Paul B. Preciado parla di pratiche di rivolta in epoca tecnopatriarcale a partire da sé, da una auto-teoria sempre posizionata all’interno di una rete di strutture più ampie che ci plasmano. Esplora i rapporti di forza materiali e le retoriche che costruiscono e ingabbiano le soggettività, dall’economia alla tecnologia, incluse “la trasformazione biochimica della sensibilità e la produzione e distribuzione di immagini pornografiche” (2008). Traccia un percorso che mostra la continua trasformazione del potere che disciplina i nostri corpi, in risposta alla produzione post-industriale di soggettività. Un potere che non arriva più dall’esterno, ma che è interiorizzato in una sua versione ridotta. Come in Testo Tossico, la metafora usata per raccontare il processo di incorporazione del disciplinamento è quella della pillola contraccettiva, farmaco simbolo della miniaturizzazione e dell’ingestione di un potere che opera oggi all’interno della sfera privata domestica. Il ridimensionamento in termini spaziali dell’apparato disciplinare si osserva anche in tutti gli altri ambiti dello sviluppo tecnologico biocapitalista: gli strumenti di sicurezza, l’estensione di Internet, i sistemi di riconoscimento, le tecniche di procreazione assistita, l’intelligenza artificiale.
Filosofo della disidentificazione, Preciado ci stimola a esaminarci, a svelare le tecnologie che costruiscono i nostri corpi, ad “aprile la pillola” come gesto politico necessario per riconoscerci oltre le finzioni di cui siamo plasmat*. La rivolta in epoca tecnopatriarcale non può che nascere da un processo di disidentificazione collettiva, a partire proprio da quei corpi nati o che si identificano in quanto maschi (bianchi): corpi che da sempre hanno accesso ai linguaggi e alle tecnologie di potere. Se è vero che oggi viviamo una violenta controrivoluzione data da politiche identitarie etero-nazionaliste, è anche vero – suggerisce Preciado – che non dobbiamo mai perdere di vista come questa reazione sia dovuta all’ampiezza del movimento anti-patriarcale.
In un recente articolo, Preciado scrive che «la scrittura è il processo di edizione che permette al testo di diventare un’unità in una lingua travestita» (2019). In questo senso, il processo di traduzione di questo talk si trova a unire diverse lingue – la parola spagnola, la gestualità del corpo di chi parla, le emozioni del corpo collettivo che ascolta – perché Preciado cerca continuamente parole per dire ciò che sentiamo, tradurre le nostre esperienze, spesso incastrate in linguaggi troppo stretti. La sua è una produzione di pensiero che nasce da – e restituisce a – quel “lumpen somato-politico” da lui stesso indicato come unico spazio possibile di produzione di linguaggi resistenti alla normalizzazione: partire dalle parole che ci definiscono come abiett* per creare parole “non autorizzate”. Partire sempre dalla possibilità di un noi. Un “noi” che ho voluto mantenere nella traduzione scritta di parole vive, anche a scapito della forma, per dare voce a questa “assemblea costituente di una rivoluzione in marcia”.
Introduzione e traduzione di Maddalena Fragnito
Buonasera, prima di tutto vorrei ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile la mia venuta qui al PAC, in particolare Diego Sileo che tempo fa mi mandò un invito così entusiasta a cui risultava impossibile non rispondere, l’Istituto Cervantes che ha contribuito economicamente alla mia venuta e chi ha il difficile compito di tradurmi oggi. Abbiamo discusso su quale lingua adottare durante questa conferenza e abbiamo deciso che poteva essere il castigliano, anzitutto perché è la mia lingua madre, poi perché magari è una lingua che in fondo capite abbastanza anche voi. Abbiamo quindi optato per la possibilità che io parlassi in castigliano e voi in italiano, e che potessimo capirci.
Sono veramente emozionato dalla quantità di gente che è venuta a questo incontro.
Sono anni che parlo e sogno di rivoluzione e, nonostante questi siano tempi controrivoluzionari, sono ancora più emozionato nel vedere tutt* voi qui oggi: l’importante non è che io sia qui ma che voi siate qui come in un’assemblea costituente di una rivoluzione in marcia. Non pensavo che l’avrei mai detto ma, guardandovi, mi rendo conto che vi amo profondamente perché stiamo vivendo insieme situazioni pesanti e complesse in ogni parte del mondo. Penso che oggi sia più necessario del solito stare vicin* e stabilire nuove alleanze.
Nonostante l’invito e il programma del PAC nominino i termini “identità” e “genere”, mi oppongo a queste due nozioni. Mi oppongo alla nozione di identità perché le cose che proverò a spiegare qui non sono legate a politiche identitarie ma promuovono la pratica di un insieme di micro-politiche di disidentificazione. Non è quindi l’identità il discorso ma, semmai, la disidentificazione! Credo che il problema più grosso degli ultimi 60 anni, dalla Seconda guerra mondiale in avanti, è che tutti i movimenti politici si siano strutturati come politiche identitarie e che oggi ci troviamo al limite di questa possibilità, di questa epistemologia della politica dell’identità: in tante e tanti oggi ci riconosciamo in una pratica politica di disidentificazione. Mi oppongo anche alla nozione di genere perché questo si è convertito nello strumento attraverso cui le istituzioni dominanti parlano di minoranze. D’un tratto si parla di identità di genere – che merda… – ma cos’è? Parliamo invece di quello di cui dobbiamo parlare, non d’identità di genere ma di minoranze oppresse. Per essere più esplicito, di minoranze di donne, di donne non-bianche, di lavorat* del sesso, di persone trans, di persone con abilità differenti… Le nozioni “differenza di genere” o “identità di genere” sono strumenti della politica neoliberista, e credo che tutt* dobbiamo opporci, sia come istituzioni sia come movimenti, all’uso di questi termini.
Mi sembra fondamentale e da tenere in considerazione che la nozione di genere, poi usata dalle femministe negli anni ’70 come strumento di critica, sia un termine che nasce nel linguaggio medico. È stato inventato negli anni ’40-’50 del secolo scorso nel contesto diagnostico de* bambin* nati intersessuali. È quindi una nozione che non possiamo utilizzare senza conoscere le conseguenze politiche che questo termine ha avuto nei protocolli medici in uso per il riconoscimento di tutti i neonati, nel contesto medicalizzato occidentale. Questo è ciò che vuole dire “genere”. Pertanto, quando parliamo di identità di genere, dovremmo prestare molta attenzione al fatto che usiamo termini che provengono da una tecnologia medica di normalizzazione delle differenze sessuali.
Definisco come lotta “somato-politica” la lotta dei corpi storicamente oppressi, corpi che inglobano il femminismo e lo sorpassano, che lo includono ma vanno avanti. La lotta somato-politica è quella di tutti quei corpi che sono stati oppressi nella storia. È questa la differenza con una politica identitaria che presuppone un soggetto politico “donna”, “nero”, “trans”, “operaio”, “omosessuale”,… – che presuppone quindi un soggetto che struttura la lotta, che crea le sue strategie politiche. In opposizione a questa politica delle identità, propongo un insieme di alleanze somato-politiche che si strutturano nella critica radicale alle tecnologie di oppressione. Pratiche sempre sperimentali di disidentificazione e non di produzione identitaria. Per me il punto è mettere in crisi tutte queste identità e creare alleanze trasversali tra corpi oppressi: è questo il cambio di segno che dobbiamo essere in grado di fare. Anche nel discorso egemonico e maggioritario, infatti, vi è una produzione di politiche identitarie come reazione alle nostre degli anni ’70, ’80 e ’90. Ciò che stiamo vivendo oggi sono le politiche identitarie etero-patriarcali. Da una parte c’è una forte rivoluzione che nasce dalla critica al “tecnopatriarcato”, dall’altra, c’è un’altrettanto forte controriforma, una reazione controrivoluzionaria agita dalle egemonie tecnopatriarcali.
In questi anni, stiamo assistendo a una grandissima frizione tra questa rivoluzione somato-politica – la definisco così perché non si riduce solamente al femminismo o a un soggetto specifico – e la contro-reazione patriarcale che pretende di conservare un sistema di potere. È vero che siamo davanti a un pessimismo generalizzato, del tutto normale dato il contesto di controriforma storico globale (basti pensare a ciò che accade in Ungheria, UK, Grecia, USA, Brasile, Italia,…), è anche vero e importante, però, cosa da non perdere mai di vista, come questa reazione sia dovuta alla profondità e all’ampiezza del nostro movimento rivoluzionario. Questo è ciò che dobbiamo capire e sapere collettivamente, perché se non ci rendiamo conto di tale aspetto, entriamo in uno stato di depressione collettiva che non farebbe altro che favorire la controriforma globale.
La frizione tra rivoluzione e controrivoluzione è la guerra per la proprietà dei mezzi di riproduzione, e non per i mezzi di produzione. Uno dei problemi della filosofia politica del XX secolo è che si è concentrata sui mezzi di produzione. Questa è una critica tanto al marxismo quanto al liberismo: infatti, entrambi i discorsi hanno naturalizzato la riproduzione, hanno pensato che la riproduzione fosse un ambito naturale concentrandosi solo sui mezzi di produzione, di appropriazione e di espropriazione della merce. Il luogo centrale della produzione di valore, intorno a cui si produce oggi la più violenta delle guerre, è invece costituito dalla proprietà e dall’uso dei mezzi di riproduzione. Possiamo dire che nel ventunesimo secolo il corpo occupi lo stesso luogo che la fabbrica occupava nel XIX. Il corpo è il luogo in cui agiscono i più grossi processi di appropriazione, espropriazione e lotta politica.“…Il corpo è il luogo in cui agiscono i più grossi processi di appropriazione, espropriazione e lotta politica.” Per questo parlo di “somato-politica” – una nozione originariamente di Foucault – come luogo centrale di questa lotta. Una lotta che nasce nella tradizione femminista ma che, attraverso questa espansione, la supera chiedendoci disidentificazioni.
La domanda centrale della filosofia contemporanea è: che cosa sta succedendo? Non è ovvio né semplice capire e rispondere ma, quando lo facciamo, possiamo elaborare nuove strategie di lotta politica. Quindi, che cosa sta succedendo?
Ciò che sta succedendo è l’estensione della logica della frontiera contro l’apparente libera circolazione di merci del neoliberismo. Ciò che sta succedendo è l’apparizione di campi profughi come nuove forme di urbanismo senza città, quindi nuove forme di spazio sociale totalmente sprovviste di sovranità. Ciò che sta succedendo è l’urbanizzazione della totalità del pianeta.
Ciò che sta succedendo è la sperimentazione di tecniche di procreazione assistita per ottenere la riproduzione a partire da due corpi con cromosomi XX, quindi senza il cromosoma Y – quello che fino a oggi è stato identificato come maschile (mi chiedo, d’altra parte, se i cromosomi abbiano un sesso o un genere…). Vedete come in un tempo non troppo lontano – era il 18 ottobre 2018 –, in un laboratorio cinese, si ottiene la riproduzione di un nuovo topo da due topi femmina, cioè da due topi XX. Mi soffermo su questa immagine perché possiate vedere il nostro più vicino alter-ego contemporaneo, quello su cui e con cui hanno condotto le più importanti ricerche tecno-scientifiche intorno al corpo che conosciamo come umano. Uno degli animali che Donna Haraway definisce come “cyborg”.
Ciò che sta succedendo è un’assidua ricerca per lo sviluppo di un utero artificiale, ovvero la meccanizzazione totale e conseguente esternalizzazione del processo riproduttivo. Questa non è letteratura sci-fi, è un progetto di ricerca reale dentro ai laboratori israeliani, americani, cinesi ed europei.
Ciò che sta succedendo è l’apparizione di forme inedite di parentele, ovvero uomini trans in gestazione e donne trans donatrici di sperma. Ciò che sta succedendo è dunque una disidentificazione totale tra corpo, genere, fluidi e processo riproduttivo. Come dire, sperma maschile che si converte in luogo di maternità e ovociti femminili che si convertono nella possibilità di una paternità: una disidentificazione radicale tra ciò che intendiamo con genere e processi riproduttivi.
quali sono gli organi che meritano di essere stampati, di essere riprodotti?
Ciò che sta succedendo è che, con l’estensione di Internet (rete informatica di connessione del mondo permanente 24 ore su 24) e la sua connessione diretta al corpo, si producono nuove forme di soggettività ultra-connesse che appaiono come qualcosa di assolutamente affascinante – cosa che ho scoperto essere definita come “eroina elettronica” nel mio ultimo viaggio in Cina. Se ci siamo sempre alimentati di flussi materiali e semiotici, ora ci alimentiamo di flussi informatici ed elettronici, senza i quali non siamo più capaci di vivere.
Ciò che sta succedendo è l’apparizione incessante di applicazioni digitali che permettono la gestione totale della vita, dalla fertilità, dalla gravidanza, dall’alimentazione, dal peso, dall’assunzione di farmaci, sino alle nostre prestazioni sessuali.
Ciò che sta succedendo è l’apparizione di algoritmi, quindi di intelligenza artificiale, che permettono di individuare le nostre identità sessuali, l’autismo, la depressione, la razza,…
Ciò che sta succedendo è che, mentre oltre 100.000 persone aspettano dall’altra parte della frontiera, il parlamento dell’Unione Europea discute intorno alla possibilità che i robot possano essere riconosciuti come persone elettroniche legali. Si comincia quindi a parlare della legalizzazione dei robot sessuali come alternativa alla prostituzione.
Ciò che sta succedendo è l’invenzione delle stampanti 3D che cominciano a stampare organi con biomateriali elaborati da DNA di cellule madri, dando la possibilità di produrre organi stampati che possono essere installati in tessuti vivi. La domanda diventa immediatamente: quali sono gli organi che meritano di essere stampati, di essere riprodotti? È possibile stampare un organo sessuale? Ovvero, è possibile stampare un clitoride e impiantarlo sul petto di un corpo maschile, e stampare e impiantare un pene senza dover chiudere una vagina?
Nel frattempo, con l’espansione della tecnologia nucleare, come afferma Svetlana Aleksievic, il “sarcofago di Chernobyl” – ciò che resta di Chernobyl – sarà l’unica eredità architettonica che resisterà al futuro: il nostro unico pezzo di eternità. Tutto questo, in un orizzonte climatico estremamente caldo…
Siamo davanti a un cambio di paradigma paragonabile solo a quello che si produsse nel XV secolo con l’avvento della stampa e dell’espansione del capitalismo coloniale. Ma è un cambio molto diverso perché, oggi, ciò che si sta decidendo è che cosa voglia dire essere un corpo vivo. Un corpo per la prima volta non solo organico, ma anche un corpo inorganico: che cosa e chi è un corpo con uno statuto legale e politico? La questione si pone con più urgenza che mai perché, per la prima volta, abbiamo in mano tecnologie capaci di riprodurre la vita e quindi anche di distruggerla, portandoci all’estinzione totale della vita sul pianeta. Di questo ci si interroga oggi, questa è la sfida; parlare di politiche di genere è quindi assurdo ed estremamente banale. Non stiamo parliamo di politiche di genere, ma di politiche di riproduzione della vita sul pianeta, cosa che ci inserisce in un discorso ben più ampio.
Dall’altra parte, ciò che emerge è che non abbiamo analisi politiche sulle tecnologie di riproduzione della vita. Il testo su cui lavoriamo e ci confrontiamo da anni che tratta le politiche della riproduzione – il più centrale insieme agli studi femministi – è la Storia della sessualità di Foucault. Stiamo tuttavia studiando la storia della sessualità su un testo scritto da un filosofo che non fece mai “coming out”, che non si confrontò con le nozioni femministe e che ignorò l’archivio coloniale mentre lavorava sulla storia europea del XVIII e del XIX secolo. Abbiamo un problema, ed è un problema serio.
Come filosofo contemporaneo, mi chiedo da dove sia possibile pensare oggi. Il ruolo di filosofo contemporaneo è una posizione che rivendico, ovvero io non mi definisco un esperto di politiche dell’identità ma un filosofo contemporaneo – infatti, non si dice di un filosofo contemporaneo che sia un “esperto del XIX secolo”, lo si definisce in quanto filosofo contemporaneo, mentre, se si tratta di una persona trans, la definizione diventa subito “esperto in identità di genere”… Tornando alla domanda, mi chiedo se sia possibile parlare quando si fa parte del “lumpen” somato-politico, quando si fa parte del margine, del rifiuto somato-politico, ovvero se sia possibile parlare dalla posizione delle donne non-bianche, delle puttane, delle froce, delle proletarie, dei corpi trans, dei corpi colonizzati, dei corpi non abili. Mi chiedo se sia possibile pensare dalla parte delle bambine e dei bambini, dalla parte degli animali, dei vecchi, dei malati, dei poveri, ovvero dalla parte di quei corpi a cui storicamente è stato negato l’accesso alla produzione della conoscenza – come dire che non possiamo parlare producendo conoscenza – ma su cui si è prodotta conoscenza. Dalla parte di quei corpi che non hanno mai avuto accesso alle tecnologie di governo. Che cosa significa parlare da questa posizione? È possibile parlare da questa posizione? Possiamo parlare noi che siamo stati esclusi dalla cittadinanza, che non siamo stati considerati come umani o che siamo ancora in lotta per essere riconosciuti come tali? Di più, possiamo parlare noi che critichiamo la stessa nozione di umanità e di umanesimo in quanto linguaggio che fa parte della storia delle oppressioni? Per me solo da questo luogo, da questo “lumpen” somato-politico, si può produrre pensiero oggi. È l’unico luogo da cui si può pensare, cioè da un insieme di culture di resistenza alla normalizzazione – come il femminismo radicale, le politiche queer, queen, post-porno: pensare sin dall’inizio, per violazione, contro i linguaggi egemonici che ci definiscono in quanto abiett*. Solo così si produce una parola non autorizzata, nonostante prendiamo parola proprio usando quello stesso linguaggio che ci definisce come malat* e socialmente abiett*.
Si tratta di pensare a partire dal corpo, un corpo non inteso come “naturale” ma come archivio politico vivo, come ciò che io definisco “somateca”, ovvero un archivio che trasporta con sé tutta la storia dell’oppressione e, insieme, è carico di tutta la sua potenza rivoluzionaria, della sua resistenza. Forse in alcuni dei miei libri avrete letto che ho deciso di trasformare in un processo di scrittura – pratica che intendo come forma di azione diretta – il mio percorso di assunzione di testosterone, ciò che viene definito come un percorso di transizione. Non mi identifico come un transessuale: costruisco la mia soggettività con il testosterone come lo sciamano costruisce la sua con le piante. Di fatto, dal linguaggio medico, ciò che si pensa è che il testosterone sia la cura a una malattia mentale che viene definita come “disforia di genere”. Per questo, la mia pratica di assunzione di testosterone è una pratica di disidentificazione“…la mia pratica di assunzione di testosterone è una pratica di disidentificazione”, nel rispetto della transessualità. Mi identifico invece come pensatore contemporaneo “auto-cavia” – una nozione che deriva da alcuni medici dissidenti dell’oggettivismo scientifico che decidono di usare il proprio corpo come luogo di sperimentazione. Questa pratica non è affatto nuova nella storia, c’è una lunga tradizione di pensatori auto-cavia (basti pensare a Freud con la cocaina, a Benjamin con l’hashish, a Burroughs con l’eroina…). Una tradizione, quindi, non di pensatori malati o disforici, ma di pensatori che costruiscono la propria soggettività attraverso la chimica. Parlo di medici dissidenti, di sciamani e di figure simili perché mi interessa il loro agire una resistenza e una critica al discorso scientifico. Lo fanno perché le nozioni moderne di mascolinità, femminilità, omosessualità, eterosessualità, transessualità, intersessualità e genere sono termini che derivano dall’ambito scientifico e, infatti, una delle difficoltà più grosse delle micro-politiche del XX secolo è che lavorano e si confrontano con un discorso, non più religioso o “mitico” (come quello anteriore al XV secolo) ma scientifico: un linguaggio che ci descrive anzitutto come malati, poi come “utenti” di un welfare sociale (oramai inesistente) o dell’industria farmacologica. All’interno dei femminismi come nelle lotte queer, è importante renderci conto che i termini e le categorie contro cui lottiamo appartengono originariamente a un linguaggio tecnico-scientifico. La difficoltà è che questo linguaggio si presenta come empirico, di realtà, ci confrontiamo con un linguaggio che pretende di sapere che cosa sia un uomo, una donna, un omosessuale, un transessuale, un intersessuale,… Non siamo più davanti a una critica dei linguaggi teologici – sebbene questi continuino ad agire – ma ci troviamo in una fase diversa, aperta da pensatrici come Donna Haraway, una fase che produce una critica all’apparato di validazione tecnico-scientifica, al suo realismo naturalista e a ciò che oggi è l’apparato di produzione discorsivo egemonico – o che perlomeno lo è stato sino all’avvento di Internet. Possiamo dire infatti che i due apparati di produzione del discorso dominanti siano oggi diventati il mercato e le reti sociali. Siamo in una configurazione ancora più complessa di quella che Donna Haraway immaginò nel 1984 nel suo Manifesto Cyborg.
Quando parlo di un pensatore auto-cavia, un modo per immaginarlo è come se fosse un hacker che entra in un sistema operativo, che lo buca. Un cyborg che apre la sua scatola nera. Negli anni ’80 e ’90, quando la ricerca sull’AIDS si avvicina all’industria farmacologica, emergono questi gruppi di pazienti “tester”, i quali non sanno che cosa stiano ingerendo, se medicine o placebo. A fronte di questo, una rete di movimenti in lotta per richiamare l’attenzione sulle vite dei malati di AIDS (soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa) propone di “aprire la pillola” – termine che ho poi ripreso diverse volte in questi anni –, ovvero, rifiutandosi di essere trattati come consumatori ciechi dell’industria farmacologica, chiedono di sapere ciò che stanno assumendo. È questo il processo di emancipazione cognitiva che appoggio: “aprire la pillola” vuol dire decodificare le tecnologie che producono le finzioni politiche che crediamo di essere, ovvero le tecnologie che ci rendono sicuri di essere maschi, femmine, omosessuali, eterosessuali, transessuali, intersessuali.
Mi chiedo come sia possibile che ancora nel 2019 e dentro questa complessità, utilizziamo i termini “maschio”, “femmina”, “omosessuale”, “trans”,… come nozioni valide, ovvero come termini che garantiscono cittadinanza e sovranità. Dovremmo essere dentro una rivolta epistemologica costante, dovremmo protestare davanti ai laboratori farmacologici, alle accademie mediche e di biotecnologia. Stiamo dando cittadinanza legale, e quindi accesso, alle tecnologie di potere e della conoscenza, attraverso l’uso di nozioni che sono fondamentalmente tecniche di oppressione. Il nostro lavoro non è quello di unirci come “donne” o come “trans”, ma di mettere seriamente in crisi l’epistemologia che ci produce come “donne” e come “trans”. Quando parlo di “aprire la pillola” e di entrare nel sistema operativo non mi riferisco a una metafora ma ad azioni concrete tanto quanto prendere il testosterone. L’inflazione del discorso sulla performatività del genere è pericoloso, il punto è la materialità del genere, è lì dove si gioca la vita di ognun* di noi, non nella sua performatività. Ci sono infatti performatività di genere naturalizzate e altre che non lo sono affatto: teatralizzate, viste come mere imitazioni e mai riconosciute. È quindi importante parlare di tecnologie del genere e non di performatività del genere: la performatività è solo una delle tecnologie del genere. Altrimenti il rischio è di ritrovarci in un contesto dove tutt* teatralizzano il genere limitatamente agli spazi ludici e di sperimentazione, come negli spazi dei musei, mentre fuori persiste la cristallizzazione di generi egemonici, dominanti ed escludenti.
[…]
Rif. bibl.: Paul B. Preciado, Testo Yonqui, 2008, pp. 14-15.
Non tutte le immagini pubblicate in questo articolo sono quelle utilizzate da Paul B. Preciado durante il talk.
La traduzione è stata inoltre precedentemente pubblicata su «Medium» il 16 marzo 2019.
Maddalena Fragnito è un’attivista culturale che esplora le intersezioni tra arte, transfemminismo e tecnologie concentrandosi su pratiche di cura comuni. Attualmente è dottoranda presso il Centro per le Culture Postdigitali dell’Università di Coventry. Ha co-fondato MACAO (2012), un centro culturale autonomo a Milano e SopraSotto (2013), un asilo autogestito dai genitori. Fa parte dei progetti di ricerca Rebelling with Care (2019), Pirate Care (2019) e Biofriction (2020).
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Paul B. Preciado è un filosofo e scrittore, e curatore d'arte. Si occupa di teoria queer e studi di genere. Autore del Manifesto controsessuale (Fandango Libri 2019); Testo Tossico. Sesso, droghe e biopolitica (Fandango Libri, 2015); Terrore anale (Fandango Libri, 2018) e Pornotopia. Playboy Architettura e Sessualità, finalista del Premio saggio Anagrama 2010 (Fandango Libri 2020). È stato direttore dei programmi pubblici del MACBA e PEI (Independent Studies Program) tra il 2012 e il 2014 e curatore del programma di Documenta 14 Kassel e Atene. Ha curato il padiglione di Taiwan della Biennale di Venezia 2019. Attualmente è filosofo associato presso il Centre Georges Pompidou di Parigi.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.