La “morte in terza persona”: una premessa di metodo
Prendendo le mosse dal lavoro di ricerca condotto circa 2 anni fa da KABUL magazine attraverso il numero MORIRE (gennaio-giugno 2018) e dall’evento a cui ho preso parte il 29 maggio scorso in occasione della Milano Digital Week, in questo articolo mi propongo di avanzare, a breve distanza dalla fine del lockdown, una proposta di analisi su come gli strumenti di comunicazione di massa del nostro paese (in primis tv e quotidiani) abbiano affrontato il tema della morte durante la pandemia di Covid-19, provando a mettere in luce una serie di criticità sistemiche che mi paiono riconducibili, più in generale, a una più ampia e mutata concezione della morte e dei riti funebri nella società occidentale contemporanea, specie dopo lo sviluppo della cosiddetta “Era social” del web 2.0. Nel fare questo, il punto di vista che ho scelto di assumere è quello di chi, per usare le parole del celebre filosofo e tanatologo ebreo Vladimir Jankélévitch, guarda e analizza “la morte in terza persona”: la morte in terza persona non è altro che la morte in generale, la morte astratta e anonima, o anche la morte-propria nella misura in cui questa sia analizzata come oggetto di studio verso il quale assumere una posizione di distanziamento. Diversamente da quelle che Jankélévitch definisce come “morte in seconda persona” (per cui «la morte di un essere caro è quasi come la nostra»11V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino, 2009 [1977], p. 26.
) e “morte in prima persona” (principio di angoscia che per il soggetto rappresenta infatti «la fine del mondo e la fine della storia […] l’annichilimento di tutto»22Jankélévitch, cit., p. 74.
), «la morte in terza persona è problematica senza essere misteriologica»,33Jankélévitch, cit., p. 23.
vale a dire un oggetto di studio che possiamo analizzare e descrivere da una molteplicità di prospettive (medica, biologica, sociale, culturale e demografica), mostrandosi ai nostri occhi come il «colmo dell’oggettività atragica».44Jankélévitch, cit., p. 23: «L’Io, in questo affare, diviene soggetto anonimo e acefalo di una morte indifferente, soggetto che non ha avuto fortuna e che è stato designato dalla sorte per crepare».
Posta questa premessa metodologica, l’analisi della “morte in terza persona” che intendo proporre si sviluppa a partire dall’inquadramento del contesto socioculturale in cui viviamo, dominato ormai da una netta sfumatura dei tradizionali confini tra virtuale (o, per meglio dire, digitale) e reale, soprattutto in queste ultime settimane di isolamento sociale che hanno ben mostrato una completa fusione tra i due piani.
Digital Death: come i social hanno cambiato il nostro rapporto con la morte
In Italia, il dibattito sulla cosiddetta Digital Death trova attualmente una sua esaustiva problematizzazione nel lavoro di ricerca condotto da Davide Sisto, filosofo e tanatologo presso l’Università degli Studi di Torino. Nei due volumi sinora pubblicati per Bollati Boringhieri, La morte si fa social (2018) e Ricordati di me (2020), Sisto mette in luce i mutamenti storici che la rivoluzione digitale ha posto in essere nelle modalità rituali attraverso cui oggi ci relazioniamo alla morte ed elaboriamo pubblicamente il lutto. «La nostra morte biologica non coincide mai con la nostra morte digitale»:55D. Sisto, La morte al tempo dei social, TEDx talk, 20 agosto 2019.
partendo da questa premessa, Sisto analizza il ruolo che i social media rivestono nella perpetuazione del ricordo degli esseri umani in seguito alla loro morte, focalizzando l’attenzione sulle forme di aggregazione sociale e di condivisione del dolore oggi instaurate all’interno dei social network, e giungendo infine alla postulazione dell’idea di un’immortalità digitale collettiva il cui risultato è strettamente interconnesso alla responsabilità di ciascun individuo verso i contenuti tramite cui costruisce e veicola online la propria soggettività.
Proponendo un lavoro di sintesi, individuo due diverse tendenze che mi sembrano svilupparsi e acuirsi con la diffusione del web 2.0, in riferimento ai comportamenti sociali e culturali che assumiamo oggi nei confronti della morte e del lutto.
In primis, la nascita dell’Era Social ha indubbiamente fatto scaturire un legame di interconnettività e di condivisione inter- e transindividuale di esperienze tragiche, con il conseguente e benefico risultato di portare le persone a sentirsi meno sole e a condividere pubblicamente il proprio dolore (è il caso, per esempio, delle numerose pagine commemorative di defunti su Facebook, il più grande cimitero virtuale al mondo, luogo di ritrovo e di scambio per i vivi, in cui talora trovano espressione forme di ciò che è stata definita come “tecnospiritualità”66In Death and the Social Network, Jed R. Brubaker e Janet Vertesi analizzano i profili social di alcune persone decedute e i commenti in essi pubblicati da altri utenti, al fine di individuare abitudini e comportamenti riconducibili a quelle che sono state definite come “pratiche tecnospirituali”, ovvero forme spirituali di vivere la morte e il lutto attraverso la mediazione dello strumento tecnologico e digitale.
). Davanti alla sfilza di like, sad reactions e commenti postati “in memoria di” sulle bacheche di Facebook o tra i feed di Instagram, sembra quasi, forzando molto il pensiero, che lo spirito di condivisione e mutuo soccorso emotivo scaturito dalla rete stia facendo materializzare sotto i nostri occhi un’ombra di quella social catena tra esseri umani di leopardiana memoria, in risposta all’orrore quotidiano suscitato dalla natura e dalla morte.
Tuttavia, il discorso non è così semplice. Una seconda e ulteriore tendenza che mi sembra infatti acuirsi a partire dallo sviluppo del web 2.0 e che oggi continua a essere pericolosamente alimentata dai massmedia è rappresentata dal fenomeno della spettacolarizzazione della morte, vale a dire quel processo che ha luogo nella comunicazione e che ha per effetto quello di trasformare omicidi, suicidi e morte più in generale in uno spettacolo da dare in pasto alla televisione e alla rete. Se in TV questo processo è facilmente riconoscibile nei prodotti delle principali trasmissioni televisive, più e meno volgari, assimilabili al genere dell’infotainment, osservando i contenuti prodotti all’interno della rete, il luogo elettivo di questo medesimo processo è rappresentato senza dubbio proprio dai social network, dove in più occasioni la morte viene trasformata in uno spettacolo contraddistinto da elementi kitsch, ossessivi e ripetitivi, dove “la morte dell’Altro”, la “morte in terza persona” (riprendendo Jankélévitch) arriva persino ad assumere la forma di un meme (è il triste caso, per esempio, di Tiziana Cantone, come ricordava Valerio Veneruso in questo articolo) o di un vlog caricato su YouTube: quest’ultimo è il caso, ad esempio, del celebre e controverso youtuber Logan Paul, che nel 2018 ha caricato sul proprio canale un video raffigurante un uomo morto suicida nella foresta giapponese di Aokigahara, suscitando una prevedibile ondata di indignazione nel suo pubblico.
Le quattro fasi della morte in Occidente
L’argomento della “spettacolarizzazione della morte” apre la strada a un’ulteriore riflessione di ordine sociale e culturale, che esprime bene Sisto in queste sue parole pronunciate alla TEDx talk del 20 agosto 2019: «Noi ormai siamo abituati a rimuovere la morte dai luoghi all’interno dei quali viviamo quotidianamente. Parlare di morte è inopportuno, è un argomento tabù, è scabroso».
La morte diventa oggi spettacolo proprio in quanto, nella nostra società occidentale, è ancora considerata un tabù in grado di suscitare orrore e scompenso“…La morte diventa oggi spettacolo proprio in quanto, nella nostra società occidentale, è ancora considerata un tabù in grado di suscitare orrore e scompenso”, quasi una sorta di ossessività ontologica che brama e chiede a gran voce la nostra attenzione. È opportuno, tuttavia, sottolineare che non è sempre stato così. Sebbene l’atteggiamento degli esseri umani nei confronti della morte potrebbe infatti sembrare acronico, in realtà nella storia occidentale esso conosce quattro fasi di sviluppo, come ben delineato dallo storico francese Philippe Ariès in Storia della morte in Occidente. La prima di queste fasi è quella che si svolge durante l’alto Medioevo e che vede la morte come un evento vicino e familiare, un destino ineluttabile che accomuna tutti gli esseri umani e va pertanto vissuto e atteso come tale. È la società della “morte addomesticata”, fatta di semplici riti mortuari, privi di carattere drammatico, e cerimonie pubbliche organizzate per accompagnare il morente nel trapasso: «Così si è morti per secoli o millenni. In un mondo soggetto al mutamento, l’atteggiamento tradizionale davanti alla morte appare come una massa d’inerzia e di continuità. Il vecchio atteggiamento in cui la morte è al tempo stesso familiare, vicina e attenuata, indifferente, contrasta troppo con il nostro, in cui la morte fa paura al punto che non osiamo più pronunciarne il nome».77P. Ariès, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano, 2013 [1975], pp. 25-26.
La morte è diventata quasi un oggetto di vergogna in grado di suscitare imbarazzo in chi ne parla.
La seconda fase di sviluppo è invece quella della “morte di sé”, che conosce, verso la fine del Medioevo cattolico, un progressivo incremento del senso drammatico e personale nel rapporto tra esseri umani e morte, in cui l’idea di un destino collettivo della specie dopo il trapasso viene sostituita da una nuova concezione di destino e di Giudizio individuali, strettamente correlati alla morale e ai comportamenti tenuti in vita. È una società in cui ha luogo un processo di graduale personalizzazione dei riti mortuari, dove sui luoghi di sepoltura cominciano a essere apposte varie iscrizioni e rappresentazioni di scene sacre: un chiaro tentativo di individualizzare il luogo di sepoltura e conservare in perpetuo l’identità del defunto. Forse anche complice l’ondata di morte diffusa in Europa dal 1346 dalla pandemia di peste nera, questa età sembra contrassegnata da visioni drammatiche e pessimiste: «L’uomo della fine del Medioevo aveva la consapevolezza acutissima di essere un morto a breve scadenza, e la morte, sempre presente dentro di lui, infrangeva le sue ambizioni, avvelenava i suoi piaceri».88Ariès, cit., p. 44.
Tuttavia, a partire dal XVIII secolo, a emergere nella società occidentale è un senso del tutto nuovo della morte, che adesso viene sempre più associata all’eros, al nostro rapporto con l’alterità e, infine, a un insostenibile e romantico sentimento di perdita: la morte viene vissuta come dramma, mentre la manifestazione del dolore dei sopravvissuti si esprime quale forma di intolleranza per la tragica separazione. La “morte dell’altro” (e nella sua forma più angosciante, la “morte del tu”) comincia così a commuovere e a delinearsi come origine del moderno culto delle tombe e dei cimiteri. Attraverso una speciale e inedita forma di proprietà, assistiamo alla nascita di un’abitudine moderna: quella di attribuire un luogo unico e specifico alla memoria del defunto, un luogo a cui far visita per coltivarne la memoria.
Quarta e ultima fase individuata da Ariès è quella che contraddistingue i giorni nostri e che assume la denominazione di “morte proibita”: un modo, tutto contemporaneo, di intendere la morte come qualcosa da rimuovere, da celare e non esprimere pubblicamente. La morte è diventata quasi un oggetto di vergogna in grado di suscitare imbarazzo in chi ne parla, esprimendosi come elemento rimosso in un linguaggio fatto di perifrasi, eufemismi e circonlocuzioni (a tal proposito, uno degli esempi che si è soliti fare con più frequenza è quello dell’espressione “male incurabile” in luogo di “cancro”). Oggi, diversamente che in passato, i moribondi non muoiono più in casa circondati dai propri cari e da un corteo funebre di amici e conoscenti, ma vengono ospedalizzati all’interno di apposite strutture sanitarie: «La morte in ospedale non è più occasione di una cerimonia rituale che il moribondo presiede, in mezzo all’assemblea dei suoi parenti e amici […]. La morte è un fenomeno tecnico ottenuto con l’interruzione delle cure, cioè, in modo più o meno confessato, con una decisione del medico e dell’équipe ospedaliera».99Ariès, cit., p. 70.
Il lutto come masturbazione e la risposta social al rimosso
Sulla scia di questa considerazione della morte come argomento tabù, riprendendo le riflessioni del sociologo inglese Geoffrey Gorer, Ariès afferma che oggi:
«Un dolore troppo visibile non ispira pietà, ma ripugnanza; è un segno di perturbazione mentale o di cattiva educazione; è morboso. All’interno della cerchia familiare, si esita ancora a lasciarsi andare, per timore di impressionare i bambini. Abbiamo il diritto di piangere solo se nessuno ci vede e ci sente: il lutto solitario e pieno di vergogna è l’unica risorsa, come una specie di masturbazione».1010Ariès, cit., p. 72.
Paragonare il lutto a una specie di masturbazione, oltre a suggerire che la morte, nel XX secolo, abbia di fatto sostituito il sesso quale principale tabù, apre a mio avviso a un’ulteriore considerazione sulla natura intrinseca di entrambi gli elementi posti in analisi: in altre parole, il lutto si presenta come una necessità fisiologica di cui non è possibile fare a meno, al pari della masturbazione, nonostante i divieti e i tentativi di rimozione sociale.
Per tornare all’Era Social, in un’ottica di avanzamento della lucida analisi proposta da Ariès, nella tesi che propongo il fatto che oggi i social network siano diventati per molte persone un luogo di aggregazione, sfogo e conforto per le proprie perdite, è forse, per certi versi, una sorta di risposta proprio al fatto di vivere socialmente la morte come un tabù. In altre parole, è come se il progressivo depauperamento, rispetto al passato, di riti funebri e mortuari (da questo discorso è tenuta fuori l’American Way of Death) avesse finalmente trovato una sua valvola di sfogo in queste forme di aggregazione e condivisione incorporea delle esperienze del lutto. Accettando questa ipotesi, si potrebbe configurare una quinta e ulteriore fase per la concezione della morte (e del lutto) nella storia occidentale, quella appunto della “morte social”, in cui gli individui troverebbero conforto nel vivere il lutto in una dimensione online, collettiva e condivisa, circondati dalle persone che volevano bene al caro estinto. Tuttavia una simile visione ottimistica deve scontrarsi ripetutamente con una considerazione persino banale: non sempre, infatti, la condivisione si traduce automaticamente in un affrancamento dal dolore: anzi, il dolore di una perdita si supera, in molti casi, anche grazie al depotenziamento del ricordo. E in ciò Internet (e i social network nello specifico) non aiutano: purtroppo e per fortuna, Internet non dimentica.
La cautela nell’accogliere come positivo o negativo in termini assoluti un simile cambiamento di costumi e abitudini vale anche per un fenomeno che ha registrato un rapido incremento proprio durante le settimane di lockdown dovute alla pandemia di Covid-19, vale a dire il funerale virtuale (conseguenza del Dpcm 8 marzo 2020). Il fenomeno, che ha avuto luogo attraverso una serie di livestream e conference call, ha infatti consentito alle persone di uscire, anche se fittiziamente, dallo stato di isolamento forzato prodotto dal lockdown per partecipare al rituale funebre e condividerne il dolore con i propri cari. Tuttavia, al tempo stesso, tale fenomeno, seppur obbligato, non può da solo colmare il necessario momento di passaggio previsto dal rito funebre, in occasione del quale l’“estremo saluto” al corpo del defunto avviene attraverso una serie di azioni la cui centralità è interamente demandata al corpo (si pensi ad esempio all’abitudine di baciare la fronte del defunto prima del definitivo distacco). In virtù di questa negazione della corporeità, nel funerale virtuale non avviene proprio quel momento di passaggio, necessario all’elaborazione del lutto, tra vivi e defunto, di fatto derealizzando l’esperienza.
Rappresentazione massmediatica della morte ai tempi del Covid-19
Se fin qui ho tentato di ricostruire, grazie alla lezione di Ariès, una sintetica evoluzione della concezione della morte e del lutto nella società occidentale, proponendo un netto cambio di prospettiva (e di paradigma) avuto con l’affermazione dell’Era Social, in questa seconda parte propongo un’analisi di come gli attuali mezzi di comunicazione di massa italiani (nello specifico televisione e giornali) si siano posti nei confronti dell’argomento in relazione all’attuale pandemia di Covid-19.
Prima di iniziare, una premessa. Forse mai come in questi mesi di lockdown è emersa manifestamente tutta l’inadeguatezza e l’irresponsabilità che contraddistingue sistemicamente l’industria nazionale dell’informazione. Parallelamente alla diffusione, in Italia, del Covid-19 si è fatto strada un nuovo termine – quello di infodemia – in grado di descrivere efficacemente l’incontrollata proliferazione di notizie tendenziose, quando non persino vere e proprie fake news, diffuse sui principali canali di comunicazione e di informazione. Come ha lucidamente delineato Vera Gheno su «Treccani»:
«i mezzi di comunicazione di massa […] hanno contribuito a definire il tono della conversazione pubblica. E non solo le “persone comuni” sui social hanno iniziato ad alimentare il fuoco della paranoia collettiva con contatori di defunti “di coronavirus” (salvo poi scoprire che praticamente nessuno, in Italia, era morto per le conseguenze esclusive dell’infezione, quanto piuttosto per quadri di comorbosità o comorbilità – cioè di coesistenza di più patologie – piuttosto complessi), con ipotesi di complotto (“Non ci stanno dicendo tutto”, “La realtà è ben più grave”), con uscite xenofobe solo in parte giustificate dal sacrosanto e umanissimo timore di ammalarsi; anche numerosi esperti hanno ceduto alla tentazione di richiamare su di sé l’attenzione con dichiarazioni non sempre condivisibili e in più di un caso sopra le righe, talvolta cadendo anche in contraddizione con sé stessi a distanza di pochi giorni».
Sui principali media nazionali siamo stati messi davanti a una narrazione che, a partire dall’esplosione del virus cinese (la “malattia di Wuhan”), con la prevedibile e annessa serie di untori razzializzati che ha dato sfogo in Italia a diversi episodi di razzismo contro la comunità cinese, è approdata ex abrupto alla repentina riabilitazione (si pensi alle numerose immagini trionfali della task force di medici inviati in Italia dalla Cina) di una nazione che perpetua repressione e violenza nei confronti dei suoi cittadini.
In queste settimane, sui media nazionali, ha preso forma quello che potremmo definire senza riserve come un vero e proprio “storytelling dell’orrore”, con il suo bollettino giornaliero di defunti e contagiati (spesso omettendo da queste percentuali il dato necessario, ossia il numero di tamponi realmente effettuati); con i suoi oggetti-feticcio: guanti, mascherine, amuchina, con l’ovvio risultato di alimentare nelle persone la paura di non poter accedere alle scorte; con i suoi protagonisti (medici e infermieri dipinti retoricamente come “eroi in guerra”, “angeli”, “soldati in trincea”, spesso attingendo a un lessico bellico che ha di fatto presentato come inevitabili ed eccezionali le falle strutturali del nostro sistema sanitario); e, infine, i suoi antagonisti (privati cittadini trattati come passeggiatori occasionali o seriali e dati in pasto alle trasmissioni televisive). Ma c’è di più. Come ben dimostrato da Nicola Grandi e Alex Piovan su «Micromega», la narrazione tossica del Covid-19 sui media nazionali ha fatto uso di una retorica a volte così sottile e persino subdola da riversarsi perniciosamente sulla formazione e il controllo dell’opinione pubblica:
«L’aspetto della comunicazione giornalistica che più colpisce […] è quello delle informazioni trasmesse in modo esplicito e, soprattutto, implicito. Perché sono le informazioni implicite, più di quelle esplicite, a orientare l’opinione pubblica e, quindi, a innervare le infodemie. Una frase può attivare, in chi la legge o la ascolta, una serie di immagini mentali e di collegamenti che vanno ben oltre il suo significato letterale, anzi che si nascondono dietro a esso. Si tratta, appunto, di significati impliciti, che, per così dire, entrano surrettiziamente nella mente di chi legge o ascolta».
Lo scenario si aggrava ulteriormente se consideriamo che in Italia solo una percentuale estremamente ridotta di persone ricorre a fonti governative e istituzionali a scopo informativo: una ricerca di Eurostat ha stabilito, per il 2019, questa percentuale irrisoria al 19% della popolazione, un dato che amplifica notevolmente la responsabilità civile e politica che gli operatori dell’informazione hanno nei confronti dei lettori.
Per riassumere, mi sembra che tre siano le tendenze riconoscibili nei media italiani a proposito di come hanno gestito la morte durante la pandemia di Covid-19. In primo luogo risulta evidente l’enorme proliferazione di grafici, infografiche, numeri, percentuali e curve sinusoidali: tutto un modo di rappresentare che di certo ha il merito di informare oggettivamente, rappresentando in forma attendibile gli effetti della pandemia, ma che di per sé tende ad astrarre del tutto e a spersonalizzare le vittime, spogliandole della propria individualità. La seconda tendenza, ben più grave, è appunto il processo di spettacolarizzazione della morte che ha dato vita allo storytelling dell’orrore di cui sopra. E infine, terza tendenza, non ancora accennata, è quella netta polarizzazione che si è venuta a creare tra morti di serie A e morti di serie B durante il lockdown, e che ha visto tutti quei soggetti sino a quel momento sistematicamente impiegati e sfruttati dal dispositivo mediatico della spettacolarizzazione della morte (si pensi ad esempio ai casi di cronaca nera) venire completamente messi da parte e invisibilizzati per rivolgere tutta l’attenzione mediatica alle sole “vittime di guerra” della pandemia, ormai oggetto di interesse esclusivo a uso e consumo dello spettatore.
Pars construens: una buona pratica per un buon giornalismo
La risposta involontaria a questi innumerevoli esempi di cattivo giornalismo ci è arrivata il 24 maggio scorso nell’edizione cartacea del «New York Times», con la pubblicazione di un’insolita prima pagina di solo testo e del tutto priva di immagini (grafiche o fotografiche). Sul quotidiano statunitense una cosa simile non accadeva da più di 40 anni.
Sul testo riportato in pagina 3 elementi: 1) un titolo lapidario (“Quasi 100mila morti statunitensi, una perdita incalcolabile”1111Trad. mia dall’inglese: “U.S. Deaths near 100.000, an incalculable loss”.
); 2) un sottotitolo (“Non erano solo dei nomi su una lista. Loro erano noi1212Trad. mia dall’inglese: “They Were Not Simply Names on a List. They Were Us”.
”); 3) una lunghissima serie di necrologi raccolti e selezionati dal «New York Times» tra centinaia di quotidiani locali.
Partendo dal titolo, è interessante notare che l’espediente utilizzato per dare avvio alla narrazione sia un dato numerico piuttosto ampio (e, per questo, tragico: “100.000 morti”), ma ancora tuttavia incerto (“quasi 100.000 morti”: un’idea di indeterminatezza che getta un’ulteriore ombra oscura sull’effettiva numerica delle vittime da Covid-19). Sebbene in questa prima parte del titolo si intenda comunicare una stima (seppur approssimativa) dei deceduti, nella seconda parte questo sforzo viene di fatto negato inaspettatamente: la perdita che gli Stati Uniti stanno subendo è inestimabile, non quantificabile, perché la tragedia che stiamo vivendo non ha a che fare solo con i numeri. “Una perdita incalcolabile”: con queste parole, il «New York Times» apre una riflessione che trascende completamente il valore numerico. Lo ribadisce nel suo sottotitolo: “Non erano solo dei nomi su una lista. Loro erano noi”.
E il fatto che non siano semplici nomi su una lista ma qualcosa di più è ben espresso dalle parole che i cari di questi defunti hanno utilizzato per descriverli e ricordarli sui necrologi. Vediamone alcuni:
“Marion Krueger, 85 anni, Kirkland: nonna eccezionale dalla risata facile”
“Peggy Rakestraw, 72 anni, Matteson: amava leggere, soprattutto i romanzi gialli”
“Romi Cohn, 91 anni, New York City: salvò 56 famiglie ebree dalla Gestapo”
“Frederick Carl Harris, 70 anni, Massachusetts: una risata esuberante”
“James Quigley, 77 anni, Chicago: il ribelle della famiglia”
Al di là della qualità stilistica di alcuni necrologi (si noti l’uso della sineddoche nell’espressione “una risata esuberante” per descrivere l’intera vita di un essere umano), mi preme sottolineare l’efficacia di una simile scelta comunicativa, apparentemente facile, da cui risultano bandite sia narrazioni edulcoranti che forme di spettacolarizzazione del dolore e della morte.
La decisione di andare in stampa con una prima pagina del tutto priva di immagini, in una società dell’immagine e dello spettacolo come quella in cui viviamo, è una scelta indubbiamente forte e schierata, che va nella direzione contraria a quella pornograficamente battuta dalla maggior parte dei massmedia nel momento in cui affrontano il tema della morte (non si dimentichi la terribile immagine di Alan Kurdi pubblicata nel 2015 sui principali media nazionali e del mondo). Con il suo stile comunicativo sobrio e dimesso, il «New York Times» ha ottenuto un duplice risultato: da una parte mettere il lettore di fronte alla constatazione di un dato e quindi informarlo sulla gravità della situazione che ci coinvolge tutti come gruppo; dall’altra, trasformare questo dato gelido in un racconto in grado di enfatizzare e ridare valore all’unicità della vita di ognuno, attraverso un ricco campionario umano di piccoli gesti e grandi azioni, comportamenti e caratteri ordinari, nonché abitudini quotidiane.
A proposito dell’iniziativa, Simone Landon, assistant editor del reparto grafico del «New York Times», ha dichiarato:
«Inserire 100.000 puntini o figure stilizzate sulla pagina non avrebbe detto nulla su chi siano state queste persone, sulle vite che hanno vissuto, e che cosa tutto questo significhi per noi come paese, come nazione».1313Trad. mia dall’inglese: “Putting 100,000 dots or stick figures on a page ‘doesn’t really tell you very much about who these people were, the lives that they lived, what it means for us as a country’”.
Come abbiamo visto, gli strumenti e i buoni esempi per comunicare la morte in modo adeguato, senza scadere nella becera spettacolarizzazione o nella più bieca infodemia, esistono. Si tratta solo di fare delle scelte, che in questo caso non si riferiscono a un semplice piano estetico ma hanno piuttosto uno specifico e urgente valore politico. La scelta di come comunicare è già di per sé un’azione politica, a cui chi si occupa di informazione e di comunicazione non può in alcun modo sottrarsi.
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Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
A conclusione di queste riflessioni, riporto di seguito una serie di riferimenti bibliografici e cinematografici sui temi affrontati e raccolti grazie al prezioso contributo di Federico Boni, Ivano Eberini, Alessandro Isidoro Re e Davide Sisto, miei compagni di discussione durante l’incontro della Milano Digital Week intitolato “Digital Death: il lutto al tempo del lockdown” e tenuto il 29 maggio scorso:
Michael Almereyda, Marjorie Prime, 2017.
Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Rizzoli, Milano, 2013.
Evan Carroll, John Romano, Your digital afterlife, New Riders, 2010.
Greg Daniels, Upload, serie tv, 2020.
Norbert Elias, La solitudine del morente, il Mulino, Bologna, 1985.
Epicuro, Lettera a Menceo, trad. it. di P. Pultrini.
Owen Harris, Be Right Back, ep. 1 stag. 2, Black Mirror, 2013.
Josephine Hart, Il peccato, Feltrinelli, Milano, 1993.
Vladimir Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino, 2009 [1977].
Spike Jonze, Her, 2013.
Elaine Kasket, All the Ghosts in the Machine: The Digital Afterlife of your Personal Data, Robinson, 2019.
Christopher M. Moreman, David Lewis (a cura di), Digital Death: Mortality and Beyond in the Online Age, Praeger, Santa Barbara-Denver-Oxford, 2014.
Daisuke Nishio, Dragon Ball Z: Androids Saga, 1989-1996.
Christopher Nolan, Interstellar, 2014.
Giorgio Radetti (a cura di), Baruch Spinoza. Etica, Bompiani, 2007.
Jeffrey Sconce, Haunted Media, Duke University Press, Durham, 2000.
Susan Sontag, Malattia come metafora, Einaudi, Torino, 1979.
James Vlahos, Talk to Me: How Voice Computing Will Transform the Way We Live, Work, and Think, Houghton Mifflin Harcourt, Boston, 2019.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.