercizio di immaginazione. So di non averla convinta. So che continuerà a pensare che in me c’è qualcosa di spezzato, che soffro. Magari ha ragione, magari la sua visione, che reputo distorta e arbitraria, non manca di così tanto il punto. La paranoia è contagiosa. E, forse, è pure ereditaria.

Mi sento come un test di Rorschach, mi sento interpretato dagli sguardi altrui in modi per me imprevedibili, non sento di essere qualcosa di preciso“…Mi sento come un test di Rorschach, mi sento interpretato dagli sguardi altrui in modi per me imprevedibili, non sento di essere qualcosa di preciso”, mi sento fatto, e non nel senso stupefacente del termine. Il modo in cui racconto quello che sento di essere cambia a seconda dell’interlocutore. Sono io che lo faccio, ma non ho la sensazioni di poter controllare la cosa. Per rendere la mia esperienza intelligibile a persone diverse mi sembra inevitabile cambiare la narrazione che fa da cornice all’esperienza stessa. Ma l’esperienza è allo stesso tempo modificata dalla narrazione che la accompagna, e questa circolarità mi rende sfuggente a me stesso, incapace di rispondere alla più idiota e più urgente delle domande: chi sono? Che rimanda alla domanda: chi può dirmi chi sono? Non posso essere io, sarebbe giusto un pelino ricorsivo. Se qualcuno ha la risposta, si faccia avanti.

Mia nonna mi ha detto che spera che in futuro scriverò cose belle, luminose, piene di speranza e cose edificanti. Le ho detto che ci penserò. Intanto, signorə, eccovi servita la paranoia.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Caro Gervasi
  • Caro Gervasi è dottorando, i suoi ambiti di interesse sono gli studi sulla mascolinità, la teoria queer e gli studi sulla disabilità. Fa parte del collettivo Dalla Ridda, con sede a Bologna. Nel 2023 è uscito per i tipi di Eris il romanzo breve L'espropriazione.