Domenica 1 ottobre dalle 14:00 alle 2:00, il festival di editoria indipendente queer FEIQ ospiterà negli spazi di Tank – Serbatoio Culturale, a Bologna, una selezione di editori indipendenti e d’artista attivi nel campo delle arti, del design, della cultura visiva e nella diffusione delle nuove epistemologie. Il programma pubblico, in dialogo con la fiera, propone per la seconda edizione un cambio di rotta, rivolgendosi alle pratiche performative e alle modalità con le quali i linguaggi del corpo emergono nell’editoria indipendente, dai cataloghi dei festival ai libri d’artista. Attraverso il coinvolgimento delle case editrici, di artiste, studiose e a una curatela diffusa e al plurale, il festival rinnova l’approccio collaborativo e comunitario di Tank, proponendo per la prima volta in Italia una riflessione che unisce il publishing e la performance.
FEIQ nasce dal desiderio del team curatoriale di coniugare publishing e performance da una prospettiva queer. Ciò che vorrei proporre, in attesa che prenda avvio la programmazione del festival, è di sostare sulla “e” tra publishing e performance, su quello spazio in-between per chiedermi che cosa ci sia. La riflessione alla base della curatela del festival sulle ibridazioni tra le due discipline è un assunto legittimo; lecture-performance, libri-coreografie, talk, reading collettivi hanno occupato negli ultimi vent’anni una posizione difficilmente trascurabile nella scena artistica contemporanea e nei festival di performance, facendo esplodere e articolando ulteriormente attraverso i postulati delle pratiche performative la versatilità e la presenza del libro nel campo allargato delle arti. Tuttavia, contro l’invito all’ibridazione, formulato dalle artiste attraverso opere e pratiche, da studiose attraverso contributi teorici, vorrei riflettere su quella “e”, che allo stesso tempo unisce e divide, cercando di mantenerne l’integrità, sfumandone certamente i confini, senza però annullarli del tutto. Da una parte i libri, possibilmente cartacei, rilegati e dall’altra la performance, una messa in scena irripetibile, che prevede la compresenza nel medesimo spaziotempo dei corpi delle interpreti e delle spettatrici. Che cosa succede quando le due pratiche dialogano, ma rimangono, almeno formalmente, all’interno dei rispettivi confini disciplinari? Che cosa succede quando, pur portando lo stesso nome, non si incontrano a metà strada?
La presenza del “printed matter” nelle pratiche performative contemporanee partecipa a quella temperie storica, sociale e culturale che ha provocato una vera e propria esplosione del fenomeno editoria e di tutte quelle forme di espressione della conoscenza prelevate dal mondo accademico, giornalistico e politico nelle discipline artistiche. L’editoria è diventata nel corso del XX e XXI secolo un luogo di sperimentazione e di creazione di comunità, capace di rispondere alle esigenze di un numero sempre maggiore di autrici; self-publisher, artiste visive, performer, coreografe, fashion designer si sono rivolte agli oggetti editoriali a partire da estetiche e posture eterogenee. Il libro – entità Zelig votata al nomadismo – è diventato una zine, un manifesto, un cartellone pubblicitario, una frase sulle pareti di una galleria, una t-shirt, con la performance, uno score, una conferenza, una lecture.
Vorrei, però, spostare l’attenzione sulla forma più tradizionale del libro che, nonostante la dilatazione di un’idea di editoria espansa, rimane un elemento costante della produzione artistica contemporanea. La centralità assunta a partire dalla seconda metà del Novecento dalla pagina scritta è sintomatica della ricerca di uno spazio, spesso libero da costrizioni e censure, che accolga assunti programmatici, intenzionalità, estetiche, immaginari e, contemporaneamente, dello sfumarsi dei confini che separano le opere dalle analisi teoriche. Le artiste hanno preso parola, incorporando la materia e la forma espressiva del discorso nelle pratiche e nelle opere; hanno confuso i confini tra opera e processo di ricerca, tra opera e interpretazione. L’auto-significazione del libro, che non necessita di altre forme di comprensione che quella veicolata dalla lettura, ha spostato l’esperienza estetica sul piano della discorsività, sbilanciando la posizione spettatoriale con un invito a prendere parte attiva al processo. Tuttavia, per comprendere quella “e” tra editoria e performance, è necessario restringere il cono prospettico, o almeno deviarlo. Non solo perché l’utilizzo del libro è più facilmente comprensibile per opere concettuali, che fanno dell’indagine critica e del linguaggio un’attività artistica in sé, che per pratiche che impiegano il corpo e il gesto come materia effimera, ma anche in virtù di quella versatilità che lo rende capace di farsi carico di istanze estetiche e politiche estremamente diversificate.
Quello che può essere considerato uno degli statement più duri a morire dei perfomance studies frena subito l’entusiasmo dell’incontro tra libro e performance, che ha ispirato anche la seconda edizione di FEIQ.
«Performance’s only life is in the present. Performance cannot be saved, recorded, documented, or otherwise participate in the circulation of representations of representations: once it does so, it becomes something other than performance. To the degree that performance attempts to enter the economy of reproduction it betrays and lessens the promise of its own ontology. Performance’s being, like the ontology of subjectivity proposed here, becomes itself through disappearance. […] The document of a performance then is only a spur to memory, an encouragement of memory to become present».
Nel saggio The Ontology of Performance: Representation without Reproduction (1993), la teorica Peggy Phelan dichiara la vita al presente della performance, rivendicando la condizione di provvisorietà e la fuga dalle forme archivistiche come potenziale epistemologico e politico. La scomparsa è lo strumento di resistenza alla riproduzione, alla reificazione, allo scambio delle merci imposti dal mercato dell’arte. Phelan invita a desistere al desiderio di registrare, documentare, preservare attraverso strumenti che non soltanto inserirebbero la performance nella «circolazione delle rappresentazioni delle rappresentazioni» imposti dal capitalismo, ma la atrofizzerebbero nell’impossibilità di trattenere quella eccedenza connessa ai corpi che la identifica.
«The desire to preserve and represent the performance event is a desire we should resist. For what one otherwise preserves is an illustrated corpse, a pop-up anatomical drawing that stands in for the thing that one most wants to save, the embodied performance».
La condanna di Phelan è rivolta non tanto ai mezzi di documentazione tout-court, dei quali non nega la valenza creativa, ma all’uso improprio. Ciononostante, è possibile intuire un sistema di valore innescato dall’ontologia della performance a favore dell’esperienza diretta, rispetto alla quale la documentazione sarebbe due volte lontana. Uno strano ritorno delle ombre sulle pareti della caverna, ampiamente criticato da una serie di autrici, tra le quali la studiosa Amelia Jones, che in un numero del 1997 di «Art Journal» rivendica la validità ermeneutica dell’esperienza delle spettatrici che “in ritardo” si relazionano a una performance attraverso materiali di documentazione. Lasciando il postulato e la diatriba innescata da Phelan in sottofondo, vorrei provare a spostare la riflessione, tornando a quella “e”, per testare, in una sorta di dimostrazione per assurdo, la validità di una separazione e strutturazione gerarchica così nette tra publishing e performance.
Rire, Laugh, Lachen è la pubblicazione cartacea di 112 pagine, realizzata dalla coreografa berlinese Antonia Baehr nell’ottobre del 2008, edita da L’œil d’or, publisher indipendente fondato a Parigi nel 1999, e da Les Laboratoires d’Aubervilliers, centro di sviluppo e produzione di performance e coreografia di Aubervilliers. La copertina verde scuro palesa subito lo scopo dell’operazione editoriale; l’autrice invita la lettrice a ridere – per tre volte, in tre lingue diverse, con un font brutal –, fornendo il libro come supporto per l’azione. Gli strumenti, da portare in vita attraverso la pratica, si distinguono in Exercices pour le rire (o Laughing Exercises) e Partitions de rire (o Scores for Laughter); i primi sono destinati alla pratica di gruppo, le seconde all’esecuzione solista, ma, come dichiara Baehr, «tutto rimane possibile». Gli esercizi raccolgono le notazioni proposte dalle insegnanti di risata Barbara Manzetti e Claude Bokhobza del primo workshop tenuto a Aubervilliers e le notazioni tratte dalla pratica di risata yoga di Chantal e Bakary Diakhité. Le partiture sono i quindici strumenti pensati da un gruppo di amiche e conoscenti – artiste visive, musiciste, danzatrici e membri della famiglia – come “regali di compleanno” per la coreografa. Progettate per essere destinate a un solo di durata variabile tra i 5 e i 15 minuti, le partitions de rire trattano dell’azione del ridere, non dell’essere divertente. Il risultato è una costellazione variegata di contributi. Christian Kesten, rivolgendosi a anton-töni-a., propone un movimento in tre atti, fornendo dettagli su tempo, ritmo, tono della risata attraverso una descrizione e una notazione. Il primo è destinato ad Antonia Baehr; il secondo ad Antonia Baehr, Henri Fleur, Werner Hirsch, Henry Wilt, Antonio Capra, Henri Antoine de la Rigolomanie, Anton, Töni, a; il terzo, una versione per risata di Don’t Stop Me Now dei Queen, a Henri Fleur. NellO spazio di due doppie pagine, William Wheeler e Nicole Dembélé organizzano una partitura su pentagramma per un duetto per theremin e voce che ride, inserendo in chiusura due foto, una di Nicole che ride, l’altra di William che suona lo strumento. Il contributo di Henry Wilt è un testo scritto a mano distribuito all’interno di una griglia di quattro colonne e dieci righe. Da sinistra verso destra le colonne specificano il ritmo degli HA, l’elenco delle azioni da compiere in lingua inglese, la traduzione in francese, la durata totale di ciascun gruppo di azioni. Manuel Coursin realizza uno spartito che associa il suono della risata al suono prodotto da diverse tipologie di palle. Undici azioni accostate a still, tratti da un video, sono il contributo di Naïma Akkar e della stessa Baehr. Con Valérie Castan, la coreografa offre alla lettrice Un après-Midi, Variation for Laughter, un pezzo composto da quattro frasi descritte da scatti fotografici, un pattern-risata che sfrutta l’utilizzo dei muscoli facciali, due frasi di risate alternate entrambe senza suono. Con Sylvie Garot ha progettato The Magnifying Glass, chiamando l’interprete a interagire con un oggetto in vetro sospeso a mezz’aria. L’intervento occupa lo spazio di una doppia pagina; a sinistra una doppia colonna in francese e inglese accompagna le illustrazioni delle frasi della partitura, a destra la scansione di un foglio a quadretti traduce in score la risata berlinese del padre della mezzanotte del capodanno 2007. Bettina von Arnim, madre della coreografa, con una calligrafia imponente e caotica, domanda se una risata privata della causa possa far ridere. Alla conferma della figlia risponde con un pezzo su pentagramma, le cui note si confondono tra volti e sorrisi che ricordano il gatto del Cheshire. Ulrich Baehr si interroga sulle somiglianze genetiche del sorriso, proponendo una partitura attraverso cui abitare il sorriso di altri. Con Laughter score per Werner Hirsch, Frédéric Gies chiede di eseguire otto risate a partire da stomaco, reni e vescica, fegato, polmoni, stomaco e intestino, gonadi, cervello, intervallando ciascuna descrizione con illustrazioni che evidenziano la parte del corpo coinvolta. Quella di Steffi Weissman è una composizione in tre parti – me, bird, joy – da performare individualmente o in sequenza, alle quali corrispondono rispettivamente un testo descrittivo in tedesco, due disegni, un elenco di trenta azioni. Andrea Neumann invita a sostare per un attimo sul volto di ciascuna spettatrice, da sinistra a destra, una fila dopo l’altra, a sceglierne uno e usarlo come innesco per una risata. Isabell Spengler traduce su due doppie il contenuto di una registrazione per eseguire sul palco una corretta risata senza causa. William Wheeler e Stefan Pente chiudono la sequenza con una partitura che prevede l’utilizzo di una parrucca come catalizzatore sensuale della risata, fornendo la descrizione della drammaturgia e una serie di fotografie per la realizzazione di sei diverse acconciature.
Rire, Laugh, Lachen è una pubblicazione sulla meccanica della risata, sulle sue componenti fisiologiche, sulle qualità di un gesto privato delle cause e degli effetti, sulla risata come manifestazione del suono e del corpo o come processo d’immersione nell’altra. È soprattutto un ritratto di Antonia Baehr, di tutte le sue riappropriazioni, tracciato dalle relazioni affettive che muovono ciascun contributo. La lettrice non è soltanto invitata a usare il libro come strumento per performare, è chiamata a vagare tra i corpi, quello della coreografa innanzitutto, ma anche quelli della madre, del padre, di amiche e conoscenti. L’artista chiede di non stupirsi dei nomi diversi, ai quali sono indirizzate le partiture; il suo corpo è un punto-limite, «sotto un trucco c’è solo altro trucco», al di là del maschile e del femminile, che si offre al gioco degli specchi: Werner Hirsch, il non danzatore con i baffi; Henry Fleur, il non musicista dandy; la coreografia Antonia Baehr; il marito di Ida Wilde; Töni, la ragazza dai capelli lunghi; la drag queen Agnes B. Rire, Laugh, Lachen è uno strumento per errare attraverso atti di mimetismo, furti e appropriazioni, adottando quella che l’autrice stessa definisce «una certa performatività femminile che ride». I gesti, rivolti alla coreografa prima, a noi spettatrici dopo, vagano, possiedono i corpi sul loro cammino, senza appartenerci.
La pubblicazione è anche una porta aperta su un’altra dimensione spaziotemporale; l’”èkphrasis” della dramaturga Lindy Annis è un rabbit hole che conduce alla performance Laugh. È una piacevole serata di aprile, è la prima dell’opera, in occasione della quale un gruppo di circa cento persone si riunisce ai Laboratoires d’Aubervilliers in un edificio industriale in mattoni rossi. C’è un senso di attesa. Una campana suona, il pubblico entra, si siede, le porte si chiudono, le luci si spengono. Fa il suo ingresso Antonia Baehr in un abito a tre pezzi blu scuro, di lana, gessato. Un foulard di seta nera con una spilla con l’immagine di Giovanna d’Arco sbuca dalla camicia verde. Scarpe stringate, in pelle marrone; i capelli corti, pettinati all’indietro. Guardando verso il pubblico, spiega la struttura compositiva della performance, un sacco di partiture, un sacco di persone, un compleanno. Su un tessuto nero sospeso in fondo al palco una proiezione rivela un nome, Kesten è l’autore della prima partitura. Baehr lo legge, poi si siede su una sedia nera di fronte a un leggio al centro del palco. Il suono “he-he” genera immediatamente un ambiente affettivo. Poi la stanza resta vuota, lei esce. Questa è una condivisione di partiture, non un’esibizione teatrale di pathos. Parte il secondo movimento della partitura di Kesten, una costellazione di diverse forme di risata. Viene sostituita dalla composizione per theremin, tratta dalla risata di Nicole Dembélé, una delle partecipanti ai primi laboratori. Hee, haw, whoop. La coreografa decide di abitare la risata registrata di Nicole con un perfetto lip-sync, poi di duettare con lei. Nello score di Henry Wilde, una sequenza di triangoli tracciati con la mano destra è scandita dall’apparizione ritmica e costante del suono “ha” in corrispondenza di uno dei lati. Poi l’escalation di ha genera una risata, e una tosse involontaria. Nella composizione successiva di Manuel Coursin, Baehr sposta una borsa nera dal lato al centro del palco, la apre, estrae una pallina gialla, la lancia contro il pavimento, poi altre palline, da sole o in coppia, i lanci sono intervallati da pause per riflettere sulle aspettative. Poi si allontana dal pubblico per spostare l’attenzione dal volto al corpo, abita i movimenti della risata videoregistrata di Naima Akkar, che come nachleben ri-affiorano ciclicamente sulla pelle. Il suo respiro apre alla composizione di Valerie Castan. Baehr assume le posture delle risate di una serie di persone, che appaiono in fotografia. Ride, si tocca lo stomaco, si piega, si contorce. Dall’alto è calata la lente d’ingrandimento rettangolare della light designer Sylvie Garot, il viso dell’interprete si deforma, la voce diventa sovrumana, un demone. Intervallo con acqua e vino, risata della vera Nicole Dembélé. Seconda parte. Il palco è un ambiente accademico: un televisore, un tavolo, un impianto audio, tre sedie, una lavagna alla parete destra, un bastone di metallo. Baehr rientra e dichiara che le partiture appartengono ai genitori. Una registrazione porta il pubblico all’interno di una conversazione con Bettina von Arnim, la madre, che fa tremare le fondamenta del progetto: non si può ridere a comando e la risata senza causa non è contagiosa. La partitura del padre si manifesta nella registrazione audio su vinile delle risate dei membri della famiglia Baehr. Una ricerca sul collegamento genetico. Antonia è ora una DJ che naviga tra i sampling. Con Frédéric Gies la risata è connessa a più parti del corpo. Il pubblico è chiamato a intervenire: quali parti del corpo tra quelle proposte? La decisione è l’innesco della risata. Buio. Il suono delle scarpe stringate. Un monitor si accende. La testa di Baehr senza contesto, come la risata. Indossa occhiali, capelli all’indietro. Risata di 15 minuti. Una luce illumina la testa, questa volta attaccata alle spalle, della coreografa al centro del palco. Comincia a ridere, si muove, cade quasi sul pubblico, la testa-video la corregge, non esegue bene la risata, poi si ferma.
La “e” tra Rire, Laugh, Lachen e Laugh, tra pubblicazione e performance, è uno spazio viscoso, di scivolamento. La pubblicazione conduce alla performance, la performance è incorniciata dalla pubblicazione; a destra dalle partiture dalle quali prende forma, a sinistra dal progetto editoriale che la rinnova in ritardo. Non ci sono gerarchie, non c’è un originale, solo una rete affettiva che genera movimento, tra i corpi, tra le identità, tra il libro e la performance. Rire, Laugh, Lachen e Laugh sono due occorrenze, insieme ai workshop, al laboratorio bolognese per bambini dell’artista Elisa Fontana, al film N.O.body di Pauline Boudry e Renate Lorenz, entrambi ispirati al progetto Laugh. Sono due delle possibili fonti di risonanza di un’entità che, per usare le parole del filosofo e teorico sociale Brian Massumi, si manifesta come un’«organizzazione di più livelli che hanno logiche e strutturazioni temporali diverse, ma sono bloccati in risonanza tra loro e ricapitolano lo stesso evento in modi divergenti». L’autorialità al plurale della sequenza compositiva co-abita il corpo dell’artista e lo spazio editoriale, manifestandosi nella variazione delle risate e delle posture della messa in scena, nella molteplicità delle forme notazionali e nelle calligrafie della pubblicazione. Il contatto con la performance, veicolato dalle “e”, fa del libro un dispositivo in grado di interferire con le condizioni sociali e culturali del presente; Rire, Laugh, Lachen è un invito ad abitare corpi, risate altrui, a moltiplicarsi, a truccarsi. A contatto con il libro Laugh sopravvive al presente. Come afferma la stessa Antonia Baehr, Laugh è un progetto in fieri dai molti tentacoli.
L’esistenza votata al presente della performance nell’incontro tra i corpi e la maggior validità dell’esperienza diretta non resistono all’impatto con l’opera. La condizione di provvisorietà e la fuga dall’archivio promosse da Peggy Phelan come identificative della performance sono rinnovate nel progetto, ma in un nomadismo che coinvolge anche i materiali editoriali. L’eccedenza della dimensione affettiva prende il posto di quella dei corpi, rendendo l’opera performativa disponibile a un processo di re-editing che passa anche dalla doppia pagina. Fuori dalla mera dimensione archiviale della pubblicazione in una prospettiva ontologica virale della performance, quella “e” fa spazio a nuove alleanze, a nuove connessioni nella differenza, a un sistema pluridimensionale fuori gerarchia. Rire, Laugh, Lachen e Laugh vivono nella e della co-esistenza orizzontale.
FEIQ – Festival di Editoria Indipendente Queer & pratiche performative
Produzione: TANK – serbatoio culturale
Ideazione: Marzia Avallone
Curatela: Marzia Avallone in collaborazione con Guendalina Piselli
Domenica 1 ottobre
Dalle 14:00 alle 2:00
Via Emilio Zago, 14, Bologna
NO tessera AICS / quota partecipativa di 7€
Programma
- Book area |2PM–9PM|
Publishers:
- NERO editions
- KABUL magazine
- Frab’s magazine
- Igor Libreria
- Dame magazine
- D editore
- TLON
- TBD magazine
- Tamu Edizioni
- Frankestein Magazine
- Krisis publishing
- Trans Muted
- Menelique
- Masseria Wave
Panel tematico Editoria e Performance + Presentazione del catalogo Queer Pandèmia (TLON edizioni) |4PM|
Talk con Nicola Brucoli, Carlo Battisti, Caterina Di Paolo, Simone Marcelli Pitzalis, Mariolina Catani, Andrea Zardi, modera Marzia Avallone.
Una riflessione sulle interconnessioni tra editoria e pratiche performative nel panorama artistico contemporaneo a partire da una prospettiva queer. Per l’occasione verrà presentato Queer Pandèmia, un progetto transdisciplinare edito da TLON edizioni, che intende portare maggiore rappresentazione queer nel mondo dell’arte, presentando giovani artist3 e autor3 della comunità LGBTQIA+ e coinvolgendo realtà e settori creativi differenti in una commistione che promuova il dialogo, l’inclusione e la contaminazione.
Performance Pulse (20′) |6PM|
Solo di Andrea Zardi / ZA | DanceWorks a cura di Mariolina Catani, performer Riccardo De Simone, dj set Cecilia Stacchiotti. Una riflessione sul concetto di comunità oggi, che mette in crisi l’identità individuale. Pulse è il nome di un locale, del battito cardiaco, dell’affanno, del ritmo delle persone che ballano nel club, una pulsazione vitale, un colpo di pistola. È anche forza, energia.
Clubbing Moments |7PM|
Con:
- Duo Sarabamba > dj set Techno
- Bootstrap e SL/03 (resident TANK) in b2b > dj set Techno, Hard Techno
- Nove9Nueve > dj set musica etnica, Techno
- Xaxer > dj set experimental club, left-field, peripheral rhythms, broken beat, footwork, new club music
Vegan Food |6PM-10PM|
A cura di “La zappa e il mestolo”
Maggiori informazioni qui
More on Magazine & Editions
Digital Library
Imitazione di un Sogno
Esplorazioni filosofiche e sensoriali tra sogno e realtà.
Magazine , AUTOCOSCIENZA – Parte II
Coscienze permeabili per un mondo connesso
All’intersezione di fenomeni, affetti e tecnica.
Editions
Estrogeni Open Source
Dalle biomolecole alla biopolitica… Il biopotere istituzionalizzato degli ormoni!
Editions
Embody. L’ineffabilità dell’esperienza incarnata
Il concetto di coscienza incarna per parlare di alterità e rivendicazione identitaria
More on Digital Library & Projects
Digital Library
Imitazione di un Sogno
Esplorazioni filosofiche e sensoriali tra sogno e realtà.
Digital Library
La Mia Morte
Un racconto polifonico degli ultimi istanti di vita di Pier Paolo Pasolini.
Projects
KABUL ft. TANK
3ª edizione di FEIQ - Festival di Editoria Indipendente Queer e pratiche performative
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#CFP24 | ESCAPISMI
La call for papers di KABUL magazine dedicata alle diverse forme e modalità di escapismo che caratterizzano la contemporaneità.
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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
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Alessia Prati è dottoranda presso il dipartimento di Arti Visive, Performative e Moda dell’Università Iuav di Venezia con una ricerca sulle interazioni tra editoria, performance e coreografia. Attualmente vive a Parigi, dove conduce una ricerca presso gli archivi del Centre National de la Danse di Pantin. Collabora come editorial advisor per lo Spazio Punch di Venezia, occupandosi delle mostre e del public program editoriale. Ha lavorato come assistente dei Laboratori integrati di coreografia condotti all’università Iuav di Venezia dai coreografi Cristina Krystal Rizzo, Michele di Stefano e del Laboratorio di publishing dello studioso Saul Marcadent.
Ha co-curato progetti editoriali – “Flexin Flexin try to exercise”, “Meet me in the Bathroom” – in dialogo con un gruppo di artiste e artisti tra cui Annamaria Ajmone, Sonia Brunelli, Mara Oscar Cassiani, Camilla Candida Donzella, Leila Gharib, Sara Leghissa, Marco Mazzoni, Jacopo Miliani, Giulia Vallicelli.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.