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La produttività rurale e lo sguardo urbano: intervista a Myvillages
Magazine, OTHERING – Part II - Dicembre 2019
Tempo di lettura: 16 min
Elena D'Angelo

La produttività rurale e lo sguardo urbano: intervista a Myvillages

L’ambiente rurale come spazio di produzione culturale: intervista al collettivo femminile nato nel 2003.

Alte Böden… 2019 – photo Nick Mangafas – Festival der Regionen AT.

 

Myvillages è un collettivo artistico fondato da Kathrin Böhm (UK/DE), Wapke Feenstra (NL) e Antje Schiffers (DE) nel 2003. Le tre artiste, incontratesi alla fine degli anni ’90, portano avanti pratiche che indagano i rapporti tra la cultura rurale, da cui loro stesse provengono, e la cultura urbana con cui da sempre si relazionano come artiste. Myvillages non ha una struttura rigida, ma permette a ognuna delle tre componenti di lavorare sia in modo collaborativo che a progetti autonomi, portandole su più territori contemporaneamente.

Nell’estate del 2019, Myvillages ha portato la mostra Setting the Table: Village Politics alla Whitechapel di Londra, con cui nello stesso anno ha pubblicato la raccolta The Rural, con saggi, tra gli altri, di Okwui Enwezor, Hal Foster, Amy Franceschini, Grizedale Arts, M12 e Rirkrit Tiravanja.

Myvillages è stato tra le prime realtà a indagare, nel mezzo del capitalismo urbano e digitale della fine degli anni ’90 e dei primi anni 2000, lo sviluppo e la rilevanza della ruralità, con una particolare attenzione alle sue necessità e ai suoi sviluppi contemporanei. Nell’intervista, Wapke Feestra racconta l’origine del progetto per soffermarsi su quella che è forse la questione più urgente della ruralità in senso culturale, ovvero la sottomissione a uno sguardo urbano che la relega a un ambito pittoresco e non produttivo. Il lavoro di Myvillages tenta pertanto di indagare e liberare l’immagine che la ruralità ha di se stessa, interrogandosi sulle sue possibilità di sviluppo, su quale possa essere il suo futuro, e quali siano termini di scambio sia con l’urbanità osservatrice che con le altre culture rurali.


Elena D’Angelo: Nell’introduzione al vostro libro per Whitechapel (Documents of Contemporary Art: The Rural, Whitechapel, Londra, 2019) vi presentate dicendo che siete tutte originarie di piccoli villaggi, a cui avete deciso di tornare dopo aver completato gli studi in delle scuole d’arte. Nel villaggio avete posto le fondamenta per una serie di pratiche translocali, rendendo evidente il fatto che la vostra scelta non fosse un movimento verso il passato, ma piuttosto un salto in avanti, in una nuova versione del futuro che riscopre la sostenibilità negli scambi umani diretti. Avevate coscienza di questo quando siete tornate verso il villaggio? O avete scoperto le possibilità di questa pratica attraverso il villaggio stesso?

BOERENZIJ 2019 – screenshot farm-visit to Rhoon NL.

Wapke Feenstra: Devo correggerti leggermente, diciamo di esserci tornate, nel senso che siamo tornate sull’argomento, e ci siamo tornate utilizzandolo come luogo di lavoro per l’arte concettuale che già producevamo. Tutte e tre veniamo da scuole d’arte diverse, sparpagliate per la Germania, l’Olanda e la Gran Bretagna. Io sono 10 anni più vecchia di Kathrin, quindi esponevo già in diverse gallerie, mentre Kathrin studiava alla Goldsmiths quando abbiamo iniziato a parlare di Myvillages. Non volevamo tornare effettivamente al villaggio, ma pensavamo fosse strano che la cultura in cui siamo cresciute non facesse parte dell’arte contemporanea e dell’ambito culturale in cui essa opera, specialmente alla fine degli anni ’90. Allora si parlava molto di vita urbana, c’era una continua celebrazione dell’urbanizzazione, che in realtà aveva molto a che fare con la celebrazione del capitalismo. Abbiamo sempre dovuto spiegare il nostro background culturale, ma sentivamo una sorta di pregiudizio che portava le persone a credere che la cultura rurale fosse mancanza di cultura. All’inizio non ci siamo ribellate alla cosa. Ma incontrare altre persone del mondo dell’arte cresciute in un ambito rurale ci ha fatto capire che si trattava di un sapere importante, per tutti. Abbiamo quindi deciso di tornare ai nostri villaggi per farci dei progetti. Andavamo a visitare i villaggi l’una dell’altra, ed è da lì che abbiamo pensato al nome Myvillages. Abbiamo iniziato a portare la ruralità nell’ambito dell’arte contemporanea in cui già ci trovavamo. Quindi non è che siamo arrivate dai villaggi, e da quei villaggi siamo poi entrate nell’arte contemporanea: eravamo parte di una scena artistica contemporanea, una scena fresca e giovane, e abbiamo pensato di espandere il nostro campo d’indagine. Non volevamo comportarci come se vi fosse una cultura migliore e una peggiore, ma volevamo mostrare che era possibile mediare e imparare molto dai luoghi rurali.

Farmers and Ranchers 2014 – photo Gea Zandvliet – International Village Show – COL USA.

Le nostre famiglie vivevano ancora nei villaggi, mia sorella amministra la fattoria di famiglia, la famiglia di Kathrin continua ad abitare in un villaggio; questi luoghi facevano quindi già parte dei nostri movimenti e della nostra esperienza. Volevamo riportarli nell’arte, e per farlo siamo state obbligate ad associarci poiché al tempo il rurale non era ancora molto popolare, se non quando si parlava di paesaggi e di land art. Vi era anche molta più attenzione a ciò che facevano gli uomini, e quando guardavi all’arte concettuale di quel periodo non c’erano molti esempi femminili a cui fare riferimento, pertanto all’inizio dovevamo essere il nostro stesso gruppo di supporto. Nel primo periodo era tutto auto-organizzato, e per legalizzare la nostra posizione nel 2003 abbiamo aperto una ONG. Pertanto, quando dichiariamo di essere tornate nei villaggi, intendiamo dire sia che siamo tornate in quell’ambito della cultura e dell’arte contemporanea, sia che non intendiamo vivere il rurale come passato: è presente, vivo, è ancora qui e sta ancora accadendo.

Elena D’Angelo: Hai parlato di come la realtà urbana abbia un’idea e un’immagine molto rigide del villaggio: una vita esclusivamente pastorale, che pone al centro la natura e soprattutto il paesaggio. Voi, invece, considerate il rurale e l’urbano sullo stesso livello di rilevanza culturale…

Farmers and Ranchers 2014 – photo Wimke de Boer – International Village Show – COL USA.

Wapke Feenstra: Questo argomento è affrontato in modo interessante nel libro Images of Farming (2010), che ho curato con Antje Schiffers. Si concentra sulla pittura olandese e fiamminga che ha a che fare con la cultura rurale, come quella di Bruegel o Frans Hals. In quel caso il rurale è anche un avvertimento: è romanticizzato, ma è anche qualcosa di cui non vuoi far parte, è duro. Oggi pensiamo che i lavori di Bruegel siano interessanti, ma mostrano anche comportamenti sbagliati; le persone abbienti – i commercianti fiamminghi e olandesi – volevano che questi dipinti evidenziassero, per contrasto, il loro status economico e la loro classe sociale. In ogni caso queste scene sono state dipinte, pertanto l’agricoltura è parte della storia dell’arte, così come la cultura rurale, la cultura agricola e la cultura dei villaggi. Nonostante ciò, esse non sono mai state prese in considerazione come esempi di una cultura “alta”. I villaggi continuano infatti a essere visti o come luoghi romantici e utopici, o come esempi di vita a cui non vuoi prendere parte.

Elena D’Angelo: Credo anch’io che non esista un’immagine realistica della cultura rurale contemporanea, ma ho la sensazione che ci stiate lavorando. Voi provate a dare un’immagine della vita rurale contemporanea, e in molte delle vostre opere provate a mettere in contatto comunità rurali lontane tra loro, a prescindere dalle differenze nel loro background culturale.

Farm Drawing by Antje Schiffers 2008 – I like being a Farmer… GER and EU.

Wapke Feenstra: È interessante, se ne parla anche nel libro: ha sempre a che fare con lo “sguardo”. C’è sempre un gioco sulla ruralità, non si tratta mai di toccarla, o di avere con essa un rapporto uno a uno, ma si tratta più di costruire immagini e di osservare: quando entri nel rurale, l’immagine è profondamente diversificata ma raramente autentica. La maggior parte delle persone che abbiamo incontrato nel mondo dell’arte ci hanno parlato delle loro case in campagna, di vacanze o di passeggiate: tutte attività legate al tempo libero. Io sono cresciuta in una fattoria, per me la cultura rurale ha a che fare con un senso di comunità, con l’avere momenti condivisi legati al raccolto o alle stagioni, e questi momenti erano tutti legati all’agricoltura come lavoro produttivo. In seguito è arrivata la produzione industriale, e ha cambiato la vita sociale dei villaggi. Ora la realtà rurale è principalmente legata all’immagine di tempo libero che ha di essa la città, e ciò significa dover creare un’immagine di se stessa che sia pronta per i consumatori. Quando entra in gioco il tempo libero, l’estetica di un paesaggio e il modo in cui una cultura rurale vuole presentarsi diventano un prodotto per il consumo contemporaneo. Quando la ruralità diventa un prodotto per la popolazione urbana che la frequenta per le vacanze, essa smette di essere un luogo di produzione e diventa uno spazio che ci restituisce le immagini che la cultura urbana vuole. Non siamo interessati in ciò che è realmente prodotto dalle aree rurali, dall’agricoltura o dall’attività mineraria, ma anche dal paesaggio come area produttiva collaterale. Quando arriva il turismo, le persone iniziano a produrre immagini che lo nutrono.“…Quando arriva il turismo, le persone iniziano a produrre immagini che lo nutrono.” Un villaggio o una fattoria, se vuole attirare turisti, congela un’immagine di un certo tipo, che è popolare tra i suoi visitatori. Ma se iniziamo a pensare che il villaggio è un luogo vivo, produttivo, realizziamo che le cose che vengono congelate per nutrire il turismo hanno effettivamente a che fare con la produzione, anche se questa è stata eliminata. Quindi ora sono soltanto una scultura, un dipinto, o qualcosa che è a disposizione del nostro sguardo.

Plein Air 2018 – photo Wapke Feenstra – The Rural Side NL.

Ci sono molti scambi di sguardi precostruiti tra le realtà rurali e quelle urbane, e viceversa; il nostro obiettivo è romperli, così da poter imparare gli uni dagli altri. Non andiamo nei villaggi a insegnare arte contemporanea. Credo che l’arte contemporanea possa arricchirsi aprendosi alle realtà rurali e creando uno scambio culturale, quindi translocale, tra una realtà rurale e un’altra, ma anche tra realtà urbane e rurali. E devo dire che dobbiamo organizzare soprattutto lo scambio tra urbano e rurale (e viceversa). Aiutiamo anche nella facilitazione di scambi tra rurale e rurale, ma questo in qualche modo è più semplice.

Elena D’Angelo: Gli scambi translocali sono alla base della vostra pratica, sono visibili in progetti come l’Eco Nomadic School (2012), il Permanent International Village Shop (2017) o uno dei vostri primi progetti, la Village Convention and Bibliobox del 2005. Pensate che la realtà rurale sia un elemento comune abbastanza forte per implementare gli scambi tra culture e paesi diversi?

Fermentation Workshop 2014 – photo Wapke Feenstra – Eco Nomadic School GER.

Wapke Feenstra: Per la maggior parte, sì. Persone di un villaggio andranno in un altro villaggio e si renderanno conto di avere molto in comune. Per il progetto Farmers and Ranchers (2014), per esempio, giovani di un ranch e giovani di una fattoria si sono trovati a parlare della loro vita quotidiana e hanno persino realizzato uno script sull’argomento. Incontrandosi, organizzando questi incontri, ottieni dei contrasti, di paesaggio, di vita, ma anche molti degli stessi ritmi e degli stessi doveri, vi sono similitudini nel contatto con la terra o con la propria casa, o nel fatto che sai come trattare un animale cinque volte più grande di te. Sono le stesse cose, sia che tu venga dal Midwest degli Stati Uniti che dal Nord Europa. Tuttavia, i problemi che ci interessano emergono anche dai contrasti locali e da come le persone parlano della propria vita, di ciò che fanno ed è importante per loro, per poi associare questi racconti a un’altra situazione. Per noi, questo contrasto tra luoghi resta quindi fondamentale. Non vogliamo che questi incontri diventino un doppiaggio, ma che avvengano davvero.

Cover The Rural 2019 – DoCA series Whitechapel and MITpress – photo Farmers and Ranchers, Wapke Feenstra – USA UK.

Lavoriamo anche attraverso The International Village Shop. Discutiamo spesso con le persone riguardo ciò che vogliono rappresentare, come desiderano essere viste. Riprendere possesso del modo in cui la tua cultura viene rappresentata è una questione molto importante. A volte è una cosa giocosa e si tratta di progettare insieme prodotti nuovi. Con The International Village Shop possiamo costruire un souvenir con un gruppo di abitanti di un villaggio e poi, quando andiamo in un altro paese, attraverso questo souvenir possiamo raccontare le storie di quel villaggio. Vi sono quindi diversi modi di lavorare in modo translocale. Facciamo incontrare le persone, realizziamo oggetti insieme a loro e li portiamo in altri luoghi, raccogliamo anche oggetti diversi nel negozio. A volte insegniamo alle persone, al personale del museo e alle persone del villaggio a raccontare le storie di individui di altri villaggi.

come possiamo rappresentare le persone?

Questi incontri sono anche giocosi e divertenti. Alla fine mettiamo in discussione l’idea di identità locale. Lo facciamo attraverso mostre istituzionali e organizziamo incontri nelle aree rurali tramite l’Eco Nomadic School, anche se quel progetto è limitato soprattutto all’Europa. Ovviamente non possiamo organizzare incontri con persone troppo distanti, poiché sarebbe costoso: non è facile, per esempio, portare persone fuori dalla Russia, ma con loro realizziamo comunque progetti, possiamo fare delle ceramiche, disegnare un logo o fare un film, ci sono molti modi per rendere possibile questa interazione translocale. Si tratta di mettere le cose in discussione insieme, aprire un’identità e vedere il villaggio da un nuovo punto di vista, chiedersi: “Quali sono le abilità locali? Come vogliono raccontare la loro realtà locale? Qual è una risorsa locale?”.

Made in Zvizzchi 2012 – photo Wapke Feenstra – RU.

A volte ha a che fare con un lavoro in terracotta, altre con una grande macchina che conservano da 100 anni. C’era un villaggio che aveva questa industria del lino, ma non possedeva più i macchinari necessari alla produzione, finché gli anziani del luogo non hanno rivelato di saper fare il raccolto a mano, e così l’hanno insegnato ai più giovani. Ogni progetto è fatto su misura, ma ha sempre a che fare con un modo democratico e locale di creare la propria immagine, anche con la possibilità di discutere insieme il modo in cui si vuole essere visti, quali sono le abilità locali e quali le risorse, e cosa si vuole fare nel futuro.

Elena D’Angelo: La vostra intenzione di mettere in discussione l’egemonia culturale dell’urbano non è visibile solo attraverso la vostra pratica, ma è anche parte del modo in cui raccontate i vostri obiettivi come collettivo. A volte, però, è necessario che abbiate dei momenti di confronto con la realtà urbana, con mezzi quali il vostro sito, i libri o le mostre. Qual è la vostra strategia nel momento in cui vi trovate a condividere contenuti con la realtà urbana? Come combattete l’immagine esclusivamente “pastorale” che la cultura urbanizzata così spesso ha delle realtà rurali?

Wapke Feenstra: È un concetto molto denso da traslare: vai in un posto e poi torni indietro, non è mai una linea retta. Siamo parte del mondo dell’arte. Nei primi anni novanta abbiamo iniziato a dire alle persone che volevamo lavorare con loro sulle tematiche relative ai villaggi e all’agricoltura. Quando siamo state invitate abbiamo lavorato con alcuni curatori, ma in quel periodo quasi nessuno era interessato a lavorare ruralmente o a trattare argomenti legati alla ruralità. Quindi all’inizio ci siamo dovute organizzare in un gruppo, che abbiamo chiamato Myvillages: era il 2003, quando in Europa è arrivata la banda larga, e per la prima volta è stato possibile inviarci immagini tramite la rete. Prima era impossibile lavorare da luoghi diversi o da un nonluogo come il villaggio, quindi quello che abbiamo fatto per lanciare il nostro gruppo sulla scena artistica è stato mandare diverse e-mail ai nostri amici, dicendo che stavamo organizzando un evento, una sorta di un piccolo cinema all’interno del fienile di un villaggio. Alla fine eravamo solo noi, qualche nostro familiare e le persone del villaggio. È questo il modo in cui abbiamo iniziato. Successivamente abbiamo ricevuto attenzioni dal mondo dell’arte, appunto perché ne facevamo parte, e abbiamo avuto la possibilità di partecipare a mostre collettive, ricevendo in seguito fondi per portare in giro le persone. Tuttavia, l’idea della rappresentazione resta un problema enorme, poiché mettere in discussione la rappresentazione con chi partecipa ai nostri progetti è proprio parte della nostra pratica.

Setting the table… , Whitechapel Gallery 2019 – photo Wapke Feenstra – Myvillages UK. Made in Zvizzchi 2013 – photo Wapke Feenstra – International Village Shop RU.

La vastità di questa discussione deve anche essere inclusa nelle mostre, insomma devi imparare a conviverci, e devi anche imparare a sbagliare. Perché se la realtà rurale contemporanea non fa parte del mondo dell’arte allora continueremo a darne un’immagine cristallizzata, e il fatto che non ci sia movimento nel modo in cui immaginiamo la realtà rurale è pericoloso, verrebbe isolato dalla produzione culturale, e non è questo ciò che vogliamo. Vogliamo che venga posta una domanda. E vogliamo che il pubblico, quando visita la mostra, si apra. È questa la cosa interessante da fare. Il modo più semplice è realizzare una conferenza, una performance, uno spettacolo teatrale o un film. Se intendi lavorare nella ruralità, una mostra rappresenta un vero problema, perché le mostre di solito non sono performative o time-based. Per questa ragione ho attraversato una fase di crisi nei confronti delle mostre perché mi sono chiesta: come possiamo rappresentare le persone? Sappiamo che lo scambio uno a uno non è un problema, ma restare a contatto diretto non è abbastanza, abbiamo bisogno di una rappresentazione più aperta. Lavoriamo molto con la co-creazione, con l’amatoriale, proviamo a portare livelli diversi di concettualizzazione, ma anche questa sorta di cattivo gusto, o di gusto, in modo da lasciare la domanda sul tavolo. Non diamo nessuna risposta, ma vogliamo regalare un’esperienza al pubblico. Restituirla al mondo dell’arte è facile quasi come quando ubbidisci alle regole e pensi “ok, sono un’artista e questa è arte”, ma se cerchi di creare una rappresentazione aperta e fedele che potrebbe funzionare anche per un pubblico più ampio allora stai davvero creando una sfida per te stesso. Abbiamo dovuto imparare molto e insegnare molto. Penso che parte del mio compito sia rappresentare una cosa dando una sensazione di riconoscimento alle persone che l’hanno realizzata insieme a me, in questo senso e in fin dei conti devo pensare moltissimo alla rappresentazione, intendo restituire qualcosa al mondo dell’arte senza rispondere a domande, ma piuttosto ponendole. Quando conduci operazioni partecipative devi sentire che le persone che hanno lavorato insieme a te possiedono ancora le cose che avete realizzato insieme. Dal modo in cui si muovono nello spazio riesci sempre a capire se le possiedono ancora. Se le indicano, se sono orgogliosi di averle fatte, se le toccano o raccontano la storia che ne sta dietro, siamo felici. Ci metterebbe davvero a disagio ricevere approvazione sul nostro lavoro dai colleghi ma far sentire le persone che hanno lavorato con noi lontane da ciò che abbiamo realizzato. È una grande responsabilità, probabilmente nella loro vita non lavoreranno con altri artisti. Ci hanno dato delle immagini, ci hanno donato le loro storie, hanno condiviso il loro tempo con noi. Quindi la cosa migliore da fare quando si porta un oggetto nel mondo dell’arte istituzionale è avere la certezza che il mondo rurale lo possegga ancora.

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di Elena D'Angelo
  • Elena D’Angelo (1990) è producer e editor freelance. Dopo la laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali presso la Statale di Milano ha frequentato il biennio specialistico in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha lavorato come producer presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, seguendo progetti di numerosi artisti internazionali come Anri Sala, Hito Steyerl, Nalini Malani e Cécile B. Evans. Al momento collabora con Mattatoio, Roma, ed è partner dell’archivio video online instudio.