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Ontologia del conflitto
Magazine, CAOS – Part I - Maggio 2022
Tempo di lettura: 13 min
Maurizio di Corato

Ontologia del conflitto

Dissoluzione e moltiplicazione delle identità dal Novecento a oggi: la rinascita dei nazionalismi.

 

Maria Prymachenko, “May that nuclear war be cursed!”. Maria Prymachenko (1909-1997) è stata un’artista autodidatta le cui opere, conservate al museo di Ivankiv, sono andate distrutte durante l’invasione russa dell’Ucraina.

 

In questo articolo affronterò un’analisi dei concetti di conflitto, guerra e contrasto, mediante due macro-prospettive a confronto: l’identità e l’alterità. L’approccio esposto non intende essere definitivo né vuole imporsi come totalizzante nello studio dei fenomeni indagati. Mi interessa piuttosto concentrarmi sulla tesi che, al di là delle ragioni sociali, politiche ed economiche, il conflitto, dunque la guerra, sia generato e al tempo stesso alimentato dall’incontro-scontro di due identità che rappresentano l’una per l’altra un’alterità.

 

Il processo di othering nella costruzione dell’alterità

Cominciamo con il delineare i confini di ciò che è “Identico” e di ciò che è “Altro”. Secondo il dizionario Treccani, identità è «la perfetta uguaglianza» tra due cose. In algebra, il rapporto di identità si esprime nei termini di A=A,11Susan Petrilli, Augusto Ponzio, Athanor. Identità e Alterità, vol. 22, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2019.
quindi qualcosa che è uguale a sé (me) stesso. Sempre Treccani definisce “altro” come «diverso, differente» da una specifica cosa con certe caratteristiche ben identificate, tra le quali rientra l’io (il noi).

“Altro”, con la maiuscola, accentua il carattere assoluto (ab-solutus) dell’alterità. Assoluto, dunque “sciolto da” che cosa? Da ogni limite o restrizione, da ogni ruolo, diritto e dovere imposti dalla corolla di aggettivi che fissano, imprimono l’alterità in un calco identitario (io sono un italiano, maschio…).

Petrilli e Ponzio, rileggendo Sebeok e Bachtin, individuano due tipi di alterità: una assoluta e una relativa. La prima è, come abbiamo detto, singolare, totalmente diversa e distinta da ciò che noi siamo. La seconda si riferisce sì a un modo di esistere differente dal nostro, ma inserito in un contesto relazionale identitario. Io e l’Altro sono intrecciati per sempre.

La guerra tra identità e alterità è strutturale.

La maggior parte dei nostri rapporti sociali, lavorativi, familiari, scolastici, sono definiti e tenuti in piedi da relazioni identitarie binarie: Padre-Figli*, Docente-Alunn*, Padron*-Operai*. Sono, queste, relazioni in cui interagiscono due identità con i rispettivi ruoli, libertà, onori e oneri, quindi diverse l’una dall’altra e – aspetto fondamentale – ineguali. Questi rapporti asimmetrici sono possibili se un’identità (di genere, nazionale, linguistica…) riconosce un’altra identità come diversa e altra da sé. Possiamo qui collegarci al concetto-pratica di “othering”, traducibile con “alterizzare”, “rendere altro da sé stessi”. Il processo di alterizzazione è indissolubilmente legato a quello di individuazione: per poter esistere, l’io ha bisogno di un altro al quale opporsi, dal quale distinguersi, dunque trovare dentro di sé un carattere che ne qualifichi la particolarità rispetto a ciò che è diverso e materiale,22Cf. Petrilli, Ponzio, cit.
ovvero resistente e refrattario rispetto a esso. Questi caratteri particolari altro non sono che aggettivi indicanti nazionalità, ruolo sociale, lingua, appartenenza a una comunità fatta di tanti “io”, appunto, identici l’uno all’altro secondo questi caratteri, opposti e diversi da un’altra comunità. Di conseguenza, il processo di alterizzazione consiste nella riduzione e relativizzazione dell’altro assoluto, identificandolo come alieno e spesso pericoloso per la mia (nostra) comunità, dunque si procede al suo assoggettamento e alla sua eliminazione. 

 

La guerra tra identità e alterità è strutturale

D’altra parte, l’alterità in quanto materia non è inerte, ma resistente al processo di othering. Questo perché l’alterità, se è relativa, non è che identità, un altro “io”. Da ciò possiamo trarre questo: il conflitto, in un sistema di rapporti identitari (nero/bianco, maschilista/femminista, aggressore/aggredito), è strutturale, intrinseco a essi. Allora la guerra è strutturale? Ma a quale guerra ci riferiamo? Che cos’è la guerra? Per i futuristi la guerra era il motore a combustione della storia, ciò che la manda avanti. Per altri – penso per esempio ai crepuscolari – il confine tra progresso e regresso storico è, invece, cancellato dalla guerra, vista come un’efflorescenza sul fusto ritorto di una storia idiota e recidiva.

Gino Severini, Cannoni in azione, 1915.

Insomma, una guerra può avere tante forme ed espressioni, ma partiamo da questa definizione: guerra è un conflitto tra parti ineguali (la pace è la stasi tra queste stesse parti), sia essa combattuta con armi o parole. A molti di noi non piace fare la guerra, eppure facendoci caso chiamiamo scontri verbali i nostri bisticci, litigi e dibattiti che, appunto, diciamo di aver vinto (sintomatica è l’espressione “vincere un dibattito o una causa”).

Fabio Mauri, Linguaggio è guerra, 1975, Massimo Marani Editore.

Quindi? Noi abbiamo detto che il conflitto è strutturale in un contesto identitario, qualcosa che si ripete medesimo a sé stesso a vari livelli, ma con le stesse dinamiche e con le stesse parti in gioco: aggressore/aggredito. A un livello locale, particolare, si collocano le nostre guerre personali, con gli altri o addirittura con noi stessi. Su un piano più ampio, generale e internazionale, se vogliamo, abbiamo guerre tra identità statali e/o nazionali. In entrambi i casi il linguaggio viene sempre utilizzato come arma. Pensiamo ai volantini fatti piovere sull’esercito napoleonico dai soldati russi, che invitavano i francesi a disertare, perché costretti da Napoleone a gettarsi in quella campagna priva di senso.33Si veda l’intervento di Alessandro Barbero, Mai invadere la Russia, trasmesso nel marzo 2022 da RaiStoria e presente su YouTube.
Del resto, che «il linguaggio è guerra» lo diceva già nel ’75 Fabio Mauri, tra i maggiori artisti dell’avanguardia italiana del secondo dopoguerra, all’interno dell’omonimo volume edito da Massimo Marani Editore in cui approfondiva il discorso sulla pluralità dei linguaggi ideologici che vengono usati e manipolati dalle società nella lotta per la conquista della supremazia ideologica.

Nazionalismo, patriottismo. Ad alcuni di noi questi termini risuonano anacronistici, eppure ancora oggi risulta così difficile sfuggire a questi concetti. A volte persino per chi crede di averli totalmente obliati dal proprio sistema di valori. Ma l’oblio è la mano destra della memoria e ci ritorna in mente una voce: il ’900 ha fatto a pezzi l’identità. Ma come? Ora immaginiamo una linea del tempo che parta dalla fine del ’700 per arrivare ai giorni nostri. Questo lasso rappresenta per noi la parabola vitale delle identità nazionali occidentali. Che cos’è una nazione? Le idee di “nazione” e “patria” sono mutate nel tempo? 

Come nota Ponzio, il termine “nazione” ha almeno due accezioni fondamentali strettamente correlate tra loro, interdipendenti: 

«[…] a) la nazione come identità e b) la nazione come differenza. Da una parte a) l’accezione essenzialmente politica, espressa nell’Illuminismo e nella rivoluzione francese: la nazione è lo Stato su cui si esercita la sovranità del popolo; dall’altra quella b) etnico-linguistica, maturata nel Romanticismo, per cui una nazione si differenzia dalle altre […] muta il modo in cui è concepita l’origine stessa dell’identità nazione. Nel primo caso l’origine è politico-giuridico-economica e dunque si riconosce questa identità per quello che è, cioè un prodotto storico-sociale. Nel secondo caso, la sua origine è considerata come naturale e benché vi intervengano, oltre a fattori ‘’naturali’’ come il sangue e il suolo, anche fattori storico-sociali, come la lingua e le tradizioni culturali, sono concepiti come naturali […] e a ogni modo come naturalmente determinanti la differenza nazionale».44Cf. Petrilli, Ponzio, cit.

Se l’idea moderna di nazione nasce a fine ’700, per irrigidirsi nel secolo immediatamente successivo (non a caso il secolo delle unificazioni nazionali), che cosa accade, invece, di così importante per la sua trasformazione durante il ’900?

Il 1900 è l’anno in cui muore Friedrich Nietzsche. Appena un anno prima Freud pubblicava l’interpretazione dei sogni, e in quegli stessi anni si creavano i presupposti per lo scoppio di due guerre mondiali. Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, questi tre elementi hanno avuto un ruolo cruciale nella frammentazione e, dunque, moltiplicazione dell’essere umano, una vera e propria lacerazione delle identità precostituite, comprese quelle nazionali, all’alba del secondo dopoguerra.

 

La morte di Dio. Nietzsche e la scomparsa della verità

«Adesso sono lieve, adesso io volo,

adesso vedo al di sotto di me, adesso

è un dio a danzare, se io danzo».

(da Così Parlò Zarathustra, 1968)

Questo passo di Così parlò Zarathustra che ho scelto come epigrafe può ben rendere l’idea della morte di Dio che infesta i programmi liceali di filosofia. Con questa espressione Nietzsche intende la fine di un principio trascendente della verità. In altre parole, una Verità assoluta, così come i vecchi valori della civiltà occidentale, non esiste più. La morte dei valori (identitari) precostituiti (religiosi, innanzitutto), annunciata ad apertura del XX secolo, ci ha lasciato una forte eredità culturale raccolta poi da diverse correnti psicologiche: in assenza di verità e certezze, obiettivo di ciascun* di noi è, secondo Nietzsche, creare valori personalissimi, non – come certi hanno creduto – da imporre sull’altro quali nuove verità assolute, ma che siano quanto più in armonia con la mutevolezza della realtà. Occorre dunque essere lievi come piume in balia del vento. Dio, unico e indivisibile, torna alla sua originaria molteplicità politeistica, protea (notiamo che Nietzsche usa l’articolo indefinito). Non esistendo Verità, tutto e niente è verità al tempo stesso. Si tratta di un’espressione radicale che investe quasi tutto ciò che siamo abituati a dare per certo e scontato, come le nostre identità (sessuale, nazionale, linguistica…). 

Con Nietzsche, l’umanesimo e l’illuminismo occidentali, l’idea che l’io e la sua ragione siano principi fissi e regolatori della realtà entra definitivamente in crisi. L’io non solo non è più il centro dell’universo, ma è addirittura diventato esso stesso un essere senza centro e quindi non riducibile a una sua singola caratteristica.

 

Freud, Jung e la moltiplicazione dell’universo

Un giorno, nel momento in cui Nietzsche usciva di casa per passeggiare a Torino, a Vienna una ricca donna aristocratica si adagiava sul divano di Freud. Forse. È certo, però, che questi due nomi ci perseguitano come fantasmi. Allora proviamo a fermarci, ci voltiamo e negli occhi guardiamo Freud, un uomo non tanto semplice come la sua risposta alla domanda sull’essenza delle cose. Per lui, l’essere umano ha un centro di propulsione vitale: la libido. Dovremo aspettare che Tonia Wolff55Su questo argomento si veda Wolff, Structural forms of the feminine psyche, trad. inglese di Paul Watzlawick, CG Jung Institute, 1956.
ci mostri che questo centro è tanto vitale quanto mortale, ma non perdiamoci. Jung ha un’idea più turbolenta e vasta, ma non contraria a quella di Freud, ovvero che non esista solo un centro nell’universo. Ora, secondo la fisica contemporanea, l’universo ha tre possibili forme, una delle quali è a sfera.66Andrea Daniele Signorelli, Che forma ha l’universo?, «Esquire», 2018.
In geometria, la sfera presenta la caratteristica di non possedere un centro, perché ogni suo punto lo è. Essere nessuno significa sempre essere molti, plurali“…Essere nessuno significa sempre essere molti, plurali”. Molte concezioni psicologiche sulla pluralità dell’individuo, con i suoi archetipi, le sue lotte interiori, la separazione (in linea teorica) delle varie parti o caratteri dell’io sono entrate nel tessuto della cultura di massa soprattutto grazie alla divulgazione (penso a James Hillman o Jung stesso). Vero è che la divulgazione rischia a volte, in un certo senso, di semplificare, con ulteriore rischio di banalizzazione, concetti complessi, ma resta il fatto che la cultura occidentale va sempre più abituandosi (questo anche grazie all’apporto dei movimenti per i diritti e la parità di genere) all’idea di una coesistenza di più caratteri presenti all’interno di uno stesso individuo. Ma è con la nascita della psicologia che l’io comincia a dividersi per sé stesso all’infinito.

 

Le guerre mondiali, la “fine” degli Stati-nazione e lo spettro del nazionalismo

Dalla loro nascita fino a oggi, i nazionalismi hanno avuto una parte fondamentale per la definizione dell’Europa rispetto al mondo. Non dimentichiamo che le stesse ideologie che hanno provocato il “suicidio dell’Europa”77Alberto Martinelli, Torna davvero lo spettro del nazionalismo?, ISPI, 30 agosto 2019.
nel ’900 hanno anche autorizzato molte popolazioni a emanciparsi dai vecchi regimi monarchici nel secolo precedente. Tuttavia, con la sconfitta dell’Asse Roma-Berlino e i processi a Norimberga, gli Stati europei si sono visti costretti a rendere conto al mondo dei loro operati. In particolare dei sogni egemonici che Francia, Inghilterra, Germania e Italia, tra gli altri, hanno cercato di realizzare tra le due guerre mondiali. In Torna davvero lo spettro del nazionalismo?, Alberto Martinelli nota: 

«Il processo di integrazione europea avviato alla fine della seconda guerra mondiale è nato dalla volontà di porre definitivamente fine alle “guerre civili europee” e al nazionalismo aggressivo che le ha generate. Ma dopo settant’anni l’ideologia nazionalista, con i suoi atteggiamenti di pregiudizio e intolleranza, è ancora ben presente e alimenta movimenti politici populisti». 

In merito a quest’ultima frase viene da chiedersi come sia possibile, dopo che “il ’900 ha fatto a pezzi l’io” relegandolo al confino nelle rovine della terra desolata, parlare oggi di guerre identitarie, o anche solo di identità in sé, se proprio questa si trova ora in crisi. Che cosa, nel 2022, fa dire per esempio a una persona “io sono italiano”?

 

L’Altra Ucraina

L’Ucraina rappresenta per noi uno dei più fulgidi esempi di quanto tormentata sia oggi la questione delle identità nazionali. A seguito di una ricerca pubblicata nel 1999, Andrew Wilson – professore di Ukrainian Studies alla School of Slavonic and East European Studies dell’University College di Londra – ha individuato almeno otto identità etno-linguistiche all’interno di una fetta che prende il 30-35% della popolazione, da lui denominata “Other Ukraine”: 1) identità sovietica, caratterizzata dalla nostalgia dell’URSS e dall’opposizione all’indipendenza dell’Ucraina. All’interno dell’identità sovietica, Wilson individua: 2) I’identità eurasiatista o panslavista, la quale si considera come facente parte dello spazio socio-economico europeo, ma comunque culturalmente legata alla Russia, al contrario dell’Ucraina occidentale; 3) nazionalismo del Dnepr: nazionalismo ucraino legato a tradizioni kievite piuttosto che galiziane. Gli individui che così si identificano riescono a esprimere l’idea di un’origine slava comune tra le varie etnie, mantenendo però un’identità separata e autonoma rispetto al 4) kievocentrismo, identità panslavista che vede sé stessa ereditaria della Rus’ e che ha il suo opposto nel 5) nazionalismo creolo della popolazione russofona, vista come una nuova identità post-coloniale insofferente alla cultura ucraina. Wilson non si ferma qui e, anzi, tira in ballo altre identità locali come quella 6) del Donbass e 7) dell’Ucraina del sud, come forze nazionalistiche prevalenti. Infine, 8) il nazionalismo galiziano, che considera come vera depositaria del destino della nazione la parte occidentale dell’Ucraina: qui un sondaggio del marzo 1998 ha rivelato che il 58% della popolazione percepiva la cittadinanza legale come insufficiente a esprimere le varie sfumature dell’identità ucraina. 

Da “Lo specchio ucraino“, editoriale di “L’Ucraina tra noi e Putin”, Limes. Rivista Italiana di Geopolitica, 2014.

Wilson ha inoltre condotto un lavoro comparativo delle varie mitologie nazionalistiche, notando che i residui nostalgici dell’URSS trovano legittimazione nel 30% della popolazione per ciò che riguarda l’indipendenza dell’Ucraina, sentita come evento nefasto. Un 20% rileva come la fine dell’URSS abbia procurato una frattura nell’unità etnica slava, mentre solo il 9% vede l’indipendenza del 1991 come l’apice di un processo secolare di liberazione nazionale.

Per quanto riguarda la questione linguistica, i sondaggi riportano posizioni più moderate, ma ugualmente importanti se pensiamo che la lingua comune (o addirittura “naturale”) è da sempre uno dei principi fondanti degli Stati nazionali, nella misura in cui essa costituisce uno dei principali veicoli di diffusione della cultura di Stato. Ma tornando ai sondaggi, buona parte degli ucraini asseriscono di parlare russo, perché vi furono costretti, ma una parte maggiore sostiene di avere adottato la lingua russa in maniera volontaria.88Nancy Popson, Ukrainian National Identity: The Other Ukraine, sito ufficiale del Wilson Centre.

Indubbiamente, si tratta di una questione estremamente complessa, e ridurla, in termini binari, alla mera contrapposizione di due agenti in guerra tra loro (russi vs. ucraini) non farebbe altro che polarizzare ulteriormente un conflitto che è già di per sé ampiamente polarizzato, anche a causa del trattamento mediatico che gli è riservato. 

L’esempio dell’Ucraina, così come le altre guerre che hanno attraversato la storia dell’essere umano, al di là delle sue complesse implicazioni culturali, sociali, storiche e politiche – che qui non abbiamo trattato – suggerisce a mio avviso, ancora una volta, come a ricoprire una dimensione strutturale, direi persino ontologica, dell’essere umano sia proprio la sua tendenza a definirsi in contrapposizione all’alterità sfociando inevitabilmente nel conflitto. Ma forse il conflitto può essere superato, come oggi finalmente provano a insegnarci alcune prospettive filosofiche (penso in primis a quella di Donna Haraway) che ci invitano a generare legami, kin, alleanze non soltanto tra esseri umani appartenenti a gruppi sociali e culturali diversi, ma persino tra attori biotici e abiotici del pianeta, superando così la barriera dello specismo e qualunque forma di discriminazione fondata sul binarismo, per abbracciare invece la complessità, la numerosità delle realtà e, appunto, il caos.

Jon Rafman, Poor Magic, 2017.

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di Maurizio Di Corato
  • Maurizio di Corato è studente all'Università di Napoli L'Orientale, iscritto al corso di Lingue e Culture Comparate francese e araba. Attualmente vive e studia a Napoli.
Bibliography

KABUL magazine, Othering, editoriale nn. 15-15, 2019.

Alberto Martinelli, Torna davvero lo spettro del nazionalismo?, ISPI, 30 agosto 2019.

Friedrich Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1976 [1968].

Susan Petrilli, Augusto Ponzio, Athanor. Identità e Alterità, vol. 22, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2019.

Andrea Daniele Signorelli, Che forma ha l’universo?, «Esquire», 2018.