Giugno 2014. ABITARE LA LUCE, serata di contemplazione a conclusione della Masterclass di light design con Pasquale Mari, tenutasi dal 20 al 25 giugno 2014. Essere in un luogo invece di rappresentarlo: tecniche e strategie di ascolto dello spazio e di ricerca della luce nel Teatro Valle Occupato.L’occupazione del Teatro Valle ha avuto inizio il 14 giugno 2011, all’indomani del referendum sull’acqua bene comune in Italia e in una congiuntura transnazionale di rivendicazioni e occupazioni.11La genealogia dell’occupazione del Valle risale ai movimenti territoriali che si oppongono alla costruzione delle grandi opere, minaccia per territori e comunità attraversati da fragilità geologiche e sociali: i No Dal Molin, No Mose, No Ponte sullo stretto, No Ampugnano, No Tav. Parimenti, la lotta che si inscrive nell’occupazione del Valle discende dai movimenti di protesta che si sviluppano in seguito alla progressiva aziendalizzazione e parallelo definanziamento dei luoghi di formazione e di cultura; il 2010 è, infatti, l’anno della Riforma Gelmini e della soppressione dell’ETI (Ente Teatrale Italiano). Altri elementi da ascrivere alla genealogia dell’occupazione sono, sempre sul finire del primo decennio del nuovo secolo, il processo di precarizzazione del lavoro culturale, il mancato riconoscimento delle professioni a esso afferenti e il malcontento nelle strategie di contrasto da parte dei sindacati e delle associazioni di categoria. Da tenere in considerazione sono anche le occupazioni di teatri e altri luoghi della cultura, da parte di lavorat_ del settore, che precedono e seguono quella del Teatro Valle in tutta Italia tra il 2011 e il 2012. Cf. nota 26.
L’impulso ad agire è venuto dall’esigenza di opporsi alle tendenze di privatizzazione ed elitarismo diffusesi nel mondo della cultura, e di ricostituire un corpo artistico e politico collettivo. «Respiro comune», «trasformazione alchemica» di tanti corpi che diventano «un corpo solo, espanso, molecolare»:22Teatro Valle Occupato, Chi è di scena. Gesto, eros, metamorfosi, dinamica, in Federica Giardini, Ugo Mattei, Rafael Spregelburd (a cura di), Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, DeriveApprodi, Roma, 2012, p. 7.
quella che ne è nata è stata una rivolta culturale, rivolta cioè come pratica di conflitto che, diversamente dal progetto rivoluzionario, non ha una dimensione progettuale nei confronti di un tempo futuro, ma si configura, al contrario, come uno «spazio di pura insorgenza, che taglia e fa saltare il tempo storico senza volersi inserire in esso»33Federica Castelli, Rivolta, in Federica Castelli, Federica Giardini, Francesco Raparelli (a cura di), Conflitti. Filosofia e politica, Mondadori, Milano, 2020, p. 108.
e che prefigura un tempo di là da venire. L’esperienza del Teatro Valle Occupato si inscrive così nella genealogia di esperienze presenti e future che osano sfidare la condizione di oppressione e lottano per rivendicare, praticandolo, uno spazio di libertà.
I commons come pratica: fare bene comune
Per comprendere quale sia stato il portato materiale e simbolico della vicenda del Teatro Valle Occupato, ineludibile punto di partenza è stata per me la riflessione sui commons, non solo da un punto di vista puramente giuridico, ma anche dalla prospettiva femminista, che mette in luce la capacità insieme sovversiva e istituente del fare bene comune.
La riflessione che Silvia Federici sviluppa in merito a “commons” ed “enclosures”44Cf. Silvia Federici, Il femminismo e la politica dei beni comuni, «DEP. Deportate, esuli profughe», n. 20, 2012, p. 64.
riesce, infatti, a illustrare il processo che, limitando o negando la possibilità di accedere liberamente a ciò che è comune e disponibile, crea una frattura epistemologica e porta in superficie le limitazioni che la concezione binaria pubblico/privato sovrascrive alle possibilità di fare esperienza del molteplice. D’altro canto, ci dice ancora Federici, «l’accomunamento dei mezzi materiali di riproduzione» crea le «condizioni per spazi autonomi che possano minare dall’interno la stretta che il capitalismo ha sulle nostre vite»,55Ivi, p. 70.
riuscendo a rompere il binarismo di proprietà e a mettere in atto strategie di resistenza e riappropriazione. In questo senso, la prospettiva femminista aiuta a comprendere come non solo le risorse naturali, ma anche i saperi, le informazioni, i linguaggi e le relazioni vengono tenuti insieme sotto il concetto di commons, perché forniscono beni primari per il sostentamento e gettano le basi per la cooperazione sociale.
La rivolta culturale del Valle, scoppiata all’indomani della vittoria al referendum sull’acqua bene comune, ha incarnato una forte presa di parola da parte della società contro il tentativo di privatizzare, monetizzare e trasformare in servizio un bene a cui si ha libero e comune accesso, sia esso una risorsa naturale come l’acqua, o l’insieme di legami, conoscenze e affetti che dà materia alla cultura. Come ha sottolineato Federica Giardini,
«Nella politica dei beni comuni non c’è un soggetto ma l’inizio di un’azione. […] Un’urgenza condivisa, un bisogno che spinge ad agire, che crea un’affinità passionale. Proprio perché un bene comune non è una risorsa preesistente al complesso di abusi, riappropriazioni, riqualificazioni, di mobilitazione e partecipazione, anziché di beni comuni, è più appropriato parlare di un fare bene comune».66Federica Giardini, Politica dei beni comuni. Un aggiornamento, in «DWF», n. 2, 2012, pp. 50-51.
Pratica per eccellenza di questo fare bene comune è proprio l’occupazione, che non instaura un confronto con le istituzioni preesistenti, ma diventa essa stessa pratica istituente, iniettando nel tessuto urbano delle città un modo diverso di abitare i suoi spazi:77Federica Castelli, Città e conflitto. Trasformazioni, reinvenzioni, rifondazioni, in Chiara Belingardi, Federica Castelli, Città. Politiche dello spazio urbano, IAPh Italia, Roma, 2016.
una proposta di significato, un atto di cura, «un gesto inaugurale»88Giardini, cit., p. 51.
che consente di generare nuove forme del comune in contrapposizione alle spinte individualizzanti della società.
L’occupazione del Teatro Valle, tuttavia, si è presto trasformata in qualcosa di più complesso, rivendicando la capacità istituente dei beni comuni attraverso la costituzione, già dall’autunno 2011, della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. La Fondazione si è presto dotata di uno statuto profondamente innovativo da un punto di vista giuridico, mutuando alcuni elementi dalla proposta di Legge Delega della commissione Rodotà,99La commissione è stata nominata il 14 giugno 2007 con l’obiettivo di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.
che proponeva di superare la connotazione materialistica della relazione tra beni e cose data dall’art. 810 del Codice Civile1010L’articolo definisce i beni come «cose che possono formare oggetto di diritti».
e di recuperare invece la relazione funzionale tra beni e utilità da essi prodotte.1111Secondo la proposta di legge, i beni «esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona».
I commons, in definitiva, anche al livello giuridico «assumono valore in quanto intimamente collegati alla vita».1212Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. XVI.
Il Teatro Valle Occupato come dispositivo di prefigurazione artistica e politica
Inaugurare un processo istituente, con questa concezione politica alla base, si è tradotto in una sperimentazione audace, estremamente complessa per il fatto stesso di implicare una riappropriazione «non solo dello spazio ma della prassi decisionale che lo governa»;1313Teatro Valle Occupato, “Chi è di scena”. Gesto, eros, metamorfosi, dinamica, in Giardini, Mattei, Spregelburd, cit., pp. 11-12.
non a caso, la Fondazione Teatro Valle Bene Comune ha promosso principi di autogoverno e partecipazione, si è dotata di diversi organi tra i quali configurare relazioni decisionali nuove e ha favorito un coinvolgimento attivo dei soci comunardi anche attraverso l’elaborazione di proposte e iniziative, non limitando la partecipazione comunitaria al solo processo di voto.
È possibile, dunque, che questi meccanismi di autogoverno abbiano permesso di sperimentare soluzioni alternative del vivere collettivo capaci di prefigurare un futuro politico attraverso l’arte?
Per rispondere a questa domanda e comprendere dove vengono (ri)prodotti gli strumenti materiali del fare mondo, mi sono imbattuta in alcune riflessioni della filosofa Chantal Mouffe riguardo la capacità dell’arte di intervenire nello spazio pubblico in maniera “agonistica”1414«From the point of view of the theory of hegemony, artistic practices play a role in the constitution and maintenance of a given symbolic order or in its challenging and this is why they necessarily have a political dimension. The real issue concerns the possible forms of critical art, the different ways in which artistic practices can contribute to questioning the dominant hegemony». Chantal Mouffe, Art and Democracy. Art as an Agonistic Intervention in Public Space, «Open. Cahier on Art and the Public Domain», n. 14, 2008, p. 11.
a contestare l’egemonia dominante, ma anche nel concetto di prefigurazione, che la studiosa Valeria Graziano introduce per indicare quel processo che permette di formulare una prospettiva politica sulle pratiche artistiche del nostro tempo.1515«I wished to call attention to the characteristics of cultural practices that perform their political struggles against the conditions of their own taking place, and in ways that make them politically available for other experiences beyond themselves». Valeria Graziano, Recreation at Stake, in Ana Vujanovic, Livia Andrea Piazza (eds.), A Live Gathering: Performance and Politics in Contemporary Europe, b_books, Berlin, 2019.
Il Teatro Valle, in quanto dispositivo artistico e politico,1616Teatro Valle Occupato, “Chi è di scena”. Gesto, eros, metamorfosi, dinamica, in Giardini, Mattei, Spregelburd, cit., p. 23.
può aver incarnato, infatti, un tentativo di creare per «bisogni e desideri, acuiti dalla crisi dei meccanismi tradizionali di rappresentanza […] canali di espressione e di organizzazione»,1717Ivi, p. 11.
quasi a voler generare una riserva immaginativa da utilizzare in quel dopodomani non più soltanto evocato1818«Esperienza non dialettica, la rivolta non guarda al domani, bensì prepara il dopodomani della società in un’anticipata epifania», F. Castelli, Rivolta, in Castelli, Giardini, Raparelli, cit., p. 108.
nel momento della rivolta. In tale prospettiva, il carattere agonistico e quello prefigurativo dell’arte assumono un’importanza centrale nell’articolare nuove forme organizzative che siano indeterminate ma non indifferenziate, nuove forme del fare bene comune che abbiano come obiettivo lo stare bene insieme.1919Cf. Ilenia Caleo, Performing (Art) Institutions. Contro l’autonomia dell’estetico, «Connessioni remote», n. 2-02, 2021, p. 137. Nell’articolo si spiega come questo fare bene comune «sfocia in una dimensione immediatamente produttiva (che implica la gestione dei mezzi di produzione, la costruzione di economie informali e la sperimentazione di nuovi sistemi relazionali) e inventiva di nuova istituzionalità. Un’arte del governarsi “altrimenti”, fuori dai repertori neoliberisti della produzione e della competizione, e inventando modalità di cooperazione capaci di innescare trasformazioni sociali e di evocare un’altra idea di cittadinanza».
Ampliando la riflessione alla materialità dei corpi che agiscono in comune, alle soggettività che hanno vissuto queste temporalità altre, occupando e prendendosi cura dello spazio del Teatro Valle, si presenta la necessità di nominare questa comunità senza ridurla entro rigidi confini identitari. In tal senso, ritengo utile ripensare a un concetto che Michael Hardt e Antonio Negri presentano in “Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale”2020Michael Hardt, Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004.
. È proprio il concetto di moltitudine che potrebbe, infatti, diventare trasformativo se messo in confronto con l’intersezionalità che caratterizza le lotte in prospettiva transfemminista e queer. I due studiosi parlano di moltitudine come molteplicità sociale «che è in grado di comunicare e di agire in comune conservando le proprie differenze interne»2121Ivi, p. 9.
. A differenza del popolo, inteso come uno omogeneo, e della massa, come tutto indistinto, la moltitudine è intrinsecamente molteplice, composta di singolarità non riconducibili a un insieme unitario né uniforme, bensì immerse in una costitutiva relazione che consente loro di comunicare e agire insieme pur mantenendo le diverse specificità e, anzi, facendole dialogare o confliggere. Sono queste le soggettività che (ri)producono i queer commons; a questi ultimi la rivista «GLQ: A Journal of Lesbian and Gay» ha dedicato un intero numero, nel quale l’idea di beni comuni viene messa in connessione con l’intrinseca capacità del queer di immaginare, sperimentare e mettere in pratica delle soluzioni che consentano di gestire la componente di irregolarità della nostra contemporaneità.2222Gavin Butt, Nadja Millner-Larsen, The queer commons: introduction, in «GLQ: A Journal of Lesbian and Gay Studies», 24 (4), 2018, pp. 399-419.
La moltitudine è intrinsecamente molteplice
Spazio di cura oltre la (ri)produzione di saperi e affetti
Guardando, invece, all’occupazione come atto di cura nei confronti dello spazio e delle soggettività che lo attraversano, il Teatro Valle, nella sua peculiarità di luogo della cultura occupato, nonché di spazio di produzione di saperi, informazioni, ma anche di legami e affetti, ha messo in pratica un fare bene comune inteso anche come «un ecosistema di relazioni di reciproca dipendenza»2323Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 49.
che risignifica lo spazio in virtù delle relazioni di cura che in esso vengono intessute. Viene così a realizzarsi il riconoscimento dell’importanza della propria e altrui intimità, il rispetto di tempi di vita non rigidamente definiti e la disponibilità a lasciare emergere ciò che prospera al margine delle nostre vite frammentate.
Nonostante attraversiamo quotidianamente spazialità urbane immaginate e strutturate per escludere alcune soggettività,2424Cf. Leslie Kern, Feminist City, Claiming Space in a Man-Made World, Verso, London-New York, 2020, pp. 1-21.
ritengo che il Teatro Valle abbia dimostrato come nei luoghi della cultura occupati vengano inventati e agiti dei nuovi modi di occupare lo spazio che trasformano l’intima relazione che viviamo con esso. Se, da un lato, il desiderio ci permette di risignificare gli spazi e disegnare una nuova mappa della città, dall’altro lato, la cura, come suggerisce l’architetta Daniela Poli,
«Crea legame sociale e crea anche attenzione ai luoghi. Curare significa conoscere delicatamente, conoscere lentamente, momento dopo momento, significa ascoltare, guardare le reazioni dell’altro. […]. Curare i luoghi significa reimparare a conoscerli».2525Cf. Daniela Poli, Cartografie di genere. Disegnare il mondo con tratto di donna, in Belingardi, Castelli, cit.
Inoltre, è ancora possibile misurare quanto sia stata importante la dimensione affettiva (ri)prodotta negli anni dell’occupazione anche dai materiali fotografici ed editoriali conservati sul sito e sulla pagina Facebook del Teatro Valle; una sorta di archivio degli affetti liberamente consultabile e accessibile, a differenza di quanto avviene nei luoghi della cultura, nei quali l’accesso è sempre subordinato a una preliminare autorizzazione.
Ancora una volta appare chiaro come l’azione di rottura portata avanti attraverso le occupazioni dei luoghi della cultura2626L’occupazione del Teatro Valle si inserisce in un periodo di grandi rivendicazioni da parte di lavorat_ dello spettacolo e, più in generale, della cultura e del lavoro cognitivo. Tra gli anni 2011 e 2012, molte di queste lotte si sono coagulate intorno a occupazioni di teatri e altri luoghi della cultura: a Roma, nel quartiere San Lorenzo, il Nuovo Cinema Palazzo, occupato il 15 aprile 2011; a Venezia, il S.a.L.E. Docks, occupato nel 2007 e ottenuto in gestione dall_ occupanti nel 2012, e il Teatro Marinoni, occupato temporaneamente il 2 settembre 2011 da un gruppo di attivisti del S.a.L.E. e del Valle; a Catania, il Teatro Coppola, occupato il 16 dicembre 2011; a Napoli, La Balena – Asilo della Conoscenza e della Creatività (ex Asilo Filangieri), occupato il 2 marzo 2012; a Palermo, il Teatro Garibaldi, occupato e aperto il 13 aprile 2012; a Milano, MACAO, spazio culturale indipendente che nasce il 5 maggio 2012 dall’occupazione, da parte di un collettivo di lavorat_ della cultura e dello spettacolo, di Torre Galfa e, dopo lo sgombero, di Palazzo Citterio prima e dell’Ex Borsa del Macello di viale Molise poi; a Pisa, il Teatro Rossi, occupato e aperto il 27 settembre 2012.
quali teatri, cinema, scuole, riesca a trovare in un vuoto istituzionale una condizione di possibilità. Nonostante il Teatro Valle fosse collocato in un luogo privo di una comunità di riferimento di immediata prossimità, infatti, i legami connettivi che sono stati intessuti si sono propagati su una scala geografica, temporale ed emotiva reticolare e ampia,2727«Anche il concetto di comunità di riferimento viene vissuto in modo soggettivo e costantemente riconfigurato: la mancanza di un territorio circostante abitato, di una dimensione di quartiere e di una maglia di relazioni sociali vive tra gli abitanti, ha per certi versi amplificato l’effetto di propagazione territoriale». Cf. Chiara Belingardi, Ilenia Caleo, Federica Giardini, Isabella Pinto, Un teatro occupato e il diritto alla città, in Belingardi, Castelli, cit.
diventando produttivi anche per le riflessioni sullo stato di salute delle istituzioni culturali e sulle pratiche artistiche contemporanee.2828Cf. steirischer herbst, Florian Malzacher (a cura di), Truth is Concrete. A Handbook for Artistic Strategies in Real Politics, Sternberg Press, Berlin, 2014. Il volume, nel quale si trovano gli interventi della settimana di incontri e dibattiti tenutisi a Graz (Austria) nel settembre 2012 in occasione dello steirischer herbst festival, contiene contributi di studios_ che si interrogano su strategie artistiche concrete che consentano di adottare soluzioni creative nei contesti politici e sociali contemporanei.
L’occupazione come atto di cura nei confronti dello spazio e delle soggettività che lo attraversano
Epilogo di un’occupazione: fallimento queer
La parabola dell’occupazione del Valle si è conclusa l’11 agosto 2014, in seguito a un fallimentare tentativo di interlocuzione con le istituzioni e in una concitata evoluzione degli eventi di cui è impossibile restituire una narrazione univoca. Il rinnovo dell’amministrazione comunale nelle settimane precedenti l’11 agosto ha probabilmente accelerato la conclusione di un’esperienza che, nata in una stagione di fermento internazionale, stava andando incontro a un mutato scenario sociale e culturale.
Mentre dal Valle Occupato si proponeva di avviare un percorso su un modello gestionale partecipativo e di ripensare il rapporto stesso con le istituzioni come «politica delle relazioni» da praticare «fuori dalla subalternità», erano altri i modelli di “consumo” culturale che si stavano imponendo. Se, da un lato, vi era stato da parte delle istituzioni il riconoscimento del portato valoriale dell’occupazione soprattutto in merito alla riflessione sui beni comuni, dall’altro l’impegno ad aprire un tavolo di lavoro sul futuro dello spazio insieme al Teatro di Roma e alla Fondazione Teatro Valle Bene Comune è stato presto disatteso.
Dopo l’uscita dal Teatro dell_ occupanti come gesto di sfida2929Dalla quarta puntata del radiodocumentario pubblicato nella rubrica “Tre Soldi” di Rai Radio3, a cura di Graziano Graziani e Fabiana Carobolante.
agli attori istituzionali, nei mesi successivi a questa data è emerso un vero e proprio scontro tra concezioni diverse della cultura e dei modelli gestionali degli spazi culturali: un conflitto che non è stato possibile sciogliere nel superamento della dicotomia delle posizioni in un’ottica (ri)produttiva e trasformativa.
Per i/le attivist_ del Valle, il tema era soprattutto «come si gestisce un’istituzione partecipata in termini di diritti dei lavoratori dello spettacolo, di nuove forme di produzione culturale, di superamento dei monopoli sul diritto d’autore, di equa distribuzione delle risorse»3030Dal comunicato stampa del Teatro Valle Occupato, 11 agosto 2014, data ultima consultazione: 11/05/2022.
. L’orizzonte era quello di
«Autonomia e decisionalità diffusa; coinvolgimento attivo della comunità artistica e della cittadinanza; libertà di fruizione degli spazi anche al di fuori degli orari convenzionali; accessibilità economica alle attività; forme di lavoro cooperative e solidali; trasparenza riguardo i lavori di restauro e messa a norma».3131Dal comunicato stampa del Teatro Valle Occupato, 28 gennaio 2015, data ultima consultazione: 11/05/2022.
Un modo per mettere in atto, in definitiva, quel fare bene comune e quel fare altrimenti insieme artistico e politico, un progetto prefigurativo che, come suggerisce Valeria Graziano, porta avanti una lotta contro le stesse condizioni che lo rendono realizzabile e in modi che lo rendano politicamente rilevante oltre sé stesso.3232Cf. nota 15.
Questo epilogo rende, a mio parere, più evidente come ciò che è stato generato si sia propagato oltre il tempo e lo spazio dell’occupazione; il “fallimento”, interpretato al di fuori della retorica dell’eccellenza e del successo che permea la società neoliberale, si configura come un’esperienza che, al contrario, attraverso gli elementi problematici, gli errori e le cadute fornisce nuove chiavi di lettura per un presente in costante divenire.
Un’esperienza che fornisce nuove chiavi di lettura per un presente in costante divenire
Dispersione e frammentazione diventano parte del processo di occupazione simbolica e materiale dello spazio all’interno di una società che vorrebbe limitare, appiattire e depotenziare la presenza di corpi e soggettività fuori norma. Le pratiche costruite all’interno del Valle durante i tre anni di occupazione si muovevano con questa volontà di resistenza; il tentativo portato avanti è stato quello di sperimentare una collettività, aprire spazi diversi e decolonizzare il linguaggio. Questo ha sicuramente contribuito a sperimentare chi siamo e chi possiamo diventare, ma senza eliminare dall’orizzonte la possibilità del fallimento, che viene a configurarsi come un’esperienza significativa e un’occasione di trasformazione e impoteramento grazie alle lenti del pensiero queer. Come Jack Halberstam afferma in L’arte queer del fallimento,
«In determinate circostanze fallire, perdere, dimenticare, disfare, annullare, sfigurare, non sapere, possono essere modi di stare al mondo più creativi, più collaborativi e più sorprendenti. […] Il fallimento […] sebbene si accompagni a uno spettro di emozioni negative – delusione, disillusione, disperazione – fornisce anche l’opportunità di sfruttare queste emozioni per trovare delle falle nella positività tossica della vita odierna»3333Jack Halberstam, L’arte queer del fallimento, minimum fax, Roma, 2022, pp. 9-10.
.
Fuori dalla retorica del successo e dell’accumulazione per pochi, per la quale occorre ricordare il portato di impoverimento e umiliazione che sempre ne deriva per molte altre soggettività, il fallimento diventa non solo uno dei tanti possibili esiti delle nostre azioni, ma anche l’esperienza che, riletta come arte queer del fallimento, consente di immaginare «altri obiettivi nella vita, nell’amore, nell’arte, nel modo di stare al mondo».3434Ivi, p. 148.
Grazie alle pratiche artistiche sperimentate negli anni dell’occupazione del Valle e proprio in seguito al suo fallimento, le soggettività che hanno fatto bene comune si sono disperse come molecole portatrici di caos: pulviscolari, discontinue e, proprio per questo, capaci di stare negli ingranaggi e nelle pieghe delle nostre vite, esse generano movimenti improvvisi e imprevisti di corpi che insieme immaginano e fanno mondo.
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Valeria Palleschi si è formata in Storia dell'arte e in Studi e politiche di genere. Oggi è una lavoratrice del mondo della cultura. Come curatrice per MAAP - Atelier d’Arte Pubblica ha sviluppato progetti artistici sull'approccio empatico agli spazi e alle comunità che li abitano. La sua ricerca si muove tra testi, eventi e persone, indagando il rapporto tra spazio e pensiero queer nei luoghi della cultura occupati.
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Federica Castelli, Federica Giardini, Francesco Raparelli (a cura di), Conflitti. Filosofia e politica, Mondadori, Milano, 2020.
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Federica Giardini, Ugo Mattei, Rafael Spregelburd (a cura di), Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, DeriveApprodi, Roma, 2012.
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Valeria Graziano, Recreation at Stake, in Ana Vujanovic, Livia Andrea Piazza (a cura di), A Live Gathering: Performance and Politics in Contemporary Europe, b_books, Berlin, 2019.
Jack Halberstam, L’arte queer del fallimento, minimum fax, Roma, 2022.
Michael Hardt, Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano, 2004.
Leslie Kern, Feminist City, Claiming Space in a Man-Made World, Verso, London-New York, 2020.
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Chantal Mouffe, Art and Democracy. Art as an Agonistic Intervention in Public Space, «Open. Cahier on Art and the Public Domain», n. 14, 2008.
steirischer herbst, Florian Malzacher (a cura di), Truth is Concrete. A Handbook for Artistic Strategies in Real Politics, Sternberg Press, Berlin, 2014.
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