«Primo di tutti fu il Caos». Nel mito greco della creazione, il Caos assume una connotazione positiva. È l’entità primigenia, lo “Spazio beante”, lo “Spazio aperto”, la “Voragine”, o il “gap” primordiale creato dalla separazione originale tra terra e paradiso,11Cf. Esiodo, Teogonia, 700 a.C. circa.
entropia a disposizione del potenziale creativo di un’opera. Per dirla con le parole di Aldous Huxley, vivere è «l’atto di trasformare il caos dell’esperienza data in un insieme di simboli maneggiabili».22Cf. A. Huxley, L’isola, Mondadori, Milano, 1962.
Si cercano un centro e un ritmo, e li si articolano organizzandoli in un’opera compiuta: il territorio, la propria casa, la dimora. Deleuze e Guattari definiscono territorializzazione il processo tramite cui un individuo si afferma nello spazio attraverso una combinazione di segni, figure, colori e suoni, performando una forma di seduzione. I due filosofi francesi si pongono esplicitamente in contrapposizione con il noto etologo Konrad Lorenz che, sulla scorta di un pensiero darwiniano, individuava nell’aggressività e nella difesa della prole le ragioni fondanti del territorio:33Cf. K. Lorenz, L’aggressività, Il Saggiatore, Milano, 2015 [1° ed.: 1963].
«Il segno non viene costituito per proteggere un territorio preesistente, come implica Lorenz, piuttosto è il segno stesso che genera il territorio».44G. Deleuze e F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 1980, p. 445.
La territorializzazione sarebbe quindi qualitativa ed espressiva, tanto più compiuta quanto più l’individuo riesce a rendere artisticamente i propri impulsi. «Il territorio – aggiunge Elizabeth Grosz – è artistico, la conseguenza dell’amore e non della guerra, della seduzione e non della difesa, della selezione sessuale e non della selezione naturale».55E. Grosz, Chaos, Territory, Art: Deleuze and the Framing of the Earth, Columbia University Press Books, 2008, p. 48.
Gli storici dell’architettura Beatriz Colomina e Mark Wigley sostengono che nella natura umana vi sia l’urgenza di creare nuovo potenziale, apparentemente superfluo, al di là del suo valore d’uso, al punto che non esisterebbe una precisa linea di demarcazione tra l’ornamento e lo strumento. A dimostrazione di questa tesi vi sarebbero una serie di recenti ritrovamenti archeologici di oggetti in pietra datati 3,3 milioni di anni (quindi ben prima che l’Homo erectus facesse la sua comparsa circa 1,7 milioni di anni fa). Tali “strumenti” sono stati trovati in quantità ingenti e nella maggior parte dei casi privi di segni di usura: condizioni che implicherebbero la loro natura di oggetti ornamentali, probabilmente correlati alla seduzione. D’altro canto, come ci fanno notare Colomina e Wigley, «Non si hanno maggiori probabilità di sopravvivenza se si posseggono armi più efficaci ma non si conquistano partner sessuali».66B. Colomina e M. Wigley, Are We Human? Notes on an Archaeology of Design, Lars Müller Publishers, 2016.
«Il primo design umano» – scriveva il teorico dell’architettura Frederick Kiesler – «è l’immagine di un animale impressa sulla superficie della pelle umana», ovvero la trasformazione della trama caotica della pelle di un rettile nel cosmo regolare di un ornamento, con lo scopo di conferire a chi lo indossa la parvenza di una forza sovrumana acquisita.77F. J. Kiesler, Magic Architecture. Origin and Future. The Story of Human Housing, volume inedito, 1945 circa, Archive of the Austrian Frederick and Lilian Kiesler Private Foundation, Vienna.
In relazione al corpo, la pelle dipinta diventa tanto implemento (uno strumento di difesa o attacco) quanto ornamento. Tale ambivalenza risulta fondamentale: per Kiesler non esiste essenzialmente alcuna distinzione ontologica tra l’ornamento e l’implemento – due categorie di oggetti che sono invece rigorosamente differenziate nell’evoluzione del design moderno e nella critica a esso associata.
Il ruolo dell’ornamento all’interno dell’evoluzione è stato ampiamente dibattuto. La sua presenza nel mondo non-umano è talmente incisiva che anche le teorie materialiste di Darwin ne hanno tenuto conto – attribuendogli tuttavia un ruolo quasi esclusivamente legato alla competizione sessuale. Nel 1983, Mary Jane West-Eberhard presenta all’accademia scientifica la sua teoria della selezione sociale, che inserisce i caratteri estetici ornamentali all’interno di un sistema di relazioni di più ampio raggio, mostrando come la selezione spesso ricada al di fuori dei limiti della competizione sessuale.88M. J. West-Eberhard, Sexual selection, social competition, and speciation, «The Quarterly Review of Biology», 58, 2, 1983.
La biologa statunitense ha documentato come – in particolare nel genere femminile – si sviluppino armi od ornamenti comuni utilizzati nelle interazioni tra gruppi sociali. In molte specie di uccelli migratori, per esempio, i conflitti legati alla dominazione sul cibo vengono risolti attraverso segnali di piumaggio (che sottendono la capacità di combattimento), senza la necessità di scontri fisici diretti.
Tra gli animali noti, l’Homo sapiens è sicuramente la specie che fa uso della più vasta e complessa gamma di caratteri secondari al fine di articolare le relazioni sociali con gli altri membri della specie. Negli esseri umani non è solo l’aspetto fisico (il corredo genetico) a definire l’identità sociale di un individuo, ma anche un insieme di categorie del gusto, come l’abbigliamento, il tipo di alimentazione, e tutte le scelte che concorrono alla definizione del proprio #lifestyle. Per dirla con le parole di Pierre Bourdieu, «il gusto classifica».99P. Bourdieu, Distinction: A Social Critique of the Judgement of Taste, Harvard University Press, Cambridge, 1979, p. 6.
Attraverso una serie di esperimenti, il sociologo francese ha provato a dimostrare il ruolo del gusto nel congiungere (e allo stesso tempo dividere) gli individui in classi – trasversali e sovrapposte alle classi sociali di stampo marxista. Da diversi decenni, il benessere di massa che contraddistingue la società occidentale, con i suoi alti e bassi, rappresenta una delle principali cause della condanna collettiva (e perenne) al “self-design”.1010B. Groys, Self-Design, or Productive Narcissism, in «e-flux», Superhumanity.
A seguito della crescita economica del dopoguerra, diversi pensatori – Debord in primis – hanno accusato il design di minare alle fondamenta la capacità di interazione attiva degli individui, rendendoli consumatori passivi privi di spirito, ovvero vittime del capitale. Tali visioni, tuttavia, presentano un’interpretazione univoca, e per questo incompleta, dell’interdipendenza tra consumo e mercato. In realtà, il consumo non è identificabile soltanto con l’assimilazione passiva: è un «campo semantico in continua espansione», un codice immediatamente comprensibile su larga scala. Secondo Baudrillard, il consumo non è solo ciò che mangiamo o di cui sentiamo il desiderio. È, piuttosto, un’attività consapevole «che consiste in una manipolazione sistematica di segni».1111J. Baudrillard, Le Système des Objets, Verso, Londra, 1996, p. 200.
Nelle dinamiche di definizione del gusto, l’ornamento gioca un ruolo determinante – oggi come nella preistoria – perché è uno strumento fondamentale per la definizione di valori di status e posizione sociale. Ciononostante c’è stato un periodo (piuttosto recente) nella storia occidentale in cui la classe dominante si è raccolta in una vera e propria battaglia ideologica contro l’ornamento. In epoca moderna gli intellettuali si sono fermamente opposti alla decorazione, dando vita a una concezione del design inteso come un processo puro e razionale. Nel 1910, il famoso architetto viennese Adolf Loos (l’equivalente di un odierno influencer all’interno della scena culturale europea dei primi del Novecento) dichiarava che l’ornamento non aveva più alcuna «connessione con il corrente ordine mondiale».1212A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972, pp. 217-229.
E ancora, in un articolo sulla moda pubblicato su «La carrozza di lusso», sentenziava: «Solo i Papuani e i criminali dipingono la loro pelle».
Il pensiero di Loos traeva ispirazione dalla maniacale ricerca del criminologo Cesare Lombroso, il quale aveva approfondito le correlazioni tra l’attitudine criminale degli individui e la necessità di comunicare con segni primitivi e superflui le loro urgenze. In Palimsesti del Carcere, un volume dedicato alla catalogazione delle iscrizioni criminali all’interno delle carceri, Lombroso osservava come «i muri, le brocche dell’acqua, le strutture dei letti dei prigionieri, le copertine dei libri, gli involucri delle medicine, […] fornivano ai criminali una superficie utile su cui imprimere pensieri e sensazioni». Lombroso aveva utilizzato il termine grafomania per definire l’urgenza dei criminali di disegnare (sia sui corpi che sugli oggetti d’uso quotidiano): una sorta di eccesso pittografico come risultato del loro atavismo, che li forza a comunicare con geroglifici e simboli, alla maniera dei primitivi.1313Cf. C. Lombroso, Palimsesti del Carcere: raccolta unicamente destinata agli uomini di scienza, Torino, 1888.
Nel tardo diciannovesimo secolo l’ornamento era diventato il confine preferenziale tra i concetti di funzionale e arbitrario, posto in netta contrapposizione con le superfici lisce dell’architettura modernista che erano manifestazione di funzionalità, utilità e rigore morale.
Un campo di discussione comune tra criminologia, estetica e design era il tatuaggio, da un lato inteso come esempio di bellezza pura kantiana, dall’altro come prova di pulsioni primitive, inutili e criminali. Nel 1871 Darwin scriveva: «Questi selvaggi hanno una particolare passione per l’ornamento» e proseguiva descrivendo come ricoprono i loro corpi con piume, braccialetti, collane, orecchini… e dipingono i loro corpi nelle maniere più disparate.1414C. Darwin, The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, Londra, 1871.
Nel 1894 Ernst Grosse definisce selvaggio «colui che non è capace di distinguere il superfluo dal necessario».1515E. Grosse, The Beginnings of Art, New York, 1894, pp. 53-54.
Nonostante Darwin si sia esposto spesso contro l’attitudine egemone e aggressiva dei coloni europei, queste parole appaiono intrise di una sorta di superumanesimo inconsapevole – ancora oggi profondamente radicato nella cultura occidentale. Attraverso il filtro della morale cristiana, i coloni europei interpretavano le culture ornamentali autoctone come pratiche tanto affascinanti quanto bestiali. È esemplare il caso (a tratti anche un po’ romanzato) del “principe Giolo”, un giovane schiavo micronesiano che nel 1691 fu forzatamente portato a Londra perché se ne potesse ammirare il corpo ricoperto di geometriche incisioni ornamentali.1616A. Olivetti, Giolo, il principe tatuato, «Il Manifesto», 2016.
Giolo, il cui vero nome era Jeoly, morì pochi mesi dopo e il suo corpo fu trasferito a Oxford per scopi di indagine scientifica.
Gli europei furono talmente incuriositi dai nuovi popoli da acquistare, per esempio, teste tatuate di maori defunti, dando vita a un vero e proprio commercio. Con una domanda in aumento, gli uomini cominciarono a essere uccisi a sangue freddo per i loro tatuaggi. Solo nel 2012 la Francia ha restituito alla Nuova Zelanda 20 teste di guerrieri maori mummificate acquistate nel corso dell’Ottocento per ammirarne i tatuaggi tribali.1717Le teste Maori tornano a casa, «Il Manifesto», 2012.
I “trofei” si trovavano al Musée du Quai Branly, il museo per le Arti primitive delle civiltà d’Africa, Asia, Oceania e America, disegnato dall’architetto Jean Nouvel (autore, tra l’altro, dell’Institut du Monde Arabe).
L’evoluzione del tatuaggio in Oriente ha a che fare con la necessità degli individui di dichiarare la propria appartenenza (o affiliazione) a un particolare gruppo, attraverso una serie di figure riconoscibili. Alterando la superficie del corpo in modo permanente, il tatuaggio è a tutti gli effetti un carattere ornamentale funzionale alla selezione sociale. Un caso esemplare è costituito dagli irezumi, popolari (e costosissimi) tatuaggi giapponesi, attuale oggetto di culto da parte di migliaia di giovani occidentali di cui ricoprono braccia e busti. A fine Ottocento il governo giapponese, allo scopo di acquisire un’immagine più autorevole rispetto al mondo occidentale, li dichiarò illegali. Presto si trasformarono pertanto in un codice di segni associato alla criminalità (in particolare alla Yakuza), acquistando dunque un particolare fascino del proibito. L’associazione è ormai talmente radicata che ancora oggi molte aziende giapponesi si rifiutano di assumere dipendenti tatuati.1818Cf.A. Aquaro, Giappone, tradizione e modernità alla guerra dei tatuaggi, «Repubblica», 18 dicembre 2016.
Le posizioni radicali sull’ornamento difese da Loos e da altri intellettuali della modernità si configurano come una reazione all’emancipazione economica della massa proletaria che iniziava a influenzare il design dei beni di consumo, causando una virata della produzione verso linguaggi più facilmente comprensibili, in un certo senso “popolari”. Non è una coincidenza, infatti, che la parola “kitsch” sia apparsa per la prima volta nel 1860 all’interno del mondo dell’arte nordeuropeo, diventando presto un termine chiave per identificare una classe, sia sociale che culturale. Nel 1939, «Partisan Review» pubblicava Avant-Garde and Kitsch, un saggio di Clement Greenberg in cui l’autore dichiarava che le avanguardie dell’arte moderna rappresentavano un sistema per resistere all’appiattimento culturale causato dell’avvento del consumismo di massa, che prediligeva oggetti ridondanti e pittoreschi.1919C. Greenberg, Avant-Garde and Kitsch, in «Partisan Review», 1939.
L’evoluzione della società occidentale nel corso del XX secolo ha in seguito subìto diverse accelerazioni, e così anche il concetto di kitsch ha seguito una parabola piuttosto veloce: da subito impiegato per descrivere un prodotto non meritevole delle attenzioni dell’élite intellettuale, ha presto sviluppato un valore controculturale (una volta trasformatosi in uno tra i linguaggi estetici predominanti nelle classi popolari) sino a diventare un sistema di segni carico di significati politici al servizio dello stesso sistema dell’arte di cui era, inizialmente, scarto. Il significato del termine ha subìto una rapida evoluzione di significato sino alla sostituzione, in particolari ambiti culturali e artistici, con il termine camp: già nel 1964, ancora «Partisan Review» pubblicava Notes on Camp: un saggio di Susan Sontag che cercava di rompere i confini tra la cultura cosiddetta “alta” e quella “bassa”, provando a dare una definizione dell’utilizzo volontario dell’esagerazione e della sovrabbondanza nei movimenti controculturali.2020S. Sontag, Notes on Camp, in «Partisan Review», 1964.
L’ultima fase di questa parabola è rappresentata dall’intervento dei mercati mainstream, che fagocitano ogni tipo di linguaggio controculturale e ne estraggono valore economico. Un esempio significativo è rappresentato dai grillz: le onnipresenti protesi dentarie decorative in oro o altri metalli preziosi – che sono ormai un simbolo di status alquanto comune e decifrabile nell’iconografia pop contemporanea – nascondono una secolare storia tormentata, profondamente intrecciata con le dinamiche di dominazione occidentale, a partire dall’era precristiana sino ad arrivare ai giorni nostri. La storia delle campagne coloniali è costellata di esempi tra loro simili, in cui diverse pratiche locali di “decorazione orale” sono state messe al bando dalle culture dominanti sopraggiunte. L’esempio che va più indietro nel tempo riguarda l’usanza per cui le ricche donne etrusche (che godevano di maggiori diritti civili rispetto a quelle romane) erano solite sostituire deliberatamente i loro denti frontali con protesi ornamentali costituite da una fascia dorata che sosteneva un set di denti nuovi. Si trattava di oggetti decorativi prodotti da orafi e non da medici.2121L. Schwartzberg, The ancient history of grills, «Vice», 2014.
La pratica è durata per secoli, ma con l’avvento della dominazione romana (ca. 100 a.C.) la moda, considerata immorale, tramontò velocemente.
Gli spagnoli, invece, anticamente hanno represso forme primitive di grillz per ben due volte nel corso delle loro espansioni coloniali: nel 1500 hanno interrotto una pratica comune nelle famiglie di alto rango della civiltà maya (e risalente almeno al IV secolo d.C.), che consisteva nel forare i denti per inserirvi perle di giada a loro volta decorate con incisioni. Successivamente, nel loro periodo di dominio sulle Filippine, le autorità dell’impero coloniale spagnolo giudicarono “barbaro” l’atto di ornare i denti con elementi in oro, mettendo fine a un’usanza le cui prime tracce risalgono al 1300 d.C. A giudicare dai ritrovamenti, si pensa che i filippini utilizzassero tali decorazioni come prova evidente del proprio rango sociale.
L’utilizzo dell’oro per coprire i denti, sia per motivi ornamentali che a scopo medico, ha resistito sino ai giorni nostri. Dalla fine degli anni Settanta le persone che emigravano a New York dalla Jamaica e dall’India Occidentale indossavano orgogliosamente i loro denti in oro, che iniziarono presto ad acquisire un valore politico controculturale in quanto rappresentativi di una comunità in cerca di riscatto. «One gold tooth like I’m Sha-Shabba Ranks» canta ASAP Ferg2222ASAP Ferg, Shabba feat. ASAP ROCKY, 2013.
nel brano Shabba, ma potrebbe anche darsi che l’icona anni ’80 Shabba Rank, migrante jamaicano, avesse un dente d’oro per motivi legati alla salute dentale. Nella cultura underground i grillz divennero presto un fashion statement, consacrato in seguito dai sempre più frequenti videoclip hip hop di stampo gangsta-rap, in cui sono presto diventati una costante. Negli ultimi anni, denti ricoperti d’oro si sono visti nelle bocche delle più affermate (rigorosamente bianche, cristiane ed eterosessuali) celebrità occidentali, come Madonna, Katy Perry, Miranda Kerr o Justin Bieber.
Gli oggetti sono simboli di status, definiscono la storia di un individuo ma anche, inevitabilmente, la sua posizione sociale. Alcune categorie di beni di consumo, come la casa o l’automobile, incorporano un valore di status talmente determinante che potremmo considerarli come estensioni del corpo umano, strumenti di selezione sociale. La casa, in particolare, è un sistema complesso di segni il cui statuto si colloca in un’area di “compromesso” tra due diverse morali: la house e la home. Il valore della house si definisce attraverso la qualità dell’involucro architettonico, rispetto a un’infrastruttura (elitaria) di reti tecnologiche ed economiche in cui è inserito. La home, invece, è la casa come definita dal catalogo Ikea: «The only place where we can be ourselves»,2323Dal catalogo Ikea 2017.
ovvero un insieme di segni che concorrono alla rappresentazione di un’identità. È un sistema-territorio complesso, un set di oggetti (gli arredi, le decorazioni, gli elettrodomestici…) inevitabilmente portatori di significati politici, culturali e socio-economici.
Un caso esemplare è rappresentato dalle eccentriche (per usare un eufemismo) abitazioni degli esponenti della criminalità organizzata, spesso accomunate dall’essere ipersature di elementi decorativi ridondanti, retorici e pittoreschi. La saturazione e la ridondanza – concetti che Bourdieu associava alla «retorica della disperazione», ovvero l’urgenza di mantenere una posizione di status in realtà labile – servono a ribadire in modo immediato e inequivocabile un potere eccezionale acquisito e il sentimento di riscatto sociale che lo anima.2424G. Ragone, La sociologia del gusto di Jean Baudrillard, in «Op. cit.», 39, maggio 1977.
La sovrabbondanza di segni – siano essi elementi d’arredo, dettagli architettonici o icone classiche – diventa uno strumento di manifestazione di appartenenza a un particolare habitus, inteso come principio unificatore che ritraduce le caratteristiche intrinseche e relazionali di una posizione in uno stile di vita unitario, ossia un insieme unitario di persone, beni e pratiche. Un habitus in questo caso differenziante di un’estetica criminale con cui ci si vuole identificare per performare la propria ambizione di potere. Come nel caso dei denti d’oro, e dei conseguenti grillz, vi è un riferimento sempre esplicito al principio della scalata dal basso. Non è un caso che l’iconografia hip hop, intrisa di sfarzo ridondante e ricercatamente pacchiano, ammicchi con tanta insistenza alla figura del gangsta e all’immaginario criminale.
L’estetica della malavita, peraltro, ha specifici punti di riferimento che cinema e televisione traducono ormai da decenni in un insieme codificato di scelte stilistiche. Le memorabili scene adrenaliniche dei capolavori di De Palma, Coppola e Scorsese, ambientate in interni caratterizzati da un lussuoso e pomposo kitsch, hanno finito con l’ispirare le case dei boss mafiosi contemporanei. Paki Meduri, l’architetto autore delle scenografie della serie tv Gomorra, ha dichiarato di aver trovato i principali riferimenti nei video distribuiti dalla Polizia di Stato relativi ai sequestri delle abitazioni extralusso dei capi mafiosi (tra Sicilia, Calabria e Campania).2525Intervista a Paki Meduri in Lo stile Gomorra? Nasce (anche) da Balthus, «Domusweb», 2017.
Questo meccanismo asseconda, in chiave kitsch, una dinamica evolutiva del design ormai nota, che insegue e consolida immaginari suggeriti dall’arte. Ciò che invece fa riflettere è la notevole somiglianza di queste abitazioni con le case di alcuni dei più importanti leader politici (in particolare quelli di stampo conservatore e nazionalista) degli ultimi decenni, come quelle di Trump, Putin o Berlusconi.
La sontuosa penthouse di Manhattan in cui risiedeva (prima dell’elezione) la famiglia Trump, per esempio, è caratterizzata dalla stessa magniloquenza neoclassica degli interni di Scarface, al punto che si ha quasi l’impressione che l’architetto Angelo D’Onghia si sia ispirato alle atmosfere del film nel progettare gli interni dell’attico in stile Luigi XIV, caratterizzati da rivestimenti in marmo e oro 24 carati. Nella celebre foto di famiglia diffusa in rete (e oggetto di innumerevoli meme), i Trump posano nel salone definendo un trittico piuttosto eloquente. L’immagine è composta in modo che ogni oggetto veicoli precisi statement politici, compresi i giocattoli ai piedi del figlio: non semplici auto da corsa ma riproduzioni di limousine. Il paesaggio urbano in background, visibile oltre le vetrate, è piuttosto enfatizzato allo scopo di sottintendere la sua intenzione (mai celata dallo spudorato presidente) di dominazione sul territorio.
Indagando le relazioni tra la ridondanza del kitsch e la manifestazione del potere, l’artista messicana Daniela Rossel ha prodotto, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, una serie di fotografie intitolate Ricas y Famosas. Nei suoi scatti vengono immortalate giovani donne, figlie di potenti famiglie criminali di Città del Messico, all’interno del loro habitat domestico. Sfruttando la posizione di sua madre, che lavorava come domestica per alcune di queste famiglie, la fotografa è riuscita a richiamare i canoni della ricerca etnografica per destrutturare criticamente e con ironia tutta una serie di stereotipi di genere, significanti di ceto sociale, ricchezza e potere. Le immagini prodotte hanno un valore documentario importante che ci consente un immediato parallelismo con l’estetica del potere istituzionalizzato. In una foto scattata nel 1999, Rossel ritrae la figlia di un boss del narcotraffico messicano nell’atto di “dominare” un leone addomesticato, circondata da pesanti arredi modanati e dipinti pittoreschi. Non troppo diversamente, il giovane figlio di Trump cavalca il suo leone (questa volta in versione peluche, seppure a dimensione reale) sotto volte affrescate racchiuse tra cornici d’oro barocche.
Il potere si manifesta attraverso linguaggi comuni e riconoscibili, sia che si tratti della stratificazione decorativa e chiassosa delle case dei leader conservatori, sia quando si manifesta nella purezza dell’architettura moderna e razionale. D’altronde, anche la tabula rasa dell’“architettura assoluta” funziona come una sorta di ornamento: un’assenza di segni ricercata e pregna di significato politico – non a caso fatta propria dalla borghesia occidentale (aspirante) progressista, sotto il nome banalizzante di “stile minimal”. Allo scopo di interrogarsi sulle relazioni tra l’architettura e l’ornamento, Pier Vittorio Aureli chiama in causa il De Re Aedificatoria, in cui l’ornamento è definito come l’abito di un edificio,2626P. V. Aureli, Absolute Architecture, in «Fulcrum», 17, pubblicazione settimanale curata da Jack Self ed edita da AA School of Architecture di Londra.
un sistema di convenzioni attraverso cui l’architettura manifesta la propria posizione, in relazione al contesto sociale con cui interagisce. In definitiva, sancisce Aureli, «l’ornamento è come la politica: inevitabile».
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F. J. Kiesler, Magic Architecture. Origin and Future. The Story of Human Housing, volume inedito, 1945 circa, Archive of the Austrian Frederick and Lilian Kiesler Private Foundation, Vienna.
A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972.
K. Lorenz, L’aggressività, Il Saggiatore, Milano, 2015 [1° ed.: 1963].
G. Ragone, La sociologia del gusto di Jean Baudrillard, in «Op.Cit.», 39, maggio 1977.
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M. J. West-Eberhard, Sexual selection, social competition, and speciation, «The Quarterly Review of Biology», 58, 2, 1983.
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