‹‹I want more out of life than this
I want more, I want more
I want more out of life than this
I want more, I want more
I want more out of life than this
I want more, I want more
I want more out of life than this
I want more, I want more
I want more out of life than this
I want more, I want more
I want more out of life than this
I want more, I want more››.
Brockhampton
‹‹Andiamo a fare il mondo bello!››.
Tutti Fenomeni
1. Non c’è niente di cui essere ottimisti
Ci troviamo sul limitare di una catastrofe climatica, al contempo stiamo affrontando una enorme pandemia e un alito di vento ci separa da un periodo di grande crisi economica e politica. Le cose non sembrano migliorare: negazionismo climatico, negazionismo pandemico, no-vax e complottismo sono i temi che vanno per la maggiore. Come scrive Matteo Meschiari su «Doppiozero»:
‹‹[D]a qualche anno, praticamente ovunque, sicuramente in ogni fascia socio-culturale della popolazione globale, centinaia di milioni di persone si stanno inconsapevolmente preparando al peggio. Qualcosa, nella testa della gente, ha avvelenato l’ottimismo di specie e la prospettiva del disastro è così imminente e così psicologicamente intollerabile che il cervello non è in grado di sostenerla. Sappiamo che il mondo conosciuto crollerà ma negare il collasso sembra l’unica forma di reazione possibile. […]. Ecco allora che nel crollo, nello smarrimento panico, il superorganismo si attiva: de-evolversi, rinunciare alla complessità, cedere alle teorie del complotto, decadere culturalmente, instupidire […]. Stupidità come adattamento al collasso, dunque, cecità come protezione dal terrore››.
C’è chi parla di un ritorno a un nuovo medioevo: il tradizionalismo, il fondamentalismo e le politiche regressive delle nuove destre stanno corrodendo l’età contemporanea dall’interno, limitandone le forze propulsive – piegando, a detta di qualcuno, i mezzi tecnologici a fini militari, propagandistici e repressivi. Fenomeni climatici estremi, epidemie, eserciti che da oriente premono ai confini dell’occidente, corporazioni di avidi mercanti, crisi finanziarie, paranoie apocalittiche partorite da culti millenaristi, sono le piaghe divine che si abbattono su un pianeta martoriato. Le forze che governano i nostri tempi carichi di conflitti sono ancora bigottismo e superstizione. In ogni parte del globo, i movimenti reazionari invocano la chiusura dell’epoca moderna e il ritorno a varie configurazioni precedenti.
Non stupisce, dunque, la fascinazione nel dibattito filosofico contemporaneo per un certo tipo di pessimismo filosofico. L’onnipresenza della morte, la minaccia costante e irreversibile dell’estinzione ha trovato come risposta nell’uomo una grande cecità, o – per dirla con Francesco D’Isa – un’incapacità di gestire la morte. Come spiega Claudio Kulesko nella sua recensione al libro di D’Isa:
‹‹[N]ella cornice metafisica fornita da Francesco, la Gestione della Morte cessa di essere un paradigma meramente esistenziale (incentrato sull’elisione e sulla censura sistematica del tema della morte, come notato da numerosi filosofi, quali Zapffe, Schopenhauer, Heidegger e Sartre); l’esperimento allestito da Francesco in queste pagine culmina proprio in un tentativo di superare la dimensione puramente culturale di paradigmi quali la Terror Management Theory o l’esistenzialismo – entrando in un campo necessariamente metafisico, quello delle affermazioni (seppur ipotetiche) sulla natura delle cose in se stesse. I meccanismi che ci inducono a “evitare” la morte, in questo caso, divengono puramente biologici e, tuttavia, così raffinati e sublimati dalla selezione naturale, da permeare all’interno della sfera culturale e nel dominio delle rappresentazioni mentali – restando, al contempo, perfettamente trasparenti, ossia impossibili da individuare con la massima precisione. La bellissima definizione data da Francesco a tali pulsioni è quella di “motore arcaico”. Il territorio, seppur in versione speculativa, è quello già battuto da Dawkins (citato nello scritto) e da Pinker: l’essere umano come mera componente della cosiddetta “bomba duplicazionale” organica››.
In breve, usando le parole dello stesso D’Isa:
‹‹Non intendo che qualunque cosa tu faccia sia accompagnata dal pensiero della morte, ma che ogni tendenza è radicata in un meccanismo atto a evitarla, presumibilmente allo scopo di diffondere i tuoi geni. […] Sul versante più moderato […] abbiamo Charles Darwin, che sostiene che ogni produzione culturale è funzionale alla continuità della specie umana, e Sigmund Freud, per il quale il comportamento umano è sostanzialmente regolato dal principio di sopravvivenza e viene ammantato di rappresentazioni che sono illusorie quanto necessarie. […] È così sgradevole sentirsi manovrati da forze aliene che si preferisce giustificare le proprie mosse obbligate in termini di “era la costa giusta da fare”, persino quando si tratta di comportamenti che portano soltanto danno››.
Gettato in questo mondo senza alcun avvertimento, l’essere umano si ritrova a dover affrontare una complessità che non riesce a comprendere, dei problemi probabilmente insormontabili che lo condurranno alla morte, non senza prima aver vissuto tutta la sua vita all’interno di un sistema economico il cui unico scopo è quello di condannarlo al lavoro eterno, togliendogli qualsiasi forza creativa, qualsiasi giorno lieto della sua vita fino a lasciarlo spolpato in vecchiaia, spuntandolo via quando ormai della sua vita non può far più niente, tutto questo per generare una ricchezza di cui lui o lei non godrà mai. Trapiantato in questo ambiente che non è per nulla simile a quello per cui l’umano si è evoluto, la sua unica speranza sembrerebbe la morte. Inevitabilmente, si arriva alla comprensione che l’esistenza è priva di senso, l’unico scopo dell’esistente è riprodursi e generare nuova vita priva di senso e ricolma di sofferenza, in un cieco e orrido procreare che in tempi cosmici rimarrà comunque intrappolato nel dolce abbraccio della morte. Nel cosmo c’è solo competizione, competizione per la sopravvivenza, competizione per la riproduzione, competizione per quel lavoro che ti darà due spiccioli in più per poterti permettere quella vacanza di tre giorni in estate, competizione per lo status. Competizione che ti condurrà alla morte stressato, senza una comunità, lupo tra gli uomini-lupo.
Il nucleo teorico di questo tipo di speculazione è quella che viene chiamata la black pill:
‹‹Uno stato mentale prodotto dall’aver realizzato la brutale verità: vedere la realtà/società per ciò che essa è davvero, al di là dell’illusione dell’“uguaglianza” alla quale siamo condotti a credere. Comprendere che la vita è fondamentalmente ingiusta, che “vincitori” e “perdenti” sono determinati, per lo più, da circostanze sulle quali non si ha alcun controllo (aspetto, ricchezza, salute mentale, altezza, etnia, famiglia, fortuna ecc.). La disperazione che assale chi assume la pillola nera può divenire invalidante, conducendo il soggetto alla soglia della follia […]. Si tratta, tuttavia, di uno stadio necessario al raggiungimento dell’illuminazione […]››.
La pillola nera è quindi un passo verso l’abisso, l’abbraccio – o la caduta – verso la depressione totale, verso il nichilismo più puro; o, come la vedono i blackpillati, il passo finale verso la Verità.
La metafora della pillola nasce nella comunità incel – gli autodichiarati celibi involontari, in realtà un gruppo d’odio misogino – riprendendo la famosa scena del film Matrix, dove a Neo vengono offerte due pillole: la blu, per tornare alla sua vita normale, frutto di un’illusione e continuare a vivere la sua vita-fantoccio; la rossa, per uscire dalla tana del bianconiglio e vedere la realtà per com’è. Nel linguaggio incel, prendere la pillola blu significa continuare a vivere da maschi beta, vivere in un mondo illusorio dove si crede ingenuamente che c’è una speranza per tutti; mentre prendere la pillola rossa vuol dire comprendere che l’unico scopo della vita è scopare e riprodursi, e che le donne sono degli esseri perfidi che sfruttano gli uomini per procurarsi piacere, dunque bisogna ingegnarsi ed estorcere loro il sesso.
La pillola nera, ancora più oscura, guarda dall’alto i redpillati, sostenendo che la natura è crudele e non c’è modo di uscire, di tirarsi fuori dalla sua tirannia. L’unico modo per evitare la sofferenza è sopprimere il desiderio e riconoscere che non c’è salvezza: l’esistenza è una gara alla riproduzione senza senso, che la maggior parte degli esseri è incapace di sostenere.
Gianluca Didino scrive su «L’Indiscreto»:
‹‹Questa è la grande lezione che impara il depresso: niente al mondo è intrinsecamente irresistibile. Qualunque cosa ci sia davvero “là” non ha il potere di proiettarsi come esperienza affettiva. È tutta una faccenda vacua dal prestigio unicamente chimico. Niente è buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile o chissà cos’altro, tranne ciò che è reso tale dai laboratori interiori che producono le emozioni di cui ci nutriamo. E nutrirsi di emozioni è vivere in maniera arbitraria, inaccurata: attribuire un significato a ciò che non ne è provvisto è […] Una brutta depressione […] fa evaporare le emozioni e ti riduce a guscio di persona abbandonata in un panorama brullo. Le emozioni sono il sostrato dell’illusione di essere un qualcuno tra altri qualcuno, oltre che della sostanza che vediamo nel mondo, o crediamo di vedere. Non conoscere questa verità-punto zero dell’esistenza umana è l’equivalente del non conoscere nulla di nulla››.
Le argomentazioni addotte a sostenere questa forma estrema di nichilismo/pessimismo, però, prendono spunto dalle ricerche di due psicologhe statunitensi, Lauren Alloy e Lyn Yvonne Abramson, per descrivere la presunta capacità dei soggetti depressi di rapportarsi in maniera più realistica nei confronti del mondo rispetto ai non-depressi. Da un lato infatti, aspettandosi sempre il peggio, essi sarebbero meno portati a sottovalutare i rischi, mentre dall’altro sarebbero capaci di rapportarsi alla realtà in maniera più “distaccata”, senza edulcorarla. Questa rivalutazione della depressione si sviluppa in un pensiero metafisico completo, noto come realismo depressivo, che sembra dare un potente punto d’appoggio al pessimismo filosofico. Grazie alle ricerche di Alloy e Abramson in campo psicologico, infatti, il pessimismo filosofico è in grado di dare sostegno scientifico alla sua tesi fondante: il fatto che la realtà delle persone “sane” sarebbe illusoria, una finzione volta a nascondere la terribile verità del mondo e che il depresso sarebbe in grado di smascherare riuscendo a vedere la realtà per ciò che è.
È ancora Claudio Kulesko, sacerdote oscuro del pensiero pessimista, a scrivere:
‹‹L’idea che i vincenti e gli ottimisti siano preda di una comoda allucinazione collettiva, che ogni individuo non sia altro che un burattino tra le mani di un’entità impersonale e indefinibile, e che solo il pessimista “hardcore” possieda una chiara e limpida visione del reale, non può che risultare affascinante a ogni outsider là fuori. L’intero impianto concettuale di Ligotti potrebbe anche essere descritto come una versione ancor più pessimista e nichilista della Black Pill: non c’è nessuna via d’uscita; questo sarebbe, in sostanza, l’insegnamento della Black Pill. Una volta intrapresa tale strada non vi è più ritorno, se non nel reame della pura immaginazione (si veda, ad esempio, il cupo finale del Joker di Todd Phillips). Il legame tra questo concetto e la storia del pessimismo è (involontariamente?) stretto – contribuendo a mettere ancor più in luce l’aspetto “estatico”, “mistico” ed “epifanico” della scoperta dell’orrore del Reale nel campo dell’amore romantico e sessuale››.
Il depresso vedrebbe il senza filtri, al contrario dell’illuso non-depresso, magari addirittura felice, che ingenuamente crede che l’esistenza abbia un senso e stupidamente si gode la vita (chi è lo scemo?). Sempre Didino, descrivendo un mindset tipico di una certa filosofia, continua su «L’Indiscreto» dicendo:
‹‹Le premesse da cui parte il realismo depressivo sono un chiaro esempio di bias razionalista: nell’idea di Alloy e Abramson per cui all’“assenza di emozioni” (o, in termini più tecnici, al disinvestimento libidico) tipico della depressione corrisponderebbe una maggiore “oggettività” è implicita l’idea che la ragione sia lo strumento migliore che abbiamo per vedere il mondo “così com’è”. Ciò che questo discorso dà per scontato è che la depressione sarebbe una sorta di punto zero della mente, cioè la mente “così come sarebbe” se non fosse “alterata” dai processi chimici che provocano le emozioni […]. Noi crediamo di essere persone, ma in realtà siamo solo marionette, zombie mossi dal nostro apparato chimico, privi di un Io stabile, un’illusione generata dalle nostre sinapsi cerebrali. Il senso che attribuiamo alle cose è anch’esso prodotto di quegli stessi processi chimici (le emozioni), senza i quali vedremmo il niente al centro del nostro essere. Privati delle emozioni possiamo vedere come le marionette sembrino soltanto persone, le imitino senza veramente esserlo››.
Tale vuoto al centro dell’essere, questa psichedelia nera – come è stata ribattezzata – è il nucleo di gran parte del nichilismo.
Questa discrasia percepita tra la materia inorganica e la materia pensante è frutto di un sistema di pensiero che vede l’esistenza della coscienza come fuori posto. L’uomo è l’animale malato, la cui malattia consiste nella sua autocoscienza, che lo rende l’unico essere in grado di comprendere la completa insignificanza dell’esistenza; e di conseguenza di capire come non c’è gioia in questa vita, una mera gara riproduttiva cieca, il cui scopo è quello di generare altra vita, altra sofferenza seguendo un istinto biologico irrazionale. È ciò che dice Sileno al re Mida, come riporta Nietzsche in La nascita della tragedia:
«L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”».
Questo sentimento è infatti riportato anche da Thomas Ligotti, in La cospirazione contro la razza umana, quando scrive:
‹‹La coscienza è un ostacolo esistenziale, come ogni pessimista ben sa; un errore della natura cieca che […] ha condotto l’umanità in un buco nero della logica. Per continuare a vivere, dobbiamo far finta di non essere quello che siamo: esseri contraddittori la cui continua esistenza non fa altro che peggiorare le nostre sofferenze di mutanti che incarnano la logica contorta del paradosso. Per correggere tale errore dovremmo desistere dal procreare. Cosa potrebbe esserci di più assennato e più urgente, dal punto di vista esistenziale, di un autoinflitto oblio? […] Tutte le civiltà scompaiono. Tutte le specie si estinguono. L’universo stesso ha una data di scadenza. Gli esseri umani non saranno certo il primo fenomeno a tirare le cuoia. Ma potremmo essere i primi ad accelerare la nostra dipartita, tagliando corto prima che i cadaveri comincino ad ammassarsi››.
Se non esistere è ciò che è meglio per me, allora perché esisto? Perché continuo a esistere? È inevitabile a questo punto sentir crescere l’inquietante dentro di sé, l’ironica realizzazione che la cosa che mi rende me è ciò che più mi fa male.
La coscienza è al tempo stesso la più certa di tutte le realtà e il più grande e sublime mistero nel cosmo.“…La coscienza è al tempo stesso la più certa di tutte le realtà e il più grande e sublime mistero nel cosmo.” Perché siamo coscienti? Perché si prova qualcosa a essere vivi? L’enorme difficoltà di questa problematica è immensa, e così profonda che il linguaggio si scontra, si fracassa contro la barriera della coscienza e rimane muto, incapace di esprimere alcunché perché mancante dei termini adatti. La coscienza esaurisce il linguaggio: cosa significa essere coscienti? Descrivere questo fenomeno è un compito per me impossibile. È semplicemente così: per gli esseri viventi esistere significa essere immersi in questo immenso flusso di infinite e meravigliose forme che – per dirla con Darwin – popolano i nostri spazi interiori. Sapori, speranze, parole, dolori, pensieri… Così a lungo si è lottato con questo enigma che in filosofia è noto con un nome inequivocabile: il problema difficile. Tale rompicapo consiste nello spiegare il come e il perché alcuni organismi hanno esperienze fenomeniche – come e perché ci sono sensazioni associate a stati interni, come il caldo o il freddo, la sensazione del blu profondo o di una nota musicale. Come si può spiegare perché c’è qualcosa che intimamente si prova a intrattenere un pensiero o a provare un’emozione? Anche se si accetta che l’esperienza nasca da una base fisica, non è ancora chiaro il perché questa ci sia in primo luogo. La domanda che ci si pone non è solo come sia possibile che siamo coscienti, ma ‹‹perché si prova qualcosa ad essere››? La risposta a questa domanda – ho sostenuto altrove – può svelare ogni sorta di orrore sulla natura della nostra stessa esistenza e dell’universo in generale. Perché spesso le domande sulla coscienza portano necessariamente a dover guardare quell’abisso che è la domanda fondamentale – e cosmica – della metafisica: perché c’è qualcosa invece di niente?
Per Martin Heidegger, è solo attraverso il Dasein che si possono porre i problemi dell’essere e dell’esistenza, vale a dire che è solo attraverso la coscienza che l’esistenza presenta problemi. L’orrore della coscienza è l’orrore dell’esistenza. E la coscienza ha una componente inemendabilmente horror, strana (come l’esistenza), o meglio, per dirla con le parole di Mark Fisher, contiene una componente profondamente eerie. Il sentimento dell’eerie (parola intraducibile in italiano, ma che può esser resa con “inquietante” o “straniante”), sostiene Fisher, riguarda l’inspiegabilità di certe agency: quando ci sono tracce e segni di un’agency che non dovrebbe esserci o mancano segni e tracce di un’agency che c’è, sentiamo che sta succedendo qualcosa di eerie. E il fenomeno della coscienza è proprio questo: l’esistenza di un’agency che non dovrebbe esserci. Perché non è nemmeno lontanamente chiaro come mai questa carne nuda, materia organica umida, dovrebbe dare origine al mondo delle più belle e infinite forme che è la nostra vita interiore. La coscienza è un fenomeno che non possiamo nemmeno sperare di spiegare e che non comprendiamo appieno; eppure quella coscienza siamo noi, la stessa entità che pone il problema. I soggetti sono alieni a loro stessi. La soggettività è inquietante.
Due cose vanno notate di questo rinascimento nichil-pessimistico: uno è che è esclusivamente maschio; due – ed è forse collegato – che ama ricoprirsi di un’aura di scientificità. Dalle ricerche delle due psicologhe già citate, agli studi di Steven Pinker in ambito neuroscientifico e di Richard Dawkins in ambito biologico, il realista depressivo brama essere oggettivo, gongola del suo essere dalla parte dei fatti – non delle emozioni – e compatisce l’ottimista per la sua illusione.
Il ricorso alla razionalità, alla scienza, ai fatti non dovrebbe stupirci; da un lato la tradizione razionale, filosofica, oggettivista è stata appannaggio degli uomini per la maggior parte della storia; dall’altra Didino continua a spiegarci:
‹‹Nel suo lavoro più famoso, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, Brassier, che è stato uno dei quattro fondatori del Realismo Speculativo (un fondatore riluttante, proprio come una decina d’anni prima era stato un accelerazionista riluttante), sostiene una tesi che ancora oggi trovo affascinante: il nichilismo di cui è pervasa la filosofia contemporanea sarebbe la conseguenza necessaria della modernità del pensiero occidentale, quel movimento cominciato con l’Illuminismo e al centro del quale si trova il potere “distruttivo” della ragione. Il nichilismo insomma sarebbe il frutto del weberiano disincanto del mondo, e in quanto tale non andrebbe rifuggito – tentando, dice Brassier, un improbabile “reincanto” del mondo – ma piuttosto spinto alle proprie estreme conseguenze per sfruttarne fino in fondo le possibilità speculative››.
A mio avviso, questo tipo di pessimismo è filosoficamente insostenibile. Innanzitutto, la scissione ontica tra ragione e sentimento, tra realtà oggettiva e realtà “emotiva” è inesistente: lungi dall’essere il risultato dell’assenza di emozioni, la depressione è essa stessa uno stato d’animo, tanto quanto, per esempio, il rapimento estatico. Lo sguardo del depresso, quindi, non sarebbe affatto più “realistico” dello sguardo del non-depresso. Tale tesi è famigeratamente sostenuta dal neuroscienziato Antonio Damasio nel libro L’errore di Cartesio, dove attraverso una attenta analisi della letteratura medica mostra come i centri cerebrali che governano la razionalità sono gli stessi centri delle emozioni, e che persone con forti disturbi dell’emotività presentano sempre forti disturbi anche nella logica e nel ragionamento. È paradigmatico lo studio sugli stati della coscienza del filosofo inglese Tim Crane. Secondo le sue ricerche, avere una mente significa avere una prospettiva sul mondo. Prospettiva (o punto di vista) è un termine metaforico, che non si riferisce solamente all’immaginario visivo; in questo senso avere una prospettiva sul mondo significa che le cose “appaiono” in una certa maniera alla creatura dotata di prospettiva. Significa, simpliciter, avere un punto di accesso al mondo. La “prospettività” è la condizione di possibilità per avere una mente, e può essere intesa come la possibilità di relazionarsi con altre cose. Questa caratteristica si chiama “intenzionalità”, ed è quel fenomeno per cui la coscienza è sempre coscienza-di, la memoria sempre memoria-di, il desiderio sempre desiderio-di. Crane si sofferma a studiare gli stati d’animo, come l’euforia, la gioia, la depressione e si chiede: qual è l’oggetto di tali sensazioni? La risposta può essere solo una, che lui riprende da Heidegger, ed è il mondo. L’oggetto della depressione è il mondo nella misura in cui dovendo attraversare la coscienza, tutte le nostre percezioni si colorano della tinta della depressione. In altre parole, è quel processo che Heidegger chiama demondificazione: nel momento in cui si perde l’unità di senso della coscienza, a cascata si perde il principio che tiene insieme tutto il resto.
Il problema più grave, però, è una paralisi dell’azione. Come scrive Claudio Kulesko su Not:
‹‹Estremizzando la posizione depressiva, non ci si avvede di come ciò che appare durante la crisi non sia l’inesistenza di tutte le cose ma la loro inconsistenza, la precarietà, la fragilità e la metastabilità del mondo stesso. Quando, in fisica e in cosmologia, si utilizza il termine “metastabilità”, si intende dire che persino un lieve squilibrio sarebbe in grado di distruggere o alterare un sistema, o addirittura tutto l’universo. Per l’empirismo (la filosofia dell’esperienza), questa spaventosa inconsistenza è dovuta al fatto che le “leggi della natura” non sarebbero vere e proprie leggi. Non si tratterebbe, infatti, di comandamenti eterni, impressi nella materia dalla benevola mano di un creatore, ma di regolarità appese a un filo, dominate dal caso ‒ catene di cause ed effetti solo all’apparenza necessarie. Come notò il filosofo inglese David Hume, dire che domani il sole sorgerà sicuramente è fallace: siamo portati a credere che ciò accadrà solo perché l’abbiamo verificato una mattina dopo l’altra, o perché è così ci è stato insegnato fin da bambini; non vi è, tuttavia, alcuna necessità logica che ciò accada. Sebbene possa apparire improbabile (ed ecco che siamo costretti a impiegare tutto un vocabolario probabilistico!) che l’universo venga annientato proprio in questo istante, non vi è nulla che lo impedisca, tanto meno le mie aspettative e le mie speranze››.
Paradigma del pessimismo è il paradosso dei viaggi nel tempo nei film: alterare un minimo dettaglio nel passato può distruggere il presente. Ma quanti di noi credono che alterare un minimo dettaglio nel presente possa cambiare radicalmente il futuro? Non diamo lo stesso peso ontologico al cambiamento scaturito da un’azione se questa è avvenuta nel passato rispetto all’azione presente.
Nel momento in cui il mondo viene spogliato di qualsiasi consequenzialità organica viene meno il presupposto dell’agire. Perché darmi da fare? Privato di ogni prospettiva futura, con la verità alle spalle, il pessimista annichilisce la sfera della prassi, ritirandosi dall’agire“…il pessimista annichilisce la sfera della prassi, ritirandosi dall’agire” – alla fine, il cambiamento è inutile, è solo un’illusione. Questa triste verità è una semplice conseguenza del “niente senza limiti”: Ray Brassier lo spiega in maniera eccellente, il nulla è assoluto. ‹‹Il niente nientifica››, per usare un’espressione di Heidegger infelicemente tradotta: ciò che questo sta a significare è che se alla fine di tutto – alla fine del tempo e del cosmo – ci sarà soltanto il nulla allora la potenza ontologica di questo nulla sarà eterna e retroattiva. Non ci sarà mai stato niente. Per questo, dice Brassier, la fine del mondo c’è già stata; anzi, il mondo non c’è mai stato. L’arrivo del nulla cancellerà tutto, non ci sarà mai stato alcunché. Das Nichts Nichtet. A poco servono le giustificazioni di Ligotti quando dice di essere socialista perché, sebbene l’esistenza sia una sofferenza per tutti e l’unica cosa da fare è aspettare la morte, è giusto aspettarla tentando di contenere al minimo la sofferenza di tutti. Perché impegnarsi? Quando arriverà il nulla, e arriverà, non ci sarà nemmeno mai stata questa sofferenza.
‹‹[I]l terrore non è in noi. Esso si irraggia dal cuore pulsante del reale ‒ è il suo sangue, la sua linfa, il suo Spirito Assoluto. Negazione, paralisi, annientamento: ecco la sua sequenza operativa. Un effetto serra della paura, un crescendo che sbuffa, soffia, ansima, precipitando a testa bassa verso il blackout e il collasso. A volte capita che gli animali, le piante, le cose, vengano travolti da questo fluido, irradiati, sovrastati da esso, annichiliti. Ne avverto l’aroma elettrico, elettrizzante, nelle creature assalite da esseri più forti, più veloci, più letali, più sfuggenti; ne colgo l’essenza nei loro occhi, che sembrano urlare in direzione delle correnti cosmiche: “Padre! Padre! Perché mi hai abbandonato?”. Lo osservo penetrare nei corpi come un miasma, innervandoli. Mi blocco, interrompendo ogni gesto, ogni conversazione, ogni discorso in atto: “Perché quei cadaveri tornano a ossessionarmi, come spettri vendicativi?”, mi domando a mezza bocca, “Perché non riesco a levarmeli dalla testa? Cosa c’è di sbagliato in me, cosa vogliono da me i morti?”››.
Si interroga Kulesko.
Su Domus, Flavio Pintarelli scrive:
‹‹Viviamo in una realtà a tal punto problematica che la distopia è il tono che più di ogni altro contribuisce a definire il mood a cui si accordano la maggior parte delle visioni del futuro prodotte dalla nostra cultura: dal cyberpunk allo steampunk alla climate science fiction, la nostra capacità di immaginare ciò che verrà domani appare dominata da visioni cupe, intrise di pessimismo››.
Quando parlo di questo progetto a un amico, di scrivere un testo sulla metafisica dell’ottimismo, mi guarda con aria interrogativa. Poi dice ‹‹Non c’è nulla di cui essere ottimisti››.
2. Cosmo e Speranza
Questa inquietudine non è connaturata all’esistenza, è piuttosto il risultato di una domanda mal posta, di un atteggiamento passivo nei confronti del cosmo.
Ebbene, per quanto profondamente affascinante, attraente, forse anche sensuale questa visione oscura del cosmo e dell’esistenza possa essere, io ritengo contenga alla base un errore concettuale che una volta scoperto inficia completamente la teoria. Perché mai, connaturata all’essenza stessa dell’esistenza dovrebbe esserci l’ironica superiorità dell’inesistenza? Se il non-essere è ontologicamente superiore all’essere, se l’essere intrinsecamente non è be’… perché allora l’essere è? Chi lo forza a ritorcersi contro la sua stessa natura? Io ritengo che uno dei compiti della filosofia sia quello di spiegare la possibilità del reale, ossia di render conto del perché il cosmo è come è e di come potrebbe essere, e un atteggiamento simil-pessimista potrebbe fare l’esatto opposto: spiega perché lo stato presente è una perversione della perfezione del nulla. Il problema dell’inquietante quindi è un problema di presupposti, che coglie le donne e gli uomini nell’incontro con l’abisso, ma che è compito della filosofia di trasformare e spiegare, trasformando l’eerie nella meraviglia.
Quindi, se il dilemma è la coscienza, che tipo di risposta alla sfida lanciata dal problema difficile potrebbe soddisfarci?
Voglio sostenere una soluzione che tenga conto di due criteri: in primo luogo, prende sul serio la fenomenologia (cioè riconosce le nostre esperienze intuitive del mondo e di noi stessi come reali, per lo più accurate, e di valore intrinseco); in secondo luogo, è in linea di principio compatibile con ciò che la scienza dura ci dice sul mondo. Una teoria promettente, che vale la pena di esplorare, è una forma della teoria dell’identità che tratta il mentale e il fisico come identici: termini che si riferiscono alla stessa entità.
Questo approccio è anche chiamato panpsichismo.
Per dirla in modo poetico, il panpsichismo è la visione che ‹‹Il mondo è sveglio››. Fuor di metafora, i suoi sostenitori dicono che la coscienza – la nostra capacità di avere sensazioni, nel senso più ampio possibile dell’espressione, o il fatto che ci sia qualcosa che si provi a essere noi – è fondamentale e onnipresente in tutto l’universo. Per quanto possa sembrare folle, è stata etichettata come ‹‹una visione eminentemente sensata del mondo e del suo rapporto con la mente››. Il panpsichismo non implica che le opere d’arte, gli smeraldi e i droni abbiano esperienze interiori complesse, insicurezze, desideri e speranze; piuttosto, presuppone che alcune forme di coscienza siano onnipresenti e fondamentali in tutta la natura per la ragione fondamentale che ex nihilo nihil fit. Dire che gli elettroni sono visti come coscienti significa semplicemente dire che se potessimo cambiare posto e assumere il punto di vista di un elettrone – non come avremmo accesso al mondo se fossimo quell’elettrone, ma come quell’elettrone stesso accede al mondo – allora proveremmo qualcosa. Forse una sensazione incredibilmente semplice, debole, piuttosto confusa e diffusa: la coscienza non è mai nulla, non svanisce mai completamente, ma si presenta in gradi. Forse anche i sistemi auto-organizzati più grandi sono coscienti, in un senso radicalmente differente rispetto al modo in cui gli esseri umani sono coscienti, ma ci sarebbe comunque qualcosa che provano: quei sistemi più complessi potrebbero essere per esempio rocce, stelle, alveari, forse il cosmo nella sua interezza. Come si difende l’idea che tutti gli esseri viventi, dai funghi ai gufi, dagli elettroni all’universo intero siano coscienti? Per esempio, si potrebbe sostenere che, data la chiusura causale materialista della fisica, e il problema mente-corpo, il panpsichismo è l’unica sintesi che potrebbe seguire: se la materia è tutto ciò che c’è, come ci dice la scienza, e il fisico è chiuso causalmente (cioè, tutto ciò che accade può essere spiegato usando solo concetti provenienti dalle scienze fisiche) – ma d’altra parte, noi sperimentiamo direttamente e innegabilmente l’esistenza di una volontà, di una mente, di una soggettività dentro di noi – allora la mente deve essere materiale.11David Chalmers, Panpsychism and Panprotopsychism, in Panpsychism: Contemporary Perspectives, Oxford University Press, Oxford, 2017, pp. 19-47.
In altre parole, il materiale e il mentale sono due aspetti dello stesso tipo di entità, e quindi la mentalità è ineliminabile dal fisico.
Uno dei progetti di panpsichismo meno conosciuti è stato sviluppato da Konstantin Tsiolkovsky, filosofo e scienziato russo, cosmista, noto per i suoi contributi scientifici a quello che oggi potrebbe essere descritto come il campo dell’astronautica e della tecnologia aerospaziale. È stato il pioniere della meccanica dei viaggi interplanetari, dell’astrobiologia, della chimica e della geofisica. Dal punto di vista filosofico, Tsiolkovsky potrebbe essere caratterizzato come un monista: per lui tutti i componenti dell’universo, anche i più lontani, hanno la stessa natura e sono soggetti alle stesse leggi naturali. Scrive:
‹‹Non sono solo un materialista, ma anche un panpsichista che riconosce la sensibilità dell’intero universo. Considero questa proprietà inalienabile dalla materia. Tutto è vivo, ma convenzionalmente consideriamo vivo solo ciò che dimostra un potere di sentimento sufficientemente intenso. Poiché tutta la materia, in condizioni favorevoli, può sempre entrare in uno stato organico, in teoria possiamo dire che la materia inorganica è potenzialmente viva››.
Da panpsichista, Tsiolkovsky considerava le persone e il cosmo come formati dagli stessi costituenti di base: gli atomi. Ogni atomo ha, almeno potenzialmente, una sensibilità e una propria esistenza individuale che non può mai finire. L’argomento che Tsiolkovsky presenta a favore del panpsichismo è tratto dalla filosofia della natura:
‹‹Tutto è continuo; tutto è uno. La materia è una cosa sola, così come la sua reattività e la sua sensibilità… Se un evento meccanico come la reattività non cessa, perché la sensibilità – un fenomeno erroneamente identificato come mentale, cioè che non ha nulla in comune con la materia – dovrebbe cessare?››.22Konstantin Tsiolkovsky, Panpsychism, or Everything Feels, in Russian Cosmism, ed. Boris Groys, e-flux-MIT Press, Cambridge, MA, 2018, p. 136.
Ma con un originale tocco tecnologico e teleologico. Secondo la teoria di Tsiolkovsky, la materia decaduta si rinnova ogni volta in nuove configurazioni di atomi, riproducendo la vita in modo sempre più perfetto. La morte è quindi un fenomeno illusorio. Nelle forme inferiori dell’esistenza la sensibilità è quasi latente, mentre in quelle più evolute diventa spirito manifesto e continua a svilupparsi all’infinito fino a espandersi oltre i confini materiali in forme di pura energia. L’universo per Tsiolkovsky è quindi un universo con un obiettivo ultimo, razionale e gerarchicamente organizzato, corrispondente ai diversi stadi di evoluzione raggiunti, a partire dagli stessi atomi comuni a tutto l’universo, dai diversi esseri che lo abitano. Potrebbero quindi esserci nell’universo esseri felici che hanno già raggiunto uno stadio di sviluppo molto avanzato, semi-divino, infinitamente più intelligenti dell’umanità e potenzialmente in grado di condizionare la loro vita in modi a noi completamente sconosciuti.
Queste idee possono sembrare incredibilmente estreme e speculative, eppure si possono estendere ancor di più. La ragione speculativa non conosce limiti. Partendo dal retroterra panpsichista, è possibile andare ancora oltre questi presupposti ontologici, sostenendo che se il panpsichismo è vero, allora il cosmopsichismo è vero, cioè che è il cosmo nella sua interezza a essere cosciente. Io argomenterò qualcosa di ancor più in là: sosterrò il cosmopsichismo agentivo, la teoria per la quale l’universo agisce intenzionalmente nel mediare tra fatti e valori cosmologici. Quali sono le conseguenze di una tale teoria nell’etica, nella politica e nella filosofia della storia?
Il panpsichismo si presenta il più delle volte sotto forma di micropsichismo, la tesi che la psiche si trova al livello fondamentale della fisica (in questo senso, i quark o gli elettroni o qualsiasi altra particella o campo futuro possa essere considerato fondamentale è portatore di coscienza). Questa tendenza a guardare alla fisica per una superiorità ontologica può apparire sospetta a molti filosofi. Ma, attenendosi al progetto di Tsiolkovsky, è possibile costruire un dialogo fruttuoso tra il panpsichismo all’interno del cosmismo russo e il panpsichismo contemporaneo. Se il micropsichismo, in un certo senso, è pienamente compatibile con ciò che la fisica ci dice sulla realtà, esso ignora un aspetto fondamentale dell’universo in cui viviamo, l’aspetto cosmista per eccellenza: il tempo evolutivo (e aggiungerei, storico). Il cosmo non è un oggetto immobile, non è sempre stato come è ora. Quando si applica il modello micropsichista a tutta l’evoluzione dell’universo, si è costretti ad arrivare a un punto in cui c’era solo una singolarità, e l’universo, per così dire, era uno. La differenza ha bisogno di identità; analogamente, la molteplicità ha bisogno di singolarità. Il principio secondo il quale la natura si evolve gradualmente senza salti o rotture può essere applicato anche a livello cosmologico per affermare che il cosmo viene all’esistenza continuamente, come una sorta di progressione geometrica. Perché ci siano più cose differenziate, deve esserci una sola cosa semplice, indifferenziata, unica. La coscienza fenomenica di questo universo incredibilmente antico, incredibilmente semplice, è identica all’intero universo, cioè quando l’universo era uno, la sua mente era la mente di tutto (ciò che esisteva fino ad allora). Questa teoria è una forma di “monismo prioritario”, la tesi più ampiamente sviluppata da Jonathan Schaffer:
‹‹Presumo che ci sia un massimo oggetto concreto reale – il cosmo – di cui tutti gli oggetti concreti reali sono parti… Quando parlo del mondo – e difendo la tesi monistica secondo cui il tutto è antecedente alle sue parti – parlo del cosmo materiale e dei suoi pianeti, ciottoli, particelle e altre parti proprie››.33Jonathan Schaffer, Monism: The Priority of the Whole, «Philosophical Review», 119.1, 2010, pp. 31-76.
Il monismo prioritario sostiene che esiste un solo oggetto fondamentale, cioè il cosmo.44Jonathan Schaffer, Monism, in Stanford Encyclopaedia of Philosophy, 2008, https://stanford.library.sydney.edu.au/archives/spr2010/entries/monism/.
Ciò significa, quindi, che il cosmo è più fondamentale di altri oggetti concreti: è ontologicamente anteriore o ontologicamente più basilare di altri enti. Tutti gli oggetti concreti, tutto il resto che esiste, sono derivati dal cosmo. Il monismo prioritario può sembrare inizialmente controintuitivo, perché in diversi casi si tende spesso a pensare che un insieme non sia ontologicamente anteriore alle sue parti: per esempio, i granelli di sabbia che costituiscono un cumulo sembrano essere anteriori al cumulo o le tessere di un mosaico sembrano essere anteriori al mosaico. Allo stesso tempo, però, come sottolinea Schaffer, ci sono molti altri esempi in cui pensiamo che un tutto sia, di fatto, antecedente alle sue parti. Un cerchio è anteriore ai semicerchi di quel cerchio, un corpo è anteriore agli organi del corpo.55Ibid.
Questo perché noi distinguiamo tra semplici aggregati e vere e proprie unità – che Leibniz chiamava “monadi”: un mucchio di granelli di sabbia e un mosaico sono semplici aggregati di entità, mentre un cerchio, un corpo e il cosmo sono unità monadiche. Questa intuizione è infatti supportata da un ragionamento controfattuale: possiamo perfettamente immaginare un cosmo senza di noi, mentre è difficile immaginare noi senza il cosmo.“…possiamo perfettamente immaginare un cosmo senza di noi, mentre è difficile immaginare noi senza il cosmo.” Cioè, possiamo concepire l’universo esistente senza vaste parti di ciò che l’universo è oggi, ma non possiamo concepire nulla che esista senza l’universo. L’universo, o il cosmo, è ontologicamente più fondamentale di qualsiasi altra cosa che esiste. Quindi, se la coscienza esiste al livello fondamentale, e il livello ontico fondamentale è quello del tutto, è il cosmo nella sua interezza che è fondamentalmente cosciente; e noi siamo coscienti in quanto ne siamo parte.
Tornando al cosmo antico, semplice e indifferenziato, il cosmo all’inizio temporale dell’universo, sappiamo che nel breve periodo di tempo che seguì il big bang le nostre teorie scientifiche non si applicano. Questa è conosciuta come l’Era di Plank, è durata 10-43 secondi, e si ritiene che durante questo periodo siano state impostate tutte le costanti fisiche, comprese quelle che in seguito hanno permesso l’inizio della vita. Si tratta di un enigma incredibilmente difficile, noto come “fine tuning problem” (o “l’enigma di Goldilock”), che riconosce l’incredibilmente bassa probabilità che tutte le costanti assumano il giusto valore per permettere la vita. Perché è successo? Una soluzione semplice, elegante, anche se poco intuitiva al problema potrebbe essere trovata nel cosmopsichismo agente, che potrebbe essere descritto come l’opinione che il cosmo agisce intenzionalmente nel mediare tra i valori e i fatti cosmologici. Ciò significa che quando inizia il processo infinito di differenziazione e specificazione (e questo è solo un modo metaforico per dirlo, poiché la differenziazione non ha avuto un inizio nel tempo, è sempre stata lì), la forza differenziante in quanto tale è di natura volitiva. Il cosmo sperimenta questo processo sia in senso metaforico che letterale. Così, per inferenza alla migliore spiegazione, nulla ci impedisce di dire che l’universo primitivo “ha scelto” di evolvere in un certo modo, specificando alcune costanti: lo sviluppo del cosmo nel tempo è volitivo, cioè manifesta un’originale agency mentale. Tale affermazione non implica l’antropomorfizzazione dell’universo, ma implica che la natura umana non è unica. Diversa da tutto il resto, ma in continuità con tutto ciò che esiste. Probabilmente, è più antropocentrico accusare gli altri di antropocentrismo, perché tali accuse accettano il presupposto nascosto che l’umanità sia un’entità unica nel suo genere. Per comprendere l’idea del cosmo come avente capacità di “scegliere”, è necessario non concepire la scelta come qualcosa di premeditato. Se una cosa è voluta, e tale volontà è abbastanza forte, allora questo si tradurrà spontaneamente in un atto, e questo è esattamente ciò che è una scelta cosmica – nessuna deliberazione, nessuna pianificazione razionale entra necessariamente nel processo. Le piante vogliono luce e sali minerali; le loro radici e le loro foglie agiscono di conseguenza. Allo stesso modo agisce il cosmo.
L’agency dell’universo è una forza creativa.
Dato il presupposto che è almeno in qualche modo ragionevole supporre l’esistenza di un soggetto cosmico universale che agisce in modo intenzionale, c’è una domanda ovvia che sale alla mente: cosa motiverebbe il soggetto cosmico? Più precisamente, quali speculazioni ragionevolmente fondate si possono fare sui plausibili scopi del soggetto cosmico? Come è noto, Hegel vedeva l’evoluzione della soggettività universale come un processo di auto-riconoscimento attraverso varie fasi, ognuna delle quali risolve gli antagonismi delle prime fasi, generando al tempo stesso ulteriori antagonismi. Questo processo dialettico culmina nello spirito, o la realizzazione mentale della conoscenza assoluta. Sebbene Hegel non fosse un cosmopsichista, la sua struttura può potenzialmente essere rivista in tal senso, mescolandola con la conoscenza scientifica contemporanea e sostituendo lo spirito puro con una concezione più immanente dell’universo. E se l’apice della realizzazione dello spirito universale avvenisse attraverso la realizzazione della libertà e dell’autodeterminazione delle strutture e dell’organizzazione dell’intero universo? Il processo di realizzazione – il divenire-reale del cosmo – è istanziato dal cosmo stesso e nel suo interno, non da una qualche entità spirituale trascendente. La natura agentiva del cosmo è il cosmo stesso. Nell’agire, l’universo non è soggetto a una volontà esterna, ma sta realizzando (nel senso di rendere reale) la sua volontà. L’agency dell’universo è una forza creativa, e questa forza creativa cosmica è ciò che muove lo spirito onnipresente. Ciò significa che questo processo di realizzazione immanente è attualizzato dall’impulso cosmico, che è, ancora una volta, intrinseco alla volontà dell’universo stesso e al quale partecipa ogni altra cosa esistente. Si tratta di una forza necessitante, il cosmo non può che esistere e realizzare: le cose tenderanno a esistere se potranno. L’impulso cosmico come forza creativa può essere paragonato all’élan vital – il concetto di forza creativa ed evolutiva introdotto da Henri Bergson. La differenza è che la forza creatrice cosmica non è necessariamente vitale – non è dedotta dalla vita biologica e non si riduce alla materia vivente; è più fisica che biologica, ma allo stesso tempo non è necessariamente vincolata da leggi fisiche.
Un’obiezione immediata sarebbe quella di indicare l’ovvia costrizione di un soggetto cosmico che agisce in modo intenzionale: le leggi della fisica. Come vanno interpretate rispetto a questa forza creativa cosmica? Si potrebbe sostenere che anche se un soggetto cosmico esistesse, non potrebbe esercitare alcun potere causale, poiché le leggi della fisica sono generalmente accettate per determinare le necessarie regolarità del comportamento fisico. Tuttavia, ci sono state caratterizzazioni alternative delle leggi naturali, in base alle quali diventa possibile per il soggetto cosmico influenzare il corso degli eventi del mondo. Per Alfred North Whitehead, per esempio, le leggi fisiche sono descrittive piuttosto che prescrittive, quelle regolarità che descrivono sono da intendersi come “abitudini” della natura, e, come ogni abitudine, occasionalmente possono essere abbandonate. Quegli eventi sarebbero quelle occasioni in cui la “causalità verso il basso” del soggetto cosmico potrebbe esercitare un’influenza sul corso della storia e sugli eventi fisici. Quindi, in base a questo principio, si potrebbe dire che le leggi fisiche non sono vincoli per il soggetto cosmico, ma piuttosto rappresentano la sua volontà temporanea.
Ritengo che questo sfondo metafisico sia un punto di appoggio per ribattere e superare il realismo depressivo. Infatti, qual è il nostro posto nella natura? In che modo noi, come esseri umani, siamo legati alla coscienza cosmica? Siamo indipendenti dal soggetto cosmico o siamo sempre soggetti alla sua volontà? Sosterrò che il soggetto cosmico non è un soggetto aggiuntivo a tutti gli altri soggetti che esistono nel cosmo: se avessimo elencato tutte le soggettività agentive esistenti nell’universo ipso facto avremmo tenuto conto del soggetto cosmico. È dal semplice soggetto cosmico originario che queste soggettività si sono evolute, differenziate, e sono diventate lo stupefacente numero di microsoggettività di cui parla il micropsichismo. Da lì sono nate altre soggettività virtuali, più complesse, come quelle delle persone, degli animali e forse anche delle città e delle menti degli alveari. Tsiolkovsky scrive anche:
‹‹L’intero processo scientifico consiste nella ricerca del monismo, dell’unità, del principio elementare… Il monismo nella scienza è dovuto alla struttura del cosmo. Darwin e Lamarck non hanno cercato il monismo in biologia? I geologi non vogliono la stessa cosa? La fisica e la chimica ci attirano nella stessa direzione. L’astronomia e l’astrofisica hanno dimostrato la configurazione uniforme dei corpi celesti, la somiglianza tra la Terra e il cielo, l’omogeneità della loro sostanza e dell’energia radiante. Anche le scienze storiche tendono al monismo. In biologia, le cellule degli esseri inferiori si combinano per formare animali con un unico centro di controllo (cervello-anima), e le persone si combinano in società, cercando di fondersi in un unico potente corpo. L’intera Terra deve unirsi in questo modo. Questa unificazione deve aver raggiunto risultati supremi su altri pianeti. Aggiungerò ai tipi conosciuti di unità la sensibilità universale della materia, la capacità potenziale di ogni atomo di vivere in un ambiente complesso››.66Tsiolkovsky, cit., p. 142.
Il viaggio della coscienza cosmica si manifesta nel viaggio delle coscienze individuali. Come mostra Thomas Hill Green, il punto chiave da comprendere è che partecipando al soggetto cosmico, il soggetto individuale realizza sempre il cosmo. La “partecipazione” qui significa che la natura cosciente di un essere umano è una parte della coscienza cosmica, quindi non ci può essere un reale disaccordo tra ciò che si vuole e ciò che l’universo “vuole”.77Thomas Hill Green, Prolegomena to Ethics, Clarendon Press, Oxford, 1906. Disponibile online: https://archive.org/details/cu31924014673762.
Questo perché nell’agire, nella prassi, ci si rende conto di ciò che è già stato ma in una forma dormiente, o non attualizzata: la realizzazione è da intendersi come il divenire-reale di ciò che all’inizio era solo una possibilità. Se ho bisogno di agire e ho 3 scelte, sono completamente libero di agire come voglio; e poiché il futuro non è determinato ontologicamente, qualsiasi scelta io faccia, creo il futuro in cui ho fatto quella scelta, ho realizzato quel momento cosmologico. Ciò che si potrebbe sostenere qui è una versione cosmopsichista della metafisica partecipativa: l’universo è sempre continuamente creato ed espanso attraverso l’azione, sia essa umana, disumana o non-umana. L’interpretazione di Engels della logica hegeliana è qui suggestiva:
‹‹Per lui, i pensieri all’interno del suo cervello non erano le immagini più o meno astratte delle cose e dei processi reali, ma, al contrario, le cose e la loro evoluzione erano solo le immagini realizzate dell’“Idea”, esistente da qualche parte dall’eternità prima che lo fosse il mondo. Questo modo di pensare ha messo tutto sottosopra, e ha completamente invertito la connessione reale delle cose nel mondo››.88Friederich Engels, Socialism: Utopian and Scientific, Disponibile online: https://www.marxists.org/archive/marx/works/1880/soc-utop/index.htm.
Questo può essere visto come coerente con il cosmopsichismo agentivo, e quest’ultimo potrebbe essere conforme alla visione che l’essere sociale determina la coscienza individuale: permette alle soggettività individuali di essere causalmente efficaci. In altre parole, il cosmopsichismo agentivo non contraddice la comprensione materialista della storia e, ponendosi come soggetto cosciente universale, aggiunge persino una dimensione extra al materialismo storico. Non solo le singole agency, che non devono essere necessariamente umane, possono creare il futuro attraverso l’azione: il cosmopsichismo pone anche una coscienza più ampia che potrebbe potenzialmente esercitare una “influenza verso il basso” sugli eventi naturali e sociali. A questo proposito, anche la lotta di classe potrebbe forse essere vista come la manifestazione esteriore della lotta del soggetto cosmico per livelli più elevati di libertà e complessità. Di conseguenza, se da un lato sono gli esseri umani a fare la storia, dall’altro ci sono anche la progressività e la purezza della natura che possono influenzare il modo in cui la storia viene fatta. Anche se tale visione della storia è più vicina al materialismo hegeliano che al materialismo post-hegeliano, essa insiste tuttavia sull’importanza ontica della prassi universale.
Come influisce questo sfondo metafisico sulla nostra vita quotidiana? Quali sono le sue implicazioni storiche e pratiche? Prima di tutto ricapitoliamo tutte le conclusioni a cui siamo giunti. In primo luogo, l’universo non ha un’essenza statica ed è in un continuo stato di sviluppo (“realizzazione”). Secondo, all’interno del cosmo esiste un soggetto cosmico universale. Terzo, il soggetto cosmico universale ha una spinta ad andare oltre sé stesso. Quarto, il soggetto cosmico universale influenza lo sviluppo della natura. Tutto ciò significa che l’universo sta evolvendo verso uno stato di perfezione. Ciò non significa che tale stato sarà mai effettivamente raggiunto: l’universo può continuare a evolversi senza mai raggiungere la perfezione.
Il punto principale di divergenza tra questo ottimismo cosmico incondizionato e il realismo depressivo si può riscontrare nell’atteggiamento delle due filosofie verso la Verità. Il pessimismo implica una sorta di descrittivismo aletico, dove il blackpillato ha una verità, un’essenza pre-esistente che nel momento culminante della depressione lui ha colto, e che non fa altro che confermare la sua depressione. Come scrive Gianluca Didino nel suo articolo per «L’Indiscreto»:
‹‹[L]a tradizione pessimista sarebbe una sorta di avanguardia del pensiero in possesso di un messaggio scomodo ma, se si ha il coraggio di guardarlo lucidamente, inconfutabile (a sostegno della tesi vengono infatti portati argomenti che spaziano dalle neuroscienze ai racconti delle esperienze di quasi-morte). La postura di Ligotti è quella di chi, dal cuore nero dell’abisso, comunica al lettore una scioccante verità››.
Il pessimista è un essenzialista. Ha già la verità ed è una verità scomoda. E infatti, per quanto controintuitivo possa sembrare, è lo stesso Ligotti, in una intervista, a dichiarare:
‹‹Mi considero un nichilista proprio nella misura in cui rifiuto la soluzione nietzschiana e continuo a credere nella differenza tra verità e falsità, realtà e apparenza. In altre parole, sono un nichilista proprio perché credo ancora nella Verità, a differenza di coloro il cui trionfo sul nichilismo si conquista a costo di sacrificare la Verità. Penso che sia possibile comprendere l’insensatezza dell’esistenza, e che questa capacità di comprendere il significato come fenomeno regionale o delimitato segna un progresso fondamentale nella conoscenza››.
Se c’è una cosa però che forse dovremmo aver imparato dal postmoderno è che la verità, con la v maiuscola, probabilmente non esiste. La verità non è che la verità in una narrazione, che la narra e ne è narrata“…La verità non è che la verità in una narrazione, che la narra e ne è narrata”. Questo l’ottimista lo sa. Anzi, quel che sa è che la verità non esiste ancora. La verità si trova alla fine della narrazione, da qualche parte nel futuro, e va costruita, va, appunto, realizzata. Al descrittivismo aletico sostituisce un prescrittivismo aletico, dove diventa vero ciò che si vuole costruire come tale.
3. Metafisica per il futuro
Che cosa dobbiamo fare? O meglio, per imitare la terza domanda kantiana, cosa dobbiamo sperare? La risposta promettente e ottimistica alla domanda è che dovremmo sperare per il meglio. Che cos’è “il meglio”, in questo caso? Quale scenario futuro possibile potrebbe essere razionalmente considerato il migliore? Ricordando ciò che è stato detto sul cosmopsichismo agentivo e su come noi e l’universo agiamo insieme per realizzare il nostro futuro, lo scenario migliore da sperare è proprio la perfezione cosmica. Ovvero una situazione futura in cui tutti gli esseri esistenti, siano essi viventi o meno, umani o non umani, hanno raggiunto il loro massimo grado di perfettibilità e l’intero cosmo ha raggiunto uno stato di completa armonia e pace – l’era finale, trionfante, di infinito piacere ontico. Non è un caso che Tsiolkovsky abbia scritto:
‹‹Possiamo davvero dubitare che i periodi di vita si fondano soggettivamente in un’unica vita apparentemente continua, felice, senza fine? Qui c’è solo verità, perfezione, potenza e soddisfazione nel cosmo… Tutte le mie numerose opere […] hanno un unico oggetto: dimostrare […] in definitiva, che il cosmo generalmente contiene solo gioia, soddisfazione, perfezione e verità. Il contrario è piccolo e impercettibile nell’universo. Siamo accecati solo dalla vicinanza della Terra››.99Tsiolkovsky, cit., p. 134.
Come possiamo sostenere che uno scenario così ottimista – o addirittura utopico – sia in realtà ragionevolmente possibile? La realizzazione è un processo senza fine che mira all’espressione creativa completa del cosmo, che si sforza di esistere in modo sempre più perfetto. La nostra armonia terrestre, così come l’armonia di tutto il resto che esiste, è una parte dell’armonia cosmica che l’universo vuole raggiungere, perché noi siamo parti del cosmo. Ma poiché la natura di ogni cosa è partecipativa, come dovremmo vivere la nostra vita alla luce di questa metafisica? Perché, in fin dei conti, dobbiamo agire per realizzare le nostre speranze? Ciò che è cruciale qui è che la speranza è già una giustificazione per l’azione, agire sulla base di ciò che si spera è intrinseco alla natura stessa della speranza; la speranza esiste solo nella prassi. Se chiedessi a qualcuno perché sta cercando nella spazzatura e mi rispondesse “spero di ritrovare il mio portafoglio smarrito”, lo accetterei come un valido motivo. Agire sulle proprie speranze è intrinseco alla natura stessa della speranza. Quando si è in uno stato di speranza, si è in armonia con il cosmo. In questo stato, non solo è epistemicamente chiaro, ma anche fenomenologicamente chiaro perché la soggettività appare inquietante ma non è tale: si è qui perché l’esistenza dei soggetti perfeziona la realizzazione del cosmo – l’agency di un essere non è altro che una parte dell’agentività cosmica realizzata che è sempre già tesa verso la perfezione. Quando l’inquietudine, l’orrore dell’esistenza svanisce, in questa prospettiva panpsichista, ciò che resta è ciò che Timothy Morton ha chiamato “la solidarietà con i non-umani, il sentimento di riconoscimento e di interconnessione di tutto l’universo”.1010Timothy Morton, Humankind: Solidarity with Non-Human People, Verso Books, New York, 2017.
Non dimenticheremo, però, a questo livello di speculazione, che tutto questo si realizza solo attraverso l’azione e non attraverso l’inazione. È solo nel contesto di questo cosmopsichismo agentivo che è possibile un profondo coinvolgimento con il cosmo. Infatti, tale cosmopsichismo non è solo una riflessione speculativa, e non deve essere limitato al campo teorico, ma è anche un progetto, che pone la prassi come qualità universale e cosmica dell’essere. Questa filosofia non è altro che un reincanto del mondo: noi creiamo il futuro per cui agiamo; mossi dal pessimismo, viene a crearsi un mondo oscuro, mossi dall’ottimismo creeremo l’utopia.
Pertanto, si può concludere che lavorare per la realizzazione della Perfezione Universale comporta l’impegno per l’Utopia – una società libera, giusta e amorevole, senza sofferenze, fatiche o desideri insoddisfatti. La possibilità dell’Utopia quindi diverrebbe uno dei criteri di scelta per le diverse teorie: se un sistema di pensiero rendesse impossibile l’utopia allora sarebbe da scartare. Il potenziale utopico di una teoria sarebbe il suo potenziale rivoluzionario. Un’applicazione artistica di questo sistema è evidente nell’estetica solarpunk. Come scrive sempre Pintarelli:
‹‹Il solarpunk recepisce dunque quelle spinte di pensiero che postulano la necessità di un ritorno all’utopia come strategia per immaginare, visualizzare e progettare un futuro capace di rompere con le cornici di senso che definiscono il tono dell’epoca in cui viviamo. […] Fin dalla sua prima apparizione, il solarpunk ha l’ambizione di essere molto più di un semplice genere letterario, di un’estetica o di un immaginario. Il solarpunk è, costitutivamente, un esercizio di visualizzazione del futuro, un manuale di istruzioni per la riprogettazione del reale che ha trovato nella rete il suo terreno di coltura e il suo veicolo di diffusione ideali. […]. Uno degli elementi che meglio definisce il solarpunk è la sua natura speculativa. Ovvero, come abbiamo già evidenziato, lo sforzo rivolto alla progettazione di un mondo in cui prosperità, pace, sostenibilità e bellezza non siano soltanto auspici, bensì un obiettivo realizzabile, alla portata di un movimento organizzato capace di trasformare in azioni concrete i suoi spunti di critica dell’esistente››.
Solarpunk è il profondo reincantamento metafisico del mondo che questa teoria è in grado di rendere possibile; solarpunk è il motto beffardo, che polverizza – anzi, composta – il thatcheriano ‹‹there is no alternative››, cantato nelle strade dai giovani e dalle giovani di Fridays for Future: ‹‹We are unstoppable, another world is possible!››. Che cos’è il significato di questo slogan se non lo sbatterci in faccia che l’utopia è possibile, basta sceglierla e noi non la stiamo scegliendo. Silvia Federici giustamente dice:
‹‹Il principio della militanza gioiosa richiede che il nostro modo di fare politica sia liberatorio, in grado cioè di cambiare la nostra vita in modo positivo, di farci crescere, di darci gioia, se così non è c’è qualcosa di sbagliato››.
Essere ottimisti, nonostante la catastrofe, è il gesto rivoluzionario. È l’ubermensch nietzscheano che ride di gioia quando viene morso dal serpente; è – in breve – l’amor fati nel vero senso dell’espressione: amare il proprio destino significa prendersi cura di esso, impegnarsi affinché sia degno del nostro amore. Il genio di David Graeber, a questo proposito, scriveva:
‹‹Immaginiamo un principio. Chiamatelo principio di libertà o, poiché le costruzioni latine tendono ad avere più peso in tali questioni, chiamatelo principio di libertà ludica. Immaginiamo di ritenere che il libero esercizio dei poteri o delle capacità più complesse di un’entità tenda, almeno in certe circostanze, a diventare fine a se stesso. Non sarebbe ovviamente l’unico principio attivo in natura. Altri tirano in altri modi. Ma se non altro, aiuterebbe a spiegare ciò che effettivamente osserviamo, come ad esempio perché, nonostante la seconda legge della termodinamica, l’universo sembra diventare più, piuttosto che meno complesso. Gli psicologi evoluzionisti sostengono di poter spiegare – come dice il titolo di un libro recente – “perché il sesso è divertente”. Quello che non riescono a spiegare è perché il divertimento è divertente. Questo potrebbe. Non nego che quello che ho presentato finora sia una selvaggia semplificazione di questioni molto complicate. Non sto nemmeno dicendo che la posizione che suggerisco qui – che c’è un principio di gioco alla base di tutta la realtà fisica – sia necessariamente vera. Insisto solo sul fatto che una tale prospettiva è plausibile almeno quanto le speculazioni stranamente incoerenti che attualmente passano per ortodossia, in cui un universo robotico senza cervello produce improvvisamente poeti e filosofi dal nulla. Né, credo, vedere il gioco come principio della natura significa necessariamente adottare una qualche sorta di visione utopica e lattiginosa. Il principio del gioco può aiutare a spiegare perché il sesso è divertente, ma può anche spiegare perché la crudeltà è divertente. (Come può attestare chiunque abbia visto un gatto giocare con un topo, un sacco di giochi con gli animali non sono particolarmente piacevoli). Ma ci dà la possibilità di non pensare al mondo che ci circonda.
Anni fa, quando insegnavo a Yale, a volte assegnavo una lettura contenente una famosa storia taoista. Offrivo una “A” automatica a qualsiasi studente che potesse dirmi perché l’ultima riga aveva un senso. (Nessuno ci è mai riuscito). Zhuangzi e Huizi stavano passeggiando su un ponte sul fiume Hao, quando il primo ha osservato: “Guardate come i pesci sfrecciano tra le rocce! Tale è la loro felicità”. “Tu non sei un pesce”, disse Huizi, “come puoi sapere cosa rende felici i pesci?”. “E tu non essendo io”, disse Zhuangzi, “come puoi sapere che non so cosa rende felici i pesci?”. “Se io, non essendo te, non posso sapere quello che tu sai”, rispose Huizi, “non deriva da questo fatto che tu, non essendo un pesce, non puoi sapere cosa rende felici i pesci?”. “Torniamo indietro”, disse Zhuangzi, “alla tua domanda iniziale. Mi hai chiesto come facevo a sapere cosa rende felici i pesci. Il fatto stesso che tu l’abbia chiesto dimostra che sapevi che io sapevo – come io sapevo, dai miei sentimenti su questo ponte”. L’aneddoto è di solito preso come un confronto tra due approcci inconciliabili al mondo: il logico contro il mistico. Ma se questo è vero, allora perché Zhuangzi, che l’ha scritto, si è mostrato sconfitto dal suo amico logico? Dopo aver pensato alla storia per anni, mi ha colpito il fatto che il punto fosse proprio questo. A detta di tutti, Zhuangzi e Huizi erano i migliori amici. Amavano passare ore e ore a discutere in questo modo. Sicuramente era questo il vero scopo di Zhuangzi. Ognuno di noi può capire cosa prova l’altro perché, discutendo sui pesci, facciamo esattamente quello che fanno i pesci: divertirci, fare qualcosa che facciamo bene per il puro piacere di farlo. Impegnarsi in una forma di gioco. Il fatto stesso che vi siate sentiti obbligati a cercare di battermi in un litigio, e che siate stati così felici di poterlo fare, dimostra che la premessa che stavate discutendo deve essere falsa. Poiché se anche i filosofi sono motivati principalmente da tali piaceri, dall’esercizio dei loro più alti poteri semplicemente per il gusto di farlo, allora sicuramente questo è un principio che esiste a tutti i livelli della natura – ed è per questo che ho potuto identificarlo spontaneamente anche nel pesce. Zhuangzi aveva ragione. Anche June Thunderstorm aveva ragione. Le nostre menti sono solo una parte della natura. Possiamo capire la felicità dei pesci – o delle formiche, o dei vermi di pollice – perché ciò che ci spinge a pensare e a discutere su tali questioni è, in definitiva, esattamente la stessa cosa. Non è stato divertente?››.
Similmente, nel manuale del perfetto ottimista Silvia Federici dà le giuste indicazioni:
‹‹L’errore sta nel fissare obiettivi che non possiamo raggiungere e nel lottare sempre contro qualcosa, piuttosto che cercare di costruire qualcosa. Questo significa che siamo sempre proiettati verso il futuro, mentre una politica gioiosa è quella costruttiva già nel presente. Una cosa che oggi sentono sempre più persone. Non possiamo fissare i nostri obiettivi in un futuro che si allontana costantemente. Dobbiamo piuttosto puntare a obiettivi che possiamo raggiungere, almeno in parte, anche nel presente, anche se, ovviamente, il nostro orizzonte deve essere più ampio. Essere politicamente attivi deve cambiare in meglio la nostra vita e i nostri rapporti con le persone che ci circondano. […] Preferisco parlare di gioia piuttosto che di felicità perché la gioia è una passione attiva. Non è uno stato d’animo stagnante. Non è la soddisfazione per le cose così come sono. È sentire la nostra potenza, vedere le nostre capacità crescere, in noi stessi e nelle persone che ci stanno attorno. È un sentimento che nasce da un processo di trasformazione. Significa, con il linguaggio di Spinoza, che comprendiamo la situazione in cui ci troviamo e che ci muoviamo secondo ciò che ci viene richiesto in quel momento. Sentiamo quindi che abbiamo il potere di cambiare e che, insieme ad altre e altri stiamo cambiando. Non è la mera acquiescenza di ciò che esiste››.
Il punto colto da Federici in questo passaggio è esattamente quello che dicevamo noi all’inizio di questo testo: il pessimismo frena l’azione; al contrario la speranza è già sempre motivo di agire, la gioia è pratica. Ritornando sempre a Nietzsche – quello della Genealogia della Morale questa volta – non c’è un essere sotto al fare, l’uomo è sempre e solo un fare, così come qualsiasi altro essere. Questo vuol dire che senza l’agire si diviene-nulla, il contrario del nichilismo è il pragmatismo, l’attivismo.
l’ottimismo non è una narrazione ma un progetto d’azione collettivo.
Un’ultima questione va affrontata prima di porre fine a questa indagine: il volontarismo magico. Mark Fisher, in Buono a nulla, scrive:
‹‹Una delle tattiche di maggior successo della classe dirigente è stata la “responsabilizzazione” del singolo individuo. Ogni singolo membro della classe subordinata è incoraggiato a credere che la sua povertà, la mancanza di opportunità, o la disoccupazione, sono colpa sua e solo sua. Gli individui incolpano sé stessi, piuttosto che le strutture sociali. E in ogni caso sono indotti a credere in una realtà che non è. Ciò che Smail definisce il “volontarismo magico” – cioè la convinzione che ogni persona ha il potere di diventare ciò che vuole essere – è l’ideologia dominante e la religione non ufficiale della società capitalistica contemporanea, sostenuta sia da “esperti” dei reality televisivi che dai guru del business che dai politici. Il volontarismo magico è sia l’effetto che la causa del più basso livello di coscienza di classe che la storia ricordi. È l’altra faccia della depressione – la cui convinzione di fondo è che noi siamo gli unici responsabili della nostra miseria e perciò la meritiamo››.
L’Ottimismo Cosmico Incondizionato rischia di sembrare una teoria incredibilmente elaborata di Self-Help, l’ennesima giustificazione del volontarismo magico da imprenditori di sé stessi: ci tengo a precisare, non è così. Da un lato, il volontarismo magico agisce sicuramente su alcuni degli stessi temi dell’ottimismo, come per esempio l’azione pratica, la narrazione positiva, la speranza, ed è per questo che ha fortissima presa sulle persone. Non c’è da trascurare che sebbene ci siano una sorta di piacere perverso e di fascinazione oscura per le filosofie tenebrose, pessimiste, che ristagnano nella depressione facendo sentire comodi nel proprio disagio, alla fine il piacere che si prova nell’agire, nel prendere in mano la propria vita è superiore. Quello che il volontarismo magico sbaglia è che innanzitutto presenta questa teoria ottimistica in una cornice di sfida tra l’individuo e il mondo e tra l’individuo e gli altri individui. Questo è metafisicamente errato: come mostra il cosmopsichismo non c’è alcuna distinzione tra l’io e il cosmo, così come tra l’io e gli altri io; la persona è sempre già parte attiva del cosmo, tra il mio interno e l’esterno c’è continuità, dunque non posso entrare in conflitto con il mondo. L’ottimismo cosmico incondizionato è tale solo se è comunitario, non è mai una pratica individuale. Questo porta direttamente al secondo punto: il volontarismo magico è una falsa speranza perché è un meccanismo narrativo, un modo per raccontare e raccontarsi la realtà in un determinato modo. Le narrazioni, però, non modificano la realtà, ne creano una fittizia che pian piano si sostituisce a quella reale. Per questo, chi ci casca finirà per cadere nel disincanto del mondo. Al contrario, l’ottimismo non è una narrazione ma un progetto d’azione collettivo, un modo per riorientare le prassi comunitarie verso un obiettivo ragionevole da sperare solo se si è in abbastanza a credervi.
Freya Mathews fornisce un eccezionale riassunto della teoria sviluppata finora:
‹‹È verosimilmente solo quando ci innamoriamo che siamo indotti fin nell’essenza dell’esperienza vitale, se questa essenza è compresa come una funzione di partecipazione a un mondo infinitamente responsivo, infinitamente animato. […] L’eros è un modo di essere nel mondo. Ed essere nel mondo in questo stile erotico presuppone l’impegnabilità (engage-ability) di quel mondo, la sua capacità di incontro e scambio dialogico. L’eros presuppone il panpsichismo. È solo nel contesto di un mondo panpsichista che il sé può aspettarsi di trovare i segnali e gli indizi poetici, in ogni situazione data, che le permetteranno di navigare in quella situazione in modo erotico››.
Non c’è nulla di cui essere pessimisti, possiamo costruire il migliore dei mondi possibili: BASTA MALINCONIA, BASTA NOSTALGIA BASTA PESSIMISMO, D’ORA IN POI OTTIMISMO COSMICO INCONDIZIONATO, NON CI ACCONTENTEREMO DI NIENTE DI MENO.
Questo articolo è stato precedentemente pubblicato in inglese su INSTITUTE OF THE COSMOS
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Marco Mattei è un dottorando in neuroscienze cognitive presso l’università di Milano. Ha scritto per L’Indiscreto, Lay0ut Magazine e Speculum! – Filosofia dal Futuro.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.