Still da Ritmos Bastardos – The Story of Zizek Club & ZZK Records.
«This is succch a brrrrutal irrrony! Never in my life did I dance or sing, it’s the obscenity of gesturrre, I cannot do it», risponde Slavoj Žižek alla domanda, «Non c’è un locale di musica dance che si chiama come te a Buenos Aires?». Lo Žižek Club – che si muove inizialmente negli spazi del Niceto Club, nel quartiere Palermo della capitale argentina – è un movimento, o forse meglio un collettivo che nasce nei primi anni duemila con l’intenzione di rivoluzionare non solo la scena musicale ma specialmente la pista da ballo. Nim, Gran C. Dull aka El G, Villa Diamante, Tremor, Dat Garcia, El Remolon, King Coya, Tito Del Aguila sono musicisti e artisti di ogni tipo che, stanchi di guardare fuori, decidono di esplorare le proprie radici facendo pian piano incontrare l’elettronica con la cumbia, con il folklore e con la cultura popolare. Il Niceto vede susseguirsi, settimana dopo settimana, feste su feste sino al 2008, anno in cui il resto del mondo inizia a rendersi conto dell’esistenza della scena e in cui viene fondata la ZZK Records, tra le etichette di maggior successo internazionale in quella scena contemporanea che si potrebbe, maldestramente, definire elettronica latino-americana.
Dico maldestramente perché, quantomeno nella letteratura anglosassone, la terminologia che ruota intorno all’accoppiata computer e percussioni (o flauti, o quello che volete) dall’anima latina è confusa, goffa, alle volte superficiale: digital cumbia, electro cumbia, laptop cumbia, qualsiasi cosa con cumbia, poi digital o electronic folklore, e così via, spingendoci forse sino a folktronica o ethnic electronica. Insomma, termini che comprendono un po’ tutto, praticamente da Earthquake Island di Jon Hassell del 1978 sino ai sopracitati artisti autoctoni. Personalmente lascerei le questioni di classificazione di genere a chi è ancora in cerca di rassicurazioni dalla vita; tali questioni sono utili però, se non altro, a evidenziare, ancora una volta, l’impossibilità di descrivere e identificare le molteplici sfaccettature di un’infinita ricchezza musicale, culturale e politica che viaggia tra passato, presente e futuro. D’altronde, ci toccherà sì ringraziare Buenos Aires per aver dato forma a una esigenza collettiva e per essere riuscita a esportare le nuove sonorità latine negli Stati Uniti e sino in Europa, ma insomma non è che prima di loro il resto del continente abbia proprio preferito fare la siesta, braccia conserte e cappello sul capo a sentire i flauti suonare.
Iván Navarro, Homeless lamp, the juice sucker (2005).
Tanto per cominciare: cumbia significa tutto e niente, così come folk e cultura popolare e musica elettronica. E allora techno reggaeton? E digital merengue? Ed electro tango? Vabbè, si fa per dire. Che poi, a dirla tutta, quest’ultimo esiste: basti pensare ai Gotan Project, progetto che però è di fatto europeo. Ad ogni modo, non credo sia questo il luogo dove aprire una discussione sull’insidiosità di termini quali folk e cultura popolare; tuttavia, qualche parola in più sulla cumbia può aiutare a comprendere la singolare vastità delle caratteristiche che questi generi e sotto-generi continuamente assorbono o si lasciano dietro. D’altronde, cumbia è un termine evasivo, sfuggente, tanto quanto lo è la musica che indica. Non solo a seconda del periodo storico, ma anche in base alle circostanze occasionali, al pubblico che la ascolta e ai musicisti che la eseguono. Esistono la cumbia colombiana e quella peruviana, quella messicana, quella argentina, quella ecuadoriana, quella panamense; ciascuna di esse si dirama e si avviluppa ulteriormente in altrettante cumbias dalle origini assortite e dalle infinite sfumature culturali.11Con più esempi e dettagli, ne parlo qui: https://www.yanezmagazine.com/el-poder-de-la-cumbia-yanez/
Logo poster per la ZZK Records.
Sono ormai dieci o quindici anni che gli artisti latinoamericani, provenienti da sensibilità musicali diverse, scavano in una memoria collettiva di impronta folklorica, carica di storie, di tradizioni, di cerimonie, di dialetti, danze, canzoni, immagini, identità politiche. Una memoria collettiva che forse finora non veniva ritenuta in grado di costituire nessun tipo di problematicità, confinata com’è nel suo essere intoccabile, seriosa, ritualistica e ormai storia, ma con la S maiuscola. Proprio tale memoria collettiva viene resuscitata e rivista, potremmo dire creativamente preservata, attraverso quel fantastico mondo che ora, per brevità, si può localizzare tra i tasti di un computer e le fitte reti del world wide web. È come se a un certo punto, dopo anni di chitarra classica, con le unghie lunghe e il pedale sotto al piede sinistro, ti regalassero un sampler per Natale: cioè Carulli te lo dimentichi no? Però il punto è proprio questo: i vari ZZK e i loro compagni, il loro Carulli non l’hanno dimenticato, anzi. Rimanendo su questa sciocca ma funzionale metafora della chitarrina classica, si può prendere in considerazione un album come quello di Nicola Cruz, Prender el Alma (2015), e in particolare tracce come “Puente Roto” e “Cumbia del Olvido”, dove dopo il primo ascolto emerge chiaramente che il suo è il frutto di una sintesi ben orchestrata che vede la musica, e con essa il sistema culturale e iconografico che si porta dietro, vivere contemporaneamente su due realtà temporali parallele, passato e presente.
La ZZK Records, o meglio le prime feste del ZZK Club, vanno considerate all’interno di un movimento che iniziava a muoversi in America Latina (in primis, Colombia e Messico) già da qualche anno e che sperimentava con il folklorico e il tradizionale, tanto nel mainstream come nell’underground. L’incontro di ciò che è stato e di ciò che è e sarà, in America Latina, assume sfumature alle volte più sofisticate e profondamente legate alla propria identità, più mistiche forse, di sicuro politicamente più attive. Per esempio, parlando della temporalità, in un articolo per «Frieze» pubblicato nell’ormai lontano 2012, DJ Rupture analizza la musica del produttore messicano Javier Estrada in una cornice filosofica che prevedeva sia un riadattamento della tradizione in termini strettamente musicali sia, soprattutto, un’adesione a una visione ciclica del tempo di origine Azteca. La mancanza di uno sviluppo lineare, suggerisce DJ Rupture, fa sì che il dialogo tra le due temporalità si sviluppi in maniera più marcatamente promiscua e per ciò stesso proficua. Inoltre, conclude, senza linearità non ci sarà nemmeno più bisogno di concetti come originalità e novità, e dunque forse né passato né presente, mi viene da aggiungere.
Copertina di Resistencia di Dj Raff (2018).
Ancora, a proposito del peculiare sviluppo dell’elettronica in America Latina, lascerei la parola a un protagonista. Come mi dice DJ Raff – musicista e produttore cileno, fondatore dell’etichetta Pirotecnia e ormai da un po’ trapiantato a Londra – «al momento la musica elettronica guarda più verso le radici, le tradizioni, gli strumenti precolombiani e le proprie città. Se all’inizio si voleva copiare un suono che veniva dagli Stati Uniti o dall’Europa, sono ormai già più di dieci anni che si è iniziato a fondere le sonorità locali e oggi esiste una scena molto grande con musicisti che si trovano a viaggiare per il mondo. Sfortunatamente, molti governi non donano fondi sufficienti per lo sviluppo della cultura, ed è per questo che è merito degli stessi musicisti e degli addetti ai lavori se la musica dell’America Latina viene sempre di più apprezzata in varie parti del mondo».
La convivenza del passato e del presente è dunque qui sicuramente liberatoria e simbolo di – ma sì diciamolo – modernità, ma non rimane comunque priva di paradossi e simpatici rimorsi. Non solo quando l’America Latina si scontra con l’Europa o con gli Stati Uniti, ma anche all’interno dei singoli contesti nazionali. Proprio a tal proposito, e mantenendo la ZZK come esempio di riferimento, si potrebbe parlare delle questioni legate alla cumbia. Molto brevemente, ogni sottogenere della cumbia è storicamente legato a una determinata classe sociale: nel momento in cui entra in contatto con il digitale e ciò che esso comporta, si espone invariabilmente a ciò che, a seconda del punto di vista, viene considerato un processo di svalutazione o di valorizzazione. Insomma, o i bravi e intelligenti ragazzi della classe media, che si possono permettere un computer, si divertono ad appropriarsi di un mondo a loro lontano, spogliandolo di ogni qualsivoglia significato culturale e della sua identità popolare e operaia, oppure finalmente lo rivendicano come il loro proprio, liberandosi di queste ormai desuete etichette. In altre parole, o l’abbondanza digitale è cosa buona e giusta, o semplicemente è uno strumento in più portato dai conquistadores.“…o l’abbondanza digitale è cosa buona e giusta, o semplicemente è uno strumento in più portato dai conquistadores.”
Se il passato appartiene, come descritto sopra, a una memoria collettiva formatasi un secolo dopo l’altro, il presente può, sotto vari aspetti, assumere le vesti di un neocolonialismo un po’ hipster, dai larghi e acculturati orizzonti con indosso un poncho pagato chissà quanto. È la storia degli artisti che fanno i bagagli e si spostano a Londra o a Berlino (come i brasiliani Voodoohop, per esempio) e che si ritrovano a ricominciare (quasi) da zero nonostante siano molto riconosciuti nel loro contesto di provenienza. È la storia dell’egemonia della lingua anglofona anche nel mondo della musica, e quindi della necessità per questi artisti di comporre in una lingua che non è la loro. E sono le storiografie musicali di mezzo continente, che vengono ri-scritte a partire da punti di vista esterni ed estranei, molteplici ma al tempo stesso uniformi. Tali punti di vista, che si sviluppano in situazioni più avvantaggiate rispetto a quelle originarie, ottengono l’accesso ad archivi e fonti locali, e così riportano indietro, rielaborandoli, i materiali in essi contenuti – magari producendo una compilation o una raccolta di remix. Mi piace pensare che questo venga fatto in buona fede, o inconsapevolmente sotto certi aspetti; d’altronde ciò si rivela in molti casi una buona occasione, se non una buona scusa, per riscoprire effettivamente qualcosa che non era riuscita a ottenere il giusto riscontro all’epoca.
Copertina di Earthquake Island di Jon Hassell (1978).
In un articolo apparso qualche mese fa su «Norient», Holger Lund discute i nuovi modelli di colonialismo nell’ambito della musica pop. Il colonialismo, Lund afferma, è tutt’altro che sparito: si è trasformato, rinnovato, modernizzato, specialmente negli ambiti culturali. Tra i primi esempi che vengono riportati nel suo articolo c’è il caso della musica psichedelica peruviana degli anni ’70. Qui l’etichetta neocolonialismo hipster casca a pennello: grazie al lavoro di recupero dell’etichetta newyorchese Barbes Records, la psichedelia peruviana è riuscita non solo a lasciare il paese, trovando nella metropoli nordamericana crescente interesse, ma da lì è poi ritornata al suo luogo d’origine, trionfante come mai era stata durante la sua epoca. Insomma, i peruviani devono agli statunitensi la ricontestualizzazione della loro propria musica. Nel caso dell’hip hop brasiliano, Lund parla di come si sia arrivati a una condizione a tratti paradossale. Il numero di ascoltatori e collezionisti, provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti, che volano in Brasile, e comprano i dischi, è diventato significativo al punto di influenzare l’andamento delle ristampe e delle vendite. La conseguenza ultima di questa situazione è che il pubblico brasiliano si trova di fatto obbligato a riflettere sul proprio patrimonio musicale e a rivalutarlo. Niente di nuovo, appunto.
Al di là delle belle e ormai onnipresenti facce folk della ZZK, una manciata di nomi, emergenti e non, che potete ascoltare da questa playlist:
Comincerei con i messicani Nortec Collective (traccia 1), che dal 1999 assumono varie sembianze di tanto in tanto, attualmente formati da Pepe Mogt “Fussible” e Ramón Amezcua “Bostich”, e con un live set dell’argentino Luis Maurette (traccia 2) conosciuto come Uji, per il Nomade Festival del 2017.
Un po’ di punk anarchico, scazzato e soprattutto parecchio techno di Tomas Urquieta per XLR8R (traccia 3), che ha di recente pubblicato il suo primo album Dueños de Nada per Infinite Machine.
Sulla stessa scia, sarebbe quasi un peccato non parlare di Siete Catorce (traccia 4), messicano di nascita, cresciuto negli Stati Uniti sino alla deportazione della madre, quindi nuovamente Messico; così per la resistenza del sopraccitato DJ Raff (traccia 5).
Non si può non citare Juana Molina (traccia 6). Personaggio di spicco delle commedie televisive argentine degli anni ’90 e figlia di Horacio Molina, uno dei più significativi cantanti di tango argentini. A metà anni ’90 abbandona il successo del piccolo schermo e si dedica alla musica a tempo pieno: il «Guardian» la definisce “inquietante” a seguito del suo più recente album Halo (2018).
E, infine, una Lucrecia Dalt in salsa William Basinski (traccia 7). E ci sarebbero da menzionare anche Moreno Veloso, figlio di Caetano, Tomasa del Real e Rosa Pistola, o Mucho Indio, ma la lista continuerebbe all’infinito.