A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey è un breve photo-essay, pubblicato originariamente nel 1967 sulle pagine di «Artforum», e così generalmente definito dalla critica nel tentativo di descrivere il peculiare ibrido tra reportage, fotogiornalismo e opera d’arte con cui Robert Smithson riporta il suo viaggio da New York City alla cittadina di Passaic.
È una pubblicazione che assume rilevanza all’interno di un graduale processo di riscoperta dell’opera di Smithson, che, a partire da inizio millennio, si è focalizzata sul suo carattere ipertestuale, ovvero sull’ingente mole di componenti scritte, fotografiche e video in precedenza considerate esclusivamente accessorie.
In seno a questo nuovo interesse vi è naturalmente una constatazione, del tutto sincronica, che percepisce il collasso delle categorie mediali del fare artistico come dato assodato e ne vede l’approccio dell’artista americano come lungimirante antesignano.
Secondo il filosofo dell’arte Peter Osbourne,11P. Osbourne, Anywhere or Not at All: Philosophy of Contemporary Art, Verso, Londra, 2013.
Il termine trasmediale è, nel corso del testo di Osbourne, impiegato in parallelo – e spesso in equivalenza – al postmediale notoriamente descritto da Rosalind Krauss nel suo saggio A Voyage on the North Sea: Art in the Age of the Post-Medium Condition, Thames&Hudson, London 2000.
che con accuratezza si è speso per delineare questa ontologia transmediale, Spiral Jetty diviene così un’opera la cui condizione artistica è distribuita in egual misura tra gli elementi minerari che la costituiscono, il saggio e il film autografi a essa dedicati, e una varietà di elementi correlati22Osbourne, cit.: «Spiral Jetty includes both the film and the configuration of mud, precipitated sal crystals and rocks that form a coil, 1,500 feet long and 15 feet wide, jutting out in the water at Rozel Point, in the Great Salt Lake in Utah; as well as the essay of the same name, which includes script from the film; and a variety of related paraphernalia».
che ne consentono la fruizione.
Risulta quindi chiaro quanto siano letture necessariamente connesse al funzionale rapporto di documentazione che queste componenti instaurano con la calcolata scomparsa – o la semplice alterazione – di molti degli interventi site-specific di Smithson, a seguito del deterioramento entropico a lui caro. Ne garantiscono infatti la sopravvivenza in progressivi gradi di astrazione, instaurando un ponte dialettico che rende possibile un raffronto tra l’intervento originale e la propria evoluzione in un continuum temporale.33A tal proposito si consiglia la visione di Revisiting Robert Smithson’s Passaic, un corto, diretto e narrato da Ellen Mara De Wachter, che riprende lo stato attuale dei luoghi citati da Smithson.
A tal proposito si consiglia la visione di Revisiting Robert Smithson’s Passaic, un corto, diretto e narrato da Ellen Mara De Wachter, che riprende lo stato attuale dei luoghi citati da Smithson.
Torniamo nello specifico al saggio qui tradotto e pubblicato. Privo di un corrispettivo installativo, si tratta di un contributo che appare imprescindibilmente documentativo, in quanto inscritto in un format preciso, quello del fotoreportage, che nel 1967 è all’apice della sua diffusione quale strumento privilegiato per la rappresentazione indessicale della realtà. Tuttavia a divenire fondamentale è la totale disambiguazione delle sue stesse pretese di oggettività, operata da Smithson in una mimesi parodistica dal carattere specificamente biografico e individualistico. Sebbene non specificato all’interno del testo, infatti, l’apparentemente stereotipato viaggio in questione è quello che separa la metropoli newyorkese dalla città natale dell’artista, Passaic, per l’appunto; un percorso per un territorio che Smithson conosceva dettagliatamente e del quale è Smithson a cogliere i cambiamenti paesaggistici in virtù del suo trascorso personale.
In modo ancor più rilevante, i suoi monumenti, che non sono altro che scialbe costruzioni di periferia, vengono elevati a tali grazie alla flessione dello strumento documentativo, che è piegato al proprio interesse formale e artistico.44Nel suo Robert Smithson: The monuments of Passaic 1967, «Artforum», Summer 1998, Luc Sante arriva a definire i monumenti, e gli scatti che li ritraggono, come anticipatori del lessico scultoreo delle decadi a venire:
«A bunch of plain pictures of ugly industrial remnants in a blank landscape, forecast the sculptural work of the following decade, by Smithson and such others as Richard Serra, Carl Andre, Michael Heizer».
Così, alla dettagliata prosa cronachistica si aggiungono costanti incursioni influenzate dai topoi fantascientifici popolari in quegli anni (le citazioni di apertura sono tutt’altro che casuali), mentre all’oggettivo racconto dei fatti si sostituiscono riflessioni di stampo filosofico e digressioni che interpretano e filtrano gli elementi del paesaggio in modo scultoreo.
Inoltre, se la serialità del materiale fotografico integrato sembrerebbe distaccarsi da questa posizione, a un’analisi approfondita appare invece acuirla, essendo questa influenzata più dal linguaggio amatoriale delle macchine fotografiche economiche55L’Instamatic 400, più volte citata nel testo, è il terzo modello della serie delle Instamatics, che hanno fatto la storia della fotografia amatoriale, rendendo accessibile il mezzo fotografico ad ampie fasce di pubblico precedentemente escluse, grazie al suo prezzo ridotto (l’Instamatic 100 uscì nel 1963 per il costo di 16$).
che da quello dei fotoreporter professionisti; la coerenza dell’inquadratura è in tal modo sacrificata a favore di una soggettivazione del referente, che, grazie all’unione con la componente testuale, è facilmente identificato in modo univoco.
A decenni di distanza, in un contesto trasversalmente digitalizzato, in cui la documentazione si propone come l’onnipresente scheletro del nostro rapporto mediato con il mondo e lo spazio sociale, A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey ci offre utili coordinate per approcciare il nostro presente. Con modalità simili a quelle dei flussi di contenuti propri della nostra contemporaneità, e in una sorta di nominalismo, il fotoreportage di Smithson documenta il reale estraendolo dal suo contesto originario, ma non lo sovrascrive con pretese di trasparenza, al contrario palesa costantemente la sua stessa ingombrante struttura e la propria condizione di prodotto della volontà autoriale.
Introduzione di Jacopo Trabona
«Rise delicatamente. “Lo so. Non c’è via di uscita. Non attraverso la Barriera. Forse non è ciò che voglio, dopotutto. Ma questo – questo –” Fissò lo sguardo sul Monumento. “A volte mi sembra tutto sbagliato. Non riesco proprio a spiegarlo. È la città nella sua interezza. Mi fa sentire fuori controllo. E poi ho questi strani attacchi”».
(Henry Kuttner, Jesting Pilot)
«Al giorno d’oggi le nostre macchine fotografiche rudimentali registrano, a loro modo, il nostro mondo dipinto e assemblato frettolosamente».
(Vladimir Nabokov, Invitation to a Beheading)
Sabato 20 settembre 1967, mi recai all’edificio dell’autorità portuale all’incrocio tra la quarantunesima strada e l’ottava avenue. Comprai una copia del «New York Times» e un’edizione Signet di un libro intitolato Earthworks, di Brian W. Aldiss. In seguito mi recai all’ufficio di biglietteria numero 21 e acquistai un biglietto di sola andata per Passaic. Dopodiché, salii al piano degli autobus (piattaforma 173) e montai sul bus numero 30 della compagnia Intercity Trasportation Co. Mi sedetti e aprii il «Times». Diedi un’occhiata alla sezione arte: “Collectors’, Critics’, Curators’ Choice” presso la Galleria A. M. Sachs (una lettera ricevuta durante la mattinata mi aveva invitato a “Stare al gioco, prima della chiusura della mostra, il 4 di Ottobre”), Walter Schatzki vendeva “Stampe, disegni e acquarelli” scontati del 331/3 %, Elinor Jenkins, la “Realista Romantica”, era in mostra alle Gallerie Barzansky, del mobilio inglese del diciottesimo-diciannovesimo secolo in vendita da Parke-Bernet, “New Directions in German Graphics” presso la Goethe House, e, a pagina 29, c’era la colonna di John Canaday. Questi aveva scritto un articolo intitolato Themes and the Usual Variations. Rivolsi il mio sguardo alla sfocata riproduzione del dipinto Allegorical Landscape di Samuel F. B. Morse, che si trovava all’inizio della colonna di Canaday; il cielo era di uno stinto grigio color stampa di giornale e le nuvole ricordavano delicate macchie di sudore, in linea con un famoso acquarellista jugoslavo di cui ho dimenticato il nome. Una piccola statua con il braccio destro alzato si affacciava su uno stagno (o era forse il mare?). All’interno di quell’allegoria degli edifici gotici avevano un aspetto sbiadito, mentre un albero del tutto superfluo (o era forse una nuvola di fumo?) sembrava sbuffare verso il lato sinistro del paesaggio. Canaday si riferiva all’opera affermando che “condivideva, con sicurezza, lo stesso piano degli altri modelli allegorici delle arti, delle scienze e degli alti ideali promossi dalle università”. I miei occhi incontrarono l’inchiostro del giornale, soffermandosi su titoli come “Il boom economico della stagione”, “Un servizio shuttle” e “Spostare una scultura di 1000 libbre può anche essere un’opera d’arte di tutto rispetto”. Altre gemme di Canaday risplendettero nella mia mente fintanto che attraversavo Secaucus. “Delle realistiche statue di cera raffiguranti carne cruda afflitta da infestanti” (Paul Thek), “Il signor Bush e i suoi colleghi stanno perdendo tempo” (Jack Bush), “Un libro, una mela su un piatto, una tovaglia sgualcita” (Thyra Davidson). Intanto, fuori dal finestrino dell’autobus, si allontanava un motel della catena Howard Johnson’s – in una sinfonia di blu e arancio. A pagina 31 in lettere maiuscole: L’EMERGENTE STATO DI POLIZIA NEL GOVERNO SPIA AMERICANO. “In questo libro imparerete… che cosa sia un Infinity Transmitter”. L’autobus uscì dall’Highway 3, per poi proseguire verso l’Orient Way in Rutherford. Lessi la fascetta pubblicitaria e sfogliai frettolosamente Earthworks. La prima frase recitava “Il morto era alla deriva del vento”. Sembrava che il libro parlasse di un’improvvisa penuria di terreno, e che Earthworks si riferisse alla produzione manifatturiera di terra artificiale. Il cielo sopra Rutherford era di un blu cobalto piuttosto chiaro, in un perfetto giorno di Indian Summer, mentre, in Earthworks, il cielo si presentava come “un gigantesco schermo marrone e nero, sul quale baluginava della condensa”.
L’autobus passò sopra il primo monumento. Tirai la cordicella del segnalatore di fermata e scesi all’angolo tra Union Avenue e River Drive. Il monumento in questione era un ponte sul fiume Passaic, che collegava la provincia di Passaic con la provincia di Bergen. La luce di mezzogiorno avvolgeva il sito con un’aura cinematografica, trasformando il ponte e il fiume in uno scatto sovraesposto. Fotografarlo con la mia Instamatic 400 fu come fotografare una fotografia. Il sole divenne una colossale lampadina che, attraverso l’Instamatic, proiettava sul mio occhio una serie sconnessa di “fotogrammi”.
Mentre camminavo sul ponte, era come se stessi camminando su una gigantesca fotografia di legno e acciaio, e come se, al di sotto del ponte, vi fosse un’enorme pellicola cinematografica che non mostrava nulla al di fuori di un vuoto ininterrotto.
La strada di acciaio che si stagliava al di sopra del corso d’acqua era costituita in parte da una larga grata, fiancheggiata da marciapiedi in legno e sorretta da un pesante insieme di travi, mentre, nella parte superiore, da una rete pericolante appesa nel vuoto. Un’insegna arrugginita risplendeva in quell’atmosfera limpida, rendendola difficile da leggere. Una data si manifestò per un attimo… 1899… No… 1896… forse (alla base del luccichio e della ruggine vi era il nome Dean & Westbrook Contractors, N. Y.). Ero del tutto in balia dell’Instamatic (o di ciò che i razionalisti chiamano macchina fotografica). L’aria vitrea del New Jersey delineava le componenti strutturali del monumento, mentre scattavo una fotografia dopo l’altra. Una chiatta sembrava come fissata alla superfice dell’acqua nel suo dirigersi verso il ponte, portando così il responsabile del ponte a chiuderne i cancelli. Dalle rive del Passaic, guardai il ponte ruotare lungo il suo asse centrale, in modo da consentire a un’inerte forma rettangolare di passare con il suo carico sconosciuto. Il lato del ponte rivolto verso Passaic (ovest) ruotò verso sud, mentre il lato rivolto verso Rutherford (est), ruotò verso nord; tali rotazioni ricordavano i movimenti costretti di un mondo antiquato. “Nord” e “sud” gravano sulla staticità del fiume in modo bipolare. Questo ponte potrebbe essere definito il “Monumento delle direzioni dislocate”.
Lungo gli argini del fiume Passaic si trovavano alcuni monumenti minori, come le strutture di cemento che supportavano gli innesti di una nuova autostrada in costruzione. River Drive era parte intatta, parte interrotta da scavi di bulldozer. Era difficile distinguere la vecchia strada dalla nuova statale; entrambe erano confuse in un caos unitario. Dal momento che era sabato, molti macchinari non erano in funzione, e ciò faceva sì che questi assomigliassero a creature preistoriche intrappolate nel fango, o, ancor meglio, a macchinari estinti – dinosauri meccanici spogliati della loro pelle. A lato di questa preistorica Età delle Macchine giacevano case suburbane ante e post Seconda guerra mondiale. Le case si specchiavano nell’assenza di colore. Un gruppo di bambini si lanciava pietre vicino a un fosso. “D’ora in avanti non potrai più venire al nostro nascondiglio. Davvero!” disse la ragazzina bionda che era stata appena colpita con una pietra.
Camminando verso nord per ciò che restava di River Drive, vidi un monumento nel mezzo del fiume – era una gru da pompaggio attaccata a un lungo tubo. Parte del tubo era sostenuta da un insieme di passerelle, mentre quella restante si estendeva per circa tre isolati lungo la sponda del fiume, sino a scomparire nel suolo. Si poteva udire il rumore dei detriti che sferragliavano passando attraverso il grande condotto.
Lì vicino, sulla riva del fiume, vi era un cratere artificiale che conteneva uno stagno d’acqua pallidamente limpida, mentre, sul lato di quel cratere, si protrudevano sei larghi condotti che riversavano l’acqua dello stagno all’interno del fiume. Ciò costituiva una fontana monumentale, che ricordava sei ciminiere che sembravano allagare il fiume con del fumo liquido. Il grande tubo appariva, in qualche modo, enigmaticamente connesso con la fontana infernale. Era come se il tubo stesse segretamente sodomizzando qualche orifizio tecnologico nascosto, e che ciò provocasse un orgasmo a un gigantesco organo sessuale (la fontana). Uno psicoanalista potrebbe dire che il paesaggio mostrava “tendenze omosessuali”, ma non arriverò a una conclusione tanto volgare. Mi limiterò a dire “Era lì”.
Al di là del fiume, in Rutherford, si poteva udire la voce indistinta di un altoparlante e le fievoli esultanze di una folla a una partita di football. In realtà, il paesaggio non era un paesaggio, ma un “tipo particolare di eliotipia” (Nabokov), una sorta di autodistruttivo mondo-cartolina intriso di vana immortalità e magnificenza oppressiva. Avevo continuato a vagare per un’immagine in movimento che non riuscivo proprio a immaginare, ma, proprio quando iniziavo a diventare perplesso, vidi un’insegna di colore verde che tutto spiegava:
LE TUE TASSE PER L’AUTOSTRADA 21 ALL’OPERA
Autostrada federale
Fondi fiduciari
2.867.000
Dipartimento statunitense del commercio
Ente per la gestione del patrimonio stradale
Fondi per le autostrade statali
2.867.000
Dipartimento Autostradale dello Stato del New Jersey
Quel grado zero di panorama sembrava contenere delle rovine al contrario, ovvero – la potenzialità di tutte le nuove costruzioni che sarebbero state infine costruite. Ciò è agli antipodi della “rovina romantica” dato che, gli edifici non cadono in rovina dopo essere stati costruiti, ma piuttosto si ergono a rovina prima di esserlo.
Questa mise-en-scene anti-romantica suggerisce una screditata idea di tempo e tante altre cose “obsolete”; ma le periferie continuano a esistere, prive di un passato razionale e senza i “grandi eventi” della storia. Ecco, forse c’è qualche statua, una leggenda e delle curiosità, ma nessun passato – solo ciò che è scambiato per futuro. Un’utopia senza fondo, un luogo dove le macchine sono inutili e il sole è divenuto vetro, e un luogo dove l’Impianto di Cemento di Passaic (River Drive 253) conduce un buon business di PIETRA, BITUMI, SABBIA e CEMENTO. Passaic sembra piena di “buchi”, se paragonata a New York City, che, al contrario, risulta saldamente stipata e compressa; ma sono proprio quei buchi a rappresentare, in un certo senso, dei vuoti monumentali che definiscono, senza volerlo, le tracce mnemoniche di un insieme di futuri abbandonati. Tali futuri vengono scoperti nei film utopici di serie B, per poi essere imitati dall’abitante delle periferie. Le finestre del concessionario City Motors rivelano l’esistenza dell’Utopia attraverso una serie di PONTIACS WIDE TRACK – l’Executive, la Bonneville, la Tempest, la Grand Prix, la Firebirds, la GTO, la Catalina e la Le Mans – quell’incantesimo visivo segnava la fine del sito di costruzione dell’autostrada.
In seguito mi calai in un insieme di concessionari di auto usate. Devo dire che la situazione sembrava diversa. Mi trovavo in un nuovo territorio? (Un artista inglese, Michael Baldwin sostiene “Ci si potrebbe chiedere se la campagna cambi davvero – di certo non lo fa nel senso in cui lo fa un semaforo”). Forse ero scivolato in uno stadio inferiore di futurità? Si, lo avevo fatto. A quel punto della mia Odissea suburbana, la realtà era alle mie spalle.
Il centro di Passaic incombeva su di me come uno scialbo aggettivo. Ogni “negozio” era un aggettivo riferito a quello successivo, in una catena di aggettivi mascherati da negozi. La pellicola iniziava a scarseggiare e cominciavo a essere affamato. In realtà, il centro di Passaic non era un centro – era, invece, un abisso stereotipico o un vuoto ordinario. Sarebbe stato un ottimo posto per una galleria! O, forse, era una “mostra di sculture a cielo aperto” ciò che lo avrebbe rivitalizzato.
Al Golden Coach Diner (all’11 di Central Avenue), pranzai e caricai la mia Instamatic. Guardai la scatola giallo-arancio del Kodak Verichrome Pan, e lessi l’avvertenza che diceva:
LEGGERE QUESTA AVVERTENZA
Questa pellicola sarà sostituita se difettosa nella fabbricazione, etichettatura o confezionamento, sia che ciò venga causato da una nostra negligenza o da quella altrui. Al di fuori di tale sostituzione, la vendita o qualsiasi successivo utilizzo di questa pellicola non è associabile a ulteriore garanzia o nostra responsabilità. EASTMAN KODAK COMPANY NON APRIRE QUESTO RICAMBIO O LE TUE FOTO POTREBBERO ROVINARSI – 12 SCATTI – PELLICOLA IGNIFUGA – ASA 125 22 DIN.
Dopo essere ritornato a Passaic, o era forse l’aldilà – per quanto ne so quella periferia senza immaginazione avrebbe potuto essere un’eternità malriuscita, una copia scadente della Città degli Immortali. Ma chi sono io per prendere in considerazione un tale pensiero? Camminai lungo un parcheggio situato sulle vecchie rotaie che, una volta, attraversavano il centro di Passaic. Quel parcheggio monumentale divideva la città a metà, rendendola al contempo uno specchio e un riflesso – ma uno specchio che continuava a sostituirsi a questo suo riflesso. Non si riusciva a capire da quale lato dello specchio ci si trovasse. Non vi era nulla d’interessante, o nemmeno di curioso, in quel monumento inespressivo, che eppur faceva riecheggiare una specie d’idea stereotipata d’infinito; forse i “segreti dell’universo” sono proprio così mediocri – per non dire tetri. Tutto ciò che riguardava quel luogo restava avvolto nella noia, e disseminato di rifiuti che prendevano la forma di automobili scintillanti – queste si prolungavano, una dopo l’altra, in una nebbiosità soleggiata. Il retro di ogni auto lampeggiava indifferente e rifletteva lo stantio sole pomeridiano. Ho scattato alcune svogliate foto entropiche di quel monumento lucente. Se il futuro è “datato” e “fuori moda”, allora ero stato nel futuro. Ero stato in un pianeta sul quale era disegnata una mappa di Passaic; ma ne era una mappa piuttosto imperfetta. Era una mappa siderale segnata da “linee” grandi come strade e da “quadrati” e “blocchi” dalla dimensione di edifici. A ogni istante, i miei piedi tendevano a sprofondare attraverso quel suolo di cartone. Sono convinto che il futuro si sia smarrito da qualche parte nelle discariche di un passato non storico; si trova nei giornali di ieri, nelle pubblicità puerili dei film di fantascienza, nel falso specchio dei nostri sogni non corrisposti. Il tempo trasforma le metafore in cose, e le accatasta in stanze gelide, o le piazza nei parchi gioco celestiali delle periferie.
Passaic aveva rimpiazzato Roma come Città Eterna? Se, incominciando da Roma, alcune città fossero posizionate fianco a fianco in una linea retta in base alle loro dimensioni, dove si troverebbe Passaic in questa progressione impossibile? Ogni città sarebbe uno specchio tridimensionale che, con il suo riflesso, porrebbe in essere la città successiva. I confini dell’eternità sembrano contenere delle idee tanto nefande. L’ultimo monumento era un recinto di sabbia o forse il modellino di un deserto. Sotto la flebile luce del pomeriggio di Passaic, il deserto divenne una mappa dell’infinita disgregazione e dell’incapacità di ricordare. Questo monumento di minute particelle risplendeva sotto un raggiante sole senza speranza e restituiva la cupa dissoluzione di interi continenti, il prosciugamento degli oceani – non vi erano più montagne e foreste verdi –, non rimaneva altro che milioni di granelli di sabbia, un vasto deposito di pietre e ossa distrutte sino a divenire polvere. Ogni granello di sabbia era una morta metafora che eguagliava l’intramontabile, e colui in grado di decifrare tali metafore sarebbe stato in grado di attraversare il falso specchio dell’eternità. Il recinto in qualche modo rispecchiava una tomba profanata – una tomba su cui i bambini giocavano allegramente.
Dovrebbe ora essere mio interesse quello di dimostrare quanto l’eternità sia irreversibile, usando un esperimento puerile, che controprova l’esistenza dell’entropia. Immaginate negli occhi della vostra mente il recinto diviso a metà, con della sabbia nera da un lato e della sabbia bianca dall’altro. Prendiamo dunque un bambino e facciamolo correre centinaia di volte all’interno del recinto in senso orario, fino a quando la sabbia non si mischia, iniziando a diventare grigia; in seguito, se lo facciamo correre in senso antiorario, il risultato non sarà il ripristino della divisione originale, ma un grado più profondo di grigio e l’aumento dell’entropia.
Certo, se filmassimo tale esperimento, potremmo provare la reversibilità dell’eternità riproducendo la pellicola al contrario, ma, prima o poi, la pellicola stessa si sbriciolerebbe, o verrebbe persa entrando in uno stato di irreversibilità. In qualche modo ciò ci suggerisce che il cinema offre un’illusoria o temporanea fuga dalla dissoluzione fisica. La falsa immortalità della pellicola conferisce al fruitore l’illusione di un controllo sull’eternità – ma “le superstar” si stanno dissolvendo.
Rif. bibl. R. Smithson, The Monuments of Passaic, «Artforum», December 1967.
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Robert Smithson (1938) è uno dei maggiori esponenti della Land Art nordamericana. Il carattere dell’opera di Smithson è definito dai termini site (territorio naturalistico) e non-site (contenitori geometrici che raccolgono materiali prelevati dal territorio). Smithson utilizza il concetto di entropia per esplorare la decadenza e il rinnovamento, l’ordine e il caos, cercando di trovare un equilibrio tra gli opposti. L’opera più nota dell’artista è Spiral Jetty (1970), un’enorme e spettacolare spirale costruita presso il Great Salt Lake nel Nord-Ovest dello Utah.Gli scritti di Smithson sull'arte, la cultura occidentale, i testi grafici e le interviste sono stati pubblicati nel 1979 in The Writings of Robert Smithson, a cura di Nancy Holt.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.