Il complicato e confusissimo scheletro politico, linguistico e musicale che nel 1861 caratterizzava l’Italia, finalmente unita, è rimasto intatto nel tempo. Ieri come oggi, ogni regione ha la propria cultura e la propria tradizione musicale, che fanno parte della storia locale specifica: ciascuna regione è caratterizzata da elementi profondamente diversi per quanto riguarda festività, usanze, pratiche performative, tecniche e repertori; e ogni regione ha oltretutto i propri dialetti, che suonano spesso come lingue straniere. Qui, l’aspetto linguistico si dimostra particolarmente importante dato che, nonostante la realizzazione dell’unità politica, la netta distinzione tra dialetto e italiano è rimasta tale sino agli anni ’60-’70 del Ventesimo secolo, quando l’italiano raggiunse veramente lo status di lingua ufficiale della quotidianità, grazie a radio e televisione. Ed è a questa distinzione linguistica che deve essere ricondotta la dicotomia tra musica popolare (intesa nella sua accezione etnomusicologica) e musica colta (l’opera). Da una parte vi è il contadino analfabeta, che si esprime in dialetto e canta le canzoni popolari tramandate oralmente dalla tradizione della sua regione; dall’altra vi è l’esponente della classe media scolarizzata, che parla un elegante italiano e ascolta l’opera – probabilmente anche seguendo la partitura – nel tranquillo soggiorno di casa. Poiché spesso le tradizioni locali erano, e sono, difficilmente compatibili tra loro – aspetto che contribuisce a confinarle nelle loro aree di provenienza – mentre l’opera poteva essere invece apprezzata in ogni angolo del Paese e oltre, quest’ultima ha finito per diventare un elemento cruciale per quelle rivendicazioni volte a definire non solo l’identità musicale italiana, ma anche quella nazionale.11Sorce Keller, 2013.
Questa frammentarietà storica, che caratterizza il patrimonio culturale italiano, unita alla difficoltà di conservarlo in maniera coerente e sistematica, ha portato con sé, sul piano della quotidianità, un rafforzamento di certi pregiudizi e stereotipi. La musica pop, e più in generale la cultura pop, sono ancora oggi vittime di un contesto profondamente influenzato da un’idea di “serietà” – spesso neanche troppo velata – da formalismi portati all’estremo, quando non da vere e proprie forme di snobismo. Non è un caso quindi che, proprio grazie alla sua uniformità linguistica e sonora (quantomeno formale), la musica classica sia stata ritenuta a pieno titolo un oggetto di studio e di ricerca; dopotutto è la forma espressiva e culturale che definisce l’italianità all’interno dei confini della penisola e al di fuori. Lo stesso vale oggi per la musica popolare, che ha ormai acquisito lo status di musica “seria”, essendo stata progressivamente assorbita nei contesti accademici attraverso l’etnomusicologia e gli studi di folklore. Al contrario, la popular music era e rimane un medium frivolo, commerciale, di poco conto. Non solo la musica ma anche il termine stesso, suonano ancora un po’ troppo americaneggianti alle raffinate e spesso autocompiaciute orecchie abituate all’opera lirica.
Contro l’isolamento accademico
Qualche anno fa, nel 2014, un gruppo di circa 600 accademici, provenienti da varie parti del mondo e preoccupati per le pessime condizioni in cui i Popular Music Studies versavano nelle università italiane, sottoscrisse una petizione di protesta. Una volta raccolte le firme, fu inviata una lettera al MIUR con la quale si richiedeva appunto un intervento diretto contro questa situazione di esclusione: effettivamente sino al 2014 non vi era alcuna università italiana che offrisse anche solo un singolo insegnamento di Popular Music Studies, per non parlare dei corsi di laurea.22Tagg, 2014.
Nella petizione si condannava un atteggiamento di “aperta ostilità” da parte delle istituzioni e si affermava che “un’intera generazione” di studiosi era stata esclusa dalle università italiane. Quest’ultima affermazione faceva particolare riferimento a uno dei più importanti studiosi italiani di musica pop, Franco Fabbri – noto tra l’altro anche per la sua attività negli Stormy Six. Insomma, nonostante avesse ottenuto l’abilitazione a professore ordinario, Fabbri rischiava di non vedere riconosciuto questo ruolo, con tutte le conseguenze negative per le sue attività di ricerca e di insegnamento, proprio a causa dello statuto “inferiore” attribuito alla musica pop in ambito accademico.
Sebbene da quel momento dal MIUR non si sia ottenuto molto, è vero tuttavia che dal 2014 al 2019 qualcosa sembra essersi mosso tra il mondo accademico e quello dei conservatori (contesto, quest’ultimo, che costituisce un universo parallelo a sé stante, imperscrutabile e imprevedibile), tra chi si è portato al passo con i tempi, qualche nuova giovane leva, e chi è riuscito a farsi strada anche tra un pubblico non prettamente specializzato. Seppur sempre nell’ambito dei corsi di laurea in etnomusicologia o in arti performative, o nei dipartimenti di lettere, storia o beni culturali – così da giustificare la presenza della pop music nei corridoi delle università – ci sono atenei che offrono singoli corsi: in primis l’Università degli Studi di Torino, seguita da Sapienza-Università di Roma.33Tra i corsi offerti in questi atenei si potrebbe citare, per esempio, i corsi di critica musicale pop e popular music tenuti da Jacopo Tomatis all’Università di Torino.
Dove sono finiti i cultural studies?
Tutte le aree disciplinari nel sistema universitario italiano devono essere organizzate secondo lo schema dei settori scientifico-disciplinari (SSD). La suddivisione per aree tematiche risale al 1973, ma l’introduzione degli SSD avviene negli anni ’90, principalmente con l’intento di regolamentare i processi di assunzione (e non è un caso che gli SSD siano costruiti seguendo lo schema dei settori concorsuali).44Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2018.
Per questo motivo gli SSD sono di fatto assurti a schema di classificazione delle discipline, che ne governa la nascita e lo sviluppo, orientandole sia da un punto di vista intellettuale, sia amministrativo. L’SSD decide quale ambito di studi pertenga a quale disciplina, con tutte le conseguenze immaginabili per quanto riguarda la creazione di incarichi di ricerca e di insegnamento. A tutt’oggi, poiché tutti i docenti e i corsi devono fare riferimento a uno degli oltre 360 SSD, tale sistema influisce non solo sul lavoro dei singoli studiosi, ma sulle discipline nella loro interezza.
Da qui ne consegue che discipline “sperimentali” e aspetti mediatici o culturali in recente e rapida crescita rimangono tagliati fuori: esattamente ciò che avviene per i Popular Music Studies. All’estero, a voler fare qualche nome, vi è l’università di Birmingham e la Goldsmiths in Inghilterra, in Norvegia l’università di Oslo e nei Paesi Bassi quella di Amsterdam, che offrono non solo percorsi di laurea triennale e magistrale ma anche dottorati interamente dedicati alla popular music. Ma a differenza di diverse università straniere, in Italia si fatica ancora a riconoscere questi studi come discipline autonome (e spesso come discipline in toto). Ciò fa sì che sia gli studenti sia i docenti si sentano costretti a cercare opportunità all’estero, o ad adeguarsi, per quanto possibile, ai regolamenti vigenti, comprimendo le loro ricerche all’interno di terreni liminali, come l’(etno)musicologia, le scienze della comunicazione e la sociologia. Naturalmente, questi quattro casi appena citati rappresentano soltanto eccezioni all’interno di un panorama globale che tende ancora a considerare lo studio della musica esclusivamente come studio di uno strumento, o più banalmente, a considerare la popular music come un hobby, un’attività a cui dedicarsi nel tempo libero.
Tuttavia, la particolarità dell’ambiente accademico italiano non si esaurisce nel bislacco funzionamento dei settori scientifico-disciplinari che sistematizzano e schematizzano la nascita e l’andamento delle discipline: la mancanza di tali discipline contribuisce a cristallizzare ulteriormente l’immutabilità dell’articolazione di questi settori.55Fabbri & Plastino, 2013; Tagg, 2014.
A tal proposito, ho avuto modo di parlare con Peter Sarram – professore di Communication and Media Studies alla John Cabot University di Roma – il quale inserisce la mancanza dei Popular Music Studies in Italia nella complessa cornice della tradizione italiana degli studi culturali. Al netto di qualche solitario esempio – come l’attività dell’Orientale di Napoli, di Mario Perniola o di Nicoletta Vallorani – i cosiddetti cultural studies, figli del lavoro di ricerca del Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) di Birmingham (UK), non hanno mai pienamente attecchito nei percorsi educativi italiani, né come disciplina né, men che meno, come metodologia. Probabilmente ciò si deve a quegli aspetti di interdisciplinarietà che connotano i cultural studies e che qui da noi faticano a farsi strada, lo stesso Sarram commenta. E continua supponendo una correlazione con una corrente di impostazione crociana, che vede l’arte in senso lato non come un testo da poter analizzare con metodo scientifico, ma come qualcosa da poter utilizzare (quasi esclusivamente) come specchio di una valutazione morale.
La popular music come bene culturale
Nel contesto della mia attuale ricerca di dottorato, ho trascorso gli ultimi tre mesi in Italia, visitando biblioteche e archivi che ospitano materiale musicale a qualunque titolo, relativo alla popular music. Provando non poco disprezzo per il termine “musica leggera” e per il suo utilizzo diffuso e superficiale, mi sono sempre presentata come dottoranda in “popular music”, facendo subito i conti con uno degli aspetti più problematici: la terminologia. È stato difficile, in diverse occasioni, spiegare che cosa intendessi per popular music a un interlocutore che dava per scontato (per via di un semplice esercizio di traduzione) che fosse la musica popolare, di tradizione folk, o che fosse una bestia che si nutre solo di tormentoni estivi che passano in radio. Oppure, che faticava a concepire la produzione di una musica folk che uscisse dagli schemi delineati da Alan Lomax nei suoi cantometrics, cinquant’anni fa, o che non avesse come oggetto una locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia. Ho bofonchiato qualcosa tipo Sandro Perri, ma non è che abbia funzionato molto.
Superata la difficoltà “linguistica”, ho trovato poi conferma di ciò che sapevo o sospettavo a proposito della situazione italiana: archivi e biblioteche istituzionali (anche, e anzi in particolare, quelle universitarie) tendono a raccogliere principalmente musica classica e materiali etnomusicologici – con la parziale eccezione dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (già Discoteca di Stato) che funziona però come deposito legale e non come archivio musicale vero e proprio. E se, in qualche rarissimo caso, apparisse qualche vago riferimento alla musica pop, quasi certamente si tratterebbe di un riferimento alla tradizione dei cantautori; lì posta per tessere le lodi, più o meno esplicitamente, di un’identità italiana espressa tramite testi poetici o politicamente impegnati. Ciò si deve in parte al fatto che molte di queste collezioni abbiano avuto origine durante il secolo XIX, a seguito di donazioni da parte di corti, monasteri o biblioteche ecclesiastiche, per cui rimangono per la maggior parte arretrate, in termini di metodologia e di estensione. Inoltre, come conseguenza dell’importanza acquisita nel corso dei due secoli precedenti dalle nozioni di “locale” e “regionale”, queste collezioni si sono per lo più sviluppate intorno a realtà circoscritte. Un chiaro esempio della prima condizione è quello delle biblioteche annesse a quegli universi paralleli menzionati in precedenza, i conservatori: le cui biblioteche hanno l’aria di essere sale di un museo o macchine del tempo, più che spazi d’incontro. Quasi nulla è digitalizzato, tantomeno il catalogo, ancora custodito in vecchio stile: a schede. Che cosa possa darti la biblioteca non si sa, a meno che non si chieda al bibliotecario. Di persona, s’intende. Mentre, riguardo alla questione “locale” e “regionale” si potrebbe citare per esempio un vecchio progetto come l’Archivio Computerizzato Musicale Veneto (oggi posseduto dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia), che raccoglie materiale proveniente appunto dal Veneto.66Benedetti, 2002; Gentili-Tedeschi, 2011.
Vi sono poi realtà minori che vantano uno sguardo più ampio e attento alla contemporaneità. A differenza delle grandi istituzioni – per la maggior parte legate a convenzioni culturali e politiche che ne definiscono l’identità –, queste realtà nascono e si sviluppano grazie a interessi, personali o collettivi, verso un determinato movimento, musicista, genere, epoca o estetica. Proprio per questo si parla di attività sporadiche, informali o anche solo digitali, non meno professionali: sono associazioni e centri culturali indipendenti, gruppi di ricerca, collezioni private messe a disposizione di un pubblico più vasto, o vere e proprie etichette musicali che svolgono un ruolo di costruzione, preservazione e distribuzione del patrimonio musicale collettivo. Doveroso, dunque, citare lo splendido lavoro dell’associazione NoMus di Milano, curata tra gli altri da Maddalena Novati e Laura Pronestì, specializzata in musica contemporanea e sperimentale e che spesso collabora con l’etichetta Die Schachtel. Vi è poi l’associazione e archivio Nuova Consonanza di Roma, che non ha bisogno forse di troppe presentazioni; c’è Archeo Recordings, Cinevox Record e Sonor Music. Chiaramente questo non è da intendersi come un elenco esaustivo; al contrario, intende essere piuttosto una sorta di chiamata alle armi.
Ma ciò che finora sento più vicino, per ricerca e interesse, è di certo il lavoro della Mediateca Emeroteca Musicale di Bari, coordinata da Claudia Attimonelli (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”). L’attività del MEM comprende un archivio – che si appoggia alla Mediateca Pugliese e la cui collezione è nata e continua a crescere perlopiù grazie alle donazioni dei singoli – dedicato alle riviste e fanzine musicali, italiane e straniere, dagli anni Settanta ai giorni nostri (orientativamente 70 testate e 5000 fascicoli, in totale), tra cui Ciao 2001, Fare Musica, Musica 80, Billboard e Rolling Stones. Oltre a essere un archivio, il MEM è anche un gruppo di ricerca intorno al quale gravitano ricercatori e studiosi con formazioni e percorsi accademici differenti, per esempio sociologia visuale, media e comunicazione, storia dell’arte, culture urbane e gender studies. Parlando con alcuni di loro, si capisce che l’obiettivo è quello di far arrivare un messaggio chiaro: cioè, che dietro a qualcosa che potrebbe sembrare apparentemente di poco conto e obsoleta, si cela invece «una preziosa testimonianza […], un’infinità di tematiche socio-culturali e le espressioni artistiche e commerciali a esse connesse».
Tornando al titolo di quest’ultima sezione e alle questioni affrontate durante tutto il testo, vorrei concludere riportando proprio le parole del MEM alla mia solita domanda sulla memoria musicale e la sua storiografia:
«La memoria è a suo modo effimera … [ma] il ruolo del curatore, dell’archivista o del bibliotecario musicale – che potrebbero convergere o sovrapporsi – deve essere proprio questo, ovvero la capacità di dare un senso alla quantità pressappoco infinita di beni materiali e immateriali che compongono il bacino della popular music».
E ancora:
«[Bisogna] parlare di “memoria musicale” in un’accezione più ampia, e cioè considerando la popular music un elemento fondamentale per la comprensione di determinati momenti storici e culturali. Penso a come la storia degli afroamericani nel ’900 sia inseparabile dal canone blues, r&b, jazz, soul, funk, disco, house, techno, rap; o al post punk e alla new wave, testimonianze preziose dell’epoca Thatcher; o ancora, al ritratto sonoro dell’accelerazione tecnologica degli anni ’90 offerto dai ritmi e dai suoni di tutte le frange della musica dance di quel decennio».
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Fiamma Mozzetta è dottoranda di ricerca alla Goldsmiths di Londra in popular music e si occupa di musica e tempo: memoria, patrimonio culturale, archivistica e storiografia pop. Collabora con riviste accademiche e non come openDemocracy, Not, Blow Up, Musica/Realtà.
A. Benedetti, Gli archivi sonori: fonoteche, nastroteche e biblioteche musicali in Italia, Erga, Genova, 2002.
F. Fabbri, Insegnare La Popular Music Senza Dischi? E Senza Musica?, in Studiare La Popular Music in Italia (IASPM Italy Conference), 2002, https://www.academia.edu/4235623/Insegnare_la_popular_music_senza_dischi_E_senza_musica.
F. Fabbri, G. Plastino, Introduction: An Egg of Columbus; How Can Italian Popular Music Studies Stand on Their Own, in Made in Italy: Studies in Popular Music, edited by F. Fabbri & Gs. Plastino, 1–12, New York; Routledge, 2013, Londra.
M. Gentili-Tedeschi, MUSIC IN ITALIAN NATIONAL LIBRARIES, «Fontes Artis Musicae», 58 (3), pp. 274-80, 2011.
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Settori Concorsuali e Settori Scientifico-Disciplinari, miur.gov. 2018, https://miur.gov.it/settori-concorsuali-e-settori-scientifico-disciplinari.
M. Sorce Keller, Italy in Music. A Sweeping (and Somewhat Audacious) Reconstruction of a Problematic Identity, in Made in Italy: Studies in Popular Music, edited by F. Fabbri & G. Plastino, pp. 17-27. New York; Routledge, Londra, 2013.
P. Tagg, Why Are Popular Music Studies Excluded from Italian Universities?, 2014, http://tagg.org/xpdfs/ItSystemBkgdV2.pdf.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.