«The reaction was immediate. The blood flow was in proportion to how much the painting was liked».
Semir Zeki
Secondo Semir Zeki, coniatore ufficiale del termine, nessuna teoria estetica può definirsi completa senza la comprensione dei sottostrati neuronali coinvolti nell’esperienza che indaga (S. Zeki, 1999). Da questo assunto, in parte anche provocatorio, nasce la necessità di elaborare una teoria neurobiologica dell’esperienza estetica che tenti di spiegare i meccanismi alla base dell’apprezzamento fino alla definizione di “bello”. Tale ambizioso obiettivo, che sembra odorare un po’ troppo di laboratorio e di topi perduti in labirinti, ha provocato e continua a provocare sdegno in artisti, intellettuali e ricercatori. Com’è possibile trattare scientificamente un evento come l’esperienza estetica così sensazionale, coinvolgente e, nello stesso tempo, sfuggevole, tanto da far venire i capogiri ai turisti giapponesi ai musei del Vaticano?
Tale domanda nasce da una visione della scienza come demistificatrice e sterile analisi della realtà e, per questo, inapplicabile a fenomeni considerati ineffabili. In realtà, l’osservazione sperimentale, per i non fanatici, ha sì, pretese descrittive e interpretative ma non prepotenti. La paura che un approccio riduzionista applicato a processi psicologici superiori, perché di questo si parla, possa sminuire, non cogliere o addirittura rovinare tale esperienza, tanto da condannarla a mero e macchinoso processo, è quanto mai infondata. Studiare i meccanismi di elaborazione dello stimolo estetico non banalizza il vissuto individuale. Semplicemente ci permette di ottenere un piccolo scorcio su sistemi affascinanti e complicati che ci consentono di pensare di pensare. Troppo spesso ci si auto-percepisce come esseri di puro intelletto trascurando l’anatomia e la fisiologia del nostro corpo che, invece, sono necessario fondamento per l’attività cerebrale. La ricerca in questo campo darebbe la possibilità di comprendere certi effetti, di scoprire inaspettate reazioni allo stimolo, di apprezzare fini meccanismi che potrebbero essere d’ispirazione all’arte stessa o comunque spunto di riflessione sull’uomo. Non viene negata la complessità della mente né viene intaccato quello che è il piacere della fruizione estetica. Così come un medico continuerà a provare attrazione per il corpo e il filologo avrà piacere nella lettura a prescindere dalla dedizione alla loro materia.
Cos’è, quindi, la neuroestetica. Ufficialmente nata nel 1994 con la pubblicazione di The neurology of kinetic art (S. Zeki, 1994), è lo studio della percezione, dell’elaborazione, della valutazione e della produzione di stimoli dal valore estetico riconosciuto. Un riflettore sull’interazione tra l’oggetto e il soggetto che provoca in quest’ultimo un sentimento intenso, solitamente piacevole. Per ottenere questo è necessario ripercorrere, ricostruire e comprendere le risposte percettive, emozionali e cognitive a elementi naturali e artefatti.
L’assunto principale della neuroestetica si fonda sugli studi di elaborazione delle informazioni esterne. La percezione dello stimolo non comporta un’esatta riproduzione di esso ma una sua ricostruzione. La mente utilizza i dati percettivi e li rielabora, interpretandoli grazie a schemi cognitivi e rappresentazioni interne. Questo porta a una sorta di contaminazione del dato grezzo fornito dagli organi percettivi a loro volta non testimoni neutri di una realtà esterna ma strumenti alla mercé di memoria e attenzione. La percezione è collegata con i processi superiori in un continuo dialogo tanto da essere costantemente influenzata anche nei processi finali. Questo porta a un’esplorazione continua dello stimolo guidata da processi interni oltre che da elementi esterni. Per tale motivo, per esempio, nella celebre illusione ottica di Kanizsa, vediamo dei triangoli, anche se in realtà non sono effettivamente definiti ma completati da noi stessi (G. Kanizsa, 1955). Fig.1
Analogamente l’opera artistica non si presenta come rappresentativa della realtà, sebbene da essa ispirata, quanto segno del processo elaborativo della mente. È il prodotto della percezione, dell’immaginazione, della memoria, delle aspettative dell’artista (e del fruitore in un secondo momento) e della conoscenza. Nell’interpretazione della realtà, processo principe è l’astrazione, l’attività di ricerca degli elementi salienti dello stimolo ovvero quelle proprietà invarianti nel mutevole contesto nel quale sono inserite. La mente ha bisogno di tale processo per autorappresentarsi l’essenza dell’oggetto, attribuirvi un significato e categorizzarlo.
Quindi il processo artistico può essere considerato come «un’estensione dell’attività fondamentale del cervello» (S. Zeki, 1999) ovvero l’astrazione in quanto capace di esprimere concetti, situazioni o significati tramite artefatti visivi e sonori. Lo sviluppo di tale capacità sarebbe, infatti, correlabile ai primi ritrovamenti di opere di natura artistica nella storia dell’uomo. Anche se le prime testimonianze d’intenti decorativi e manipolazioni fini delle forme di strumenti sono datate addirittura 400,000 anni fa (per esempio collezioni di pigmenti), un concreto comportamento artistico (definito seguendo il criterio adottato da Lewis-Williams) viene fatto risalire a circa 30,000 anni fa, durante il Paleolitico superiore (anche se vi sono ritrovamenti isolati più antichi come la Venere di Berekhat Ram risalente a 230,000 anni fa) a seguito del ritrovamento di oggetti manipolati non a fine prettamente utilitaristico tra i quali anche i primi strumenti musicali. Nonostante la forma anatomica considerata più moderna della specie homo risalga a 100,000 anni fa, si evince che è stata necessaria un’evoluzione neuroanatomica e neurofisiologica successiva per lo sviluppo delle abilità cognitive necessarie per la capacità d’astrazione fondamentale per la produzione di arte (D. W. Zaidel, 2005).
La ricerca in neuroestetica non deve, ovviamente, allontanarsi dal metodo scientifico ma deve cercare di essere comunque rilevante per lo studio dell’estetica. Questo porta alla necessità di un approccio multidisciplinare che non si limiti né allo studio della percezione né a statistiche sulla preferenza. Anche se è necessario studiare funzione per funzione, non bisogna sottovalutare il condizionarsi vicendevole dei processi e, quindi, la visione olistica dell’esperienza estetica. Per ottenere un così ambizioso risultato bisogna accettare la multidisciplinarietà dello studio, ovvero la necessità di approcci diversi al medesimo processo. Per cui, ritroviamo tra i contributi studi sulla percezione, molti ispirati dalle leggi della Gestalt, di psicofisiologia, e non solo per le reazioni piacere/disgusto, di cognitivismo, essenziale per l’elaborazione dello stimolo, di antropologia e di psicologia sociale, per le riflessioni sulle influenze culturali, di psicoanalisi, per l’importanza dell’inconscio nei processi decisionali, affettivi e per l’analisi dei simboli e degli archetipi della bellezza.
Il processo è sommariamente suddivisibile in tre fasi di elaborazione: l’analisi percettiva, dovuta al sistema sensorial-motorio, la reazione emotigena, risultato di tutti i sistemi coinvolti nell’emozione, e l’analisi cognitiva, dovuta ai sistemi di attribuzione di significato e di critica che generano il giudizio estetico (A. Chatterjee, O. Vartanian, 2014). Vi è una continua bi-direzionalità tra i meccanismi citati dovuta a un continuo inconscio influenzarsi. Per cui l’educazione artistica, per esempio, non è fondamentale solo per il giudizio estetico ma per la stessa esplorazione percettiva (Z. Kapoula, Q. Yang, M. Vernet, M. Bucci, 2009) e una proiezione personale dal carattere emotigeno non sarà estranea all’approccio psicofisiologico che abbiamo con lo stimolo (V. Ruggieri, 2006).
Nella ricerca in neuroestetica, vi sono degli interrogativi fondamentali:
1) Il ruolo delle caratteristiche formali dello stimolo;
2) Il ruolo della cultura e dell’esperienza;
3) Il ruolo della soggettività;
4) La funzione adattiva in termini evoluzionistici.
La prima questione da affrontare, come viene spontaneo pensare, riguarda le proprietà dello stimolo a cui si può attribuire un valore estetico. Nonostante le differenti reazioni, vediamo come alcune peculiarità degli stimoli tendano verso un apprezzamento simile. Nella cultura occidentale l’antica Grecia viene presa ad esempio per la sua attenzione per le caratteristiche dall’apparente universale bellezza. Anche se l’estetica verrà ufficializzata come branca della filosofia solo dal Settecento in poi, le riflessioni della cultura classica sugli aspetti formali di elementi considerati “belli” hanno condizionato e continuano a influenzare le ricerche in merito. La visione della realtà in termini strettamente matematici portava a una ricerca chirurgica di simmetria, armonia ed euritmia. Una visione che dava un’importanza iperbolica alla forma per la ricerca del bello ideale e assoluto. L’eredità maggiormente emblematica di tale sforzo è la sezione aurea, una proporzione che riporta un principio di sviluppo ritrovabile in natura e, apparentemente, percepito dall’uomo come principio di armonia.
L’importanza dell’armonia per la creazione del “bello”, sebbene esistente, era, però, sopravvalutata ed esasperata negando così altri aspetti che sembrano contribuire all’esperienza estetica. È stata studiata l’importanza del delicato gioco tra gradevolezza del familiare e piacere nella violazione dell’aspettato (M. Kubov, 1999). I sistemi di ricompensa del cervello sono molto sensibili a questo equilibrio tra rassicurazione del conosciuto e prevedibile, ma che in misura eccessiva può provocare noia, e aspettativa e violazione di essa, che genera sorpresa, piacere per la nuova interpretazione ma che può generare frustrazione e rifiuto. Da qui il supporto di modelli teorici quali la processing fluency (R. Reber, N. Schwartz e P. Winkielman, 2004), l’effetto della prototypicality (C. Martindale, 1984), del peak shift (S.K. Lynn, J. Cnaani, D.R. Papaj, 2005) e del mere exposure (R. B. Zajonc, 1968) e lo studio del problem solving. Ramachandran (2003), per individuare gli effetti della cultura sull’intero meccanismo, si è dedicato, per contrasto, al tentativo di individuare un nucleo costante nell’apprezzamento e nella produzione estetica, quindi aldilà della grande variabilità di stili sia storica sia geografica. Ha definito dieci leggi dovute a meccanismi percettivi comuni alla base di ogni cervello umano intento in un proposito artistico: 1) l’iperbole; 2) il raggruppamento percettivo; 3) la risoluzione di problemi percettivi (problem solving); 4) l’isolamento modulare; 5) il contrasto; 6) la simmetria 7) il sospetto e/o l’avversione per le coincidenze sospette e le singolarità; 8) la ripetizione, il ritmo e l’ordine; 9) il riconoscimento; 10) la metafora. Tali leggi, d’ispirazione gestaltica, sono ben supportate da numerosi studi sulla percezione e, quindi, possono essere considerate come base del piacevole. Ma come fa ben presente lo stesso Ramachandran questa non è altro che la base dell’arte. Per cui, anche se la facilità percettiva, dovuta principalmente alla simmetria, risulta gradevole, non è l’unica cosa che provoca piacere nel fruitore dell’opera.
L’impossibilità di individuare un bello universale porta alla seconda, fondamentale questione nel trattamento di questa materia: l’incidenza della cultura rispetto alle differenze individuali. La cultura e l’educazione artistica raffinano gli istintivi piaceri dovuti alla percezione facendo in modo che il giudizio estetico sia legato ad una certa necessità di originalità e, nello stesso tempo, di riferimento agli stimoli artistici pregessi con cui si è venuti a contatto. Nella cultura di un popolo si vengono a creare dei riferimenti e delle tradizioni, che, entrati nell’immaginario del singolo, ne influiranno la fruizione e produzione artistica. Si vengono a creare anche dei simboli che vengono rimanipolati in nuovi stili e forme. Gombrich a tal proposito sostiene che «ogni dipinto è in debito più con gli altri dipinti visti dall’osservatore che con il mondo effettivamente ritratto» (1982). Fig. 3
Le componenti emotigene dell’esperienza estetica si basano su tutti i sistemi che determinano l’emozione. Entrano in gioco le proiezioni personali e l’empatia così come il gioco di tensione/rilassamento muscolare. Per avanzare nella ricerca in merito è necessario fondarsi su una chiara teoria dell’emozione. In particolare ci si riferisce solitamente alle eredità dovute alla teoria di James-Lange secondo la quale le emozioni si generano dai cambiamenti fisiologici specifici che segnalano ogni sensazione (W. James, C. Lange, 1884). La consapevolezza dell’emozione nascerebbe, quindi, da un’auto-segnalazione della sensazione. Cupchik ha suddiviso le risposte emotigene allo stimolo estetico in due livelli: il primo composto dalle sensazioni fini (suble feelings) e il secondo dalle emozioni rozze (coarse emotions). Le prime sono la risposta alla configurazione dello stimolo e sono costituite da sensazioni corporali quali la piacevolezza e l’arousal, generale eccitazione del sistema nervoso). Corrispondono, quindi, a una prima valutazione delle ricostruzioni percettive viste sopra. Le seconde sono costituite dalla rielaborazione delle prime tramite le associazioni mnemoniche che generano nel soggetto. Vien da sé che sono risposte più soggettive e contingenti, oltre che strettamente legate anche al significato che si attribuisce allo stimolo. Da qui Cupchik delinea due modelli del processamento emotigeno, il reattivo ed il riflessivo, basati rispettivamente sui due livelli di risposta emotigena. Lo stesso autore riassume dicendo che la configurazione stimola sensazioni, il significato stimola le emozioni (G.C. Cupchik 1994).
Poi vi è l’attitudine, l’inclinazione per una determinata attività mentale, ovvero come propensioni della personalità incidano nell’apprezzamento estetico. Per esempio, personalità aperte alle esperienze nuove tenderanno a preferire opere artistiche meno naturalistiche e più astratte (M. Zuckerman et al., 1993).
L’ultima questione prevede una ricerca in termini evoluzionistici dell’utilità dell’esperienza estetica nell’uomo. L’elaborazione dello stimolo è sottoposta anche, o, meglio, innanzitutto, da processazioni di stampo evoluzionista, quindi residui dell’era in cui il pericolo non veniva definito principalmente dall’informazione sociale ma da un’analisi immediata dello stimolo mediata da meccanismi istintivi che regolano reazioni di disgusto, attrazione, attacco-fuga. Quindi l’apprezzamento per i paesaggi sarebbe dovuto a una valutazione delle possibilità di sopravvivenza in esso in base a necessità ed esperienza (G. H. Orians, J. H. Heerwagen, 1992). La bellezza dei volti e del corpo in generale nascerebbe come delega per mostrare salute e buon corredo genetico, quindi dall’esigenza di riconoscere elementi positivi per la riproduzione e, nello stesso tempo, essere sufficientemente motivati verso di essi (E. Dissanayake, 1988, 1992). Inoltre, ci sono studi che parlano dell’apprezzamento e della produzione artistica come importante fattore di coesione sociale. Dalla sua funzione rituale all’attrattiva nel gruppo nei confronti di chi riesce ad occuparsi dell’aspetto estetico della manipolazione di elementi (A. Zahavi, 1997).
La neuroestetica, quindi, mira a una descrizione che si possa dire multifattoriale e, quindi, completa dell’esperienza estetica ovvero un momento psicologico, dovuto alla sintesi dell’elaborazione dei dati percettivi processati tramite memoria, aspettativa, reazioni emozionali e valutazioni cognitive, nel quale si prova piacere per una disinteressata contemplazione degli oggetti. La preferenza è considerata una valutazione cosciente condizionata dall’approccio percettivo all’opera come dalla presenza di un’educazione artistica. Dunque l’esperienza estetica si presenta come un misto di metodi cognitivi di percezione, influenze universali di alcuni stimoli, processi fisiologici di decodificazione, influenze culturali, proiezioni personali e stato psicofisico al momento della percezione. Lo studio di tale esperienza non può, quindi, prescindere dall’analisi di tali elementi. La ricostruzione dell’opera è la complessa base dell’esperienza estetica. Ma, come è importante ricordare, «il tutto è più della somma delle singole parti» (Gestalt).
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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
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Laureata in Neuroscienze all'Università degli Studi di Padova, ha collaborato nella ricerca scientifica in particolare nell'ambito della Neuroestetica. È psicologa e psicoterapeuta specializzanda a orientamento cognitivo costruttivista. Lavora come consulente nell'ambito delle valutazioni dello stress lavoro-correlato presso COM Metodi; si occupa di consulenza e divulgazione scientifica, supporto psicologico individuale e di gruppo. Fa parte del board curatoriale, è cofondatrice e managing editor di KABUL, magazine online che tratta di arti e culture contemporanee, casa editrice indipendente e associazione culturale no-profit dal 2016.
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E. Dissanayake, What is art for?, Washington University Press, Seattle 1988.
E. Dissanayake, Homo aestheticus: Where art comes from and why, New York: The Free Press, New York 1992.
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KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.