Con la video-esecuzione di James Foley del 19 agosto 2014, l’IS ha depositato il primo atto di guerra contro il mondo occidentale, mutando profondamente le tradizionali strategie di comunicazione sino a quel momento adoperate dai gruppi terroristici di matrice islamista. I cosiddetti beheading video, brevi filmati di propaganda in cui un ostaggio viene decapitato, non sono invenzione dello Stato Islamico, esistevano già nei primi anni 2000, resi noti dal terrorista giordano Abu Musab al-Zarqawi. Tuttavia l’IS è riuscito a codificare per questi filmati, tramite specifiche scelte formali e la particolare cura estetica che li contraddistingue, un vero e proprio genere con una sua struttura e le sue regole.
Se «il mondo-come-testo è stato sostituito dal mondo-come-immagine» (N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Booklet, Milano 2005, p. 35), osservando il mondo-immagine edificato dall’IS vedremo un sistema fortemente radicato nell’immaginario comune occidentale (in specie anglo-statunitense) e retto su un impianto tripartito che prevede:
1) la spettacolarizzazione della morte;
2) la deumanizzazione delle vittime;
3) la desensibilizzazione dello spettatore.
Tale sistema, di volta in volta perfezionato, risulta oggi di immediata riconoscibilità grazie anche a una serie di caratteri estetici seriali e ricorsivi che verranno di seguito messi in luce attraverso il campionamento e l’analisi di tre serie di filmati realizzati in un arco temporale compreso tra l’agosto 2014 e il dicembre 2015.
La saga di Jihadi John
Il primo tentativo di serializzazione dell’orrore su scala globale è costituito dal gruppo di video, distribuiti da Al Hayat Media Center, che tra l’agosto 2014 e il gennaio 2015 videro protagonisti Mohammed Emwazi – ribattezzato dai media Jihadi John – e le sue vittime.
Molti elementi comuni ricorrono in ognuno dei filmati, che insieme vanno a costituire quella che potremmo definire una ‘saga a episodi’. Innanzitutto, la lingua (inglese, con sottotitoli in arabo) dà precise indicazioni sulla destinazione geografica principale dei video (il pubblico occidentale), mentre la breve durata di ognuno (non più di 3 minuti, escluso il found footage) riduce il messaggio all’essenziale assicurandone l’immediata trasmissione.
Caratteristiche comuni sono poi la scelta del set (il deserto siriano) e la tipizzazione dei personaggi, che se da un lato polarizza le due identità di vittime e carnefice, rendendole immediatamente riconoscibili, dall’altro ne annulla i tratti che ne distinguono le personalità agendo su due aspetti che si rivelano fondamentali:
1) l’abbigliamento (arancione per le vittime, con una chiara allusione ai prigionieri di Guantánamo e Abu Ghraib, e nero per il boia);
2) l’espressione comportamentale (le psicologie di vittime e carnefice sono appiattite, e nelle prime manca ciò che O. Ponte di Pino ha definito «l’eccesso del corpo»: in altre parole, i condannati a morte si mostrano apatici, non si ribellano né provano a fuggire, anzi, sembrano quasi collaborare).
Infine, a uniformare la serie contribuisce persino la struttura generale delle sequenze narratologiche: ciascun video ha infatti inizio da una parentesi discorsiva, fatta di recriminazioni e minacce contro le Nazioni occidentali che combattono lo Stato Islamico; segue il momento cruciale dell’esecuzione del condannato con la conseguente esposizione della salma decollata; chiude infine l’ammonimento conclusivo del boia, che svela l’identità della prossima vittima rimettendone il destino nelle mani delle nazioni nemiche. Evinciamo l’aspetto seriale di questi filmati in alcune precise formule linguistiche: «I’m back, Obama» è la frase d’esordio con cui Jihadi John si presenta nel secondo episodio di questa serie (la video-esecuzione di Steven Sotloff), e ancora più emblematica è la formula che utilizza, sempre in riferimento a Sotloff ma in chiusura del primo filmato, dopo aver ucciso James Foley: «The life of this american citizen, Obama, depends on your next decision».
In questi video, tutto ciò che resta di Mohammed Emwazi è annesso e cristallizzato nel monolitico personaggio di Jihadi John, che a sua volta ci si presenta come l’incarnazione, trasposta nella realtà, di quel sistema di valori e di quei codici d’espressione che contraddistinguono i villains del cinema occidentale. Tutto, a partire dall’attitudine sino al coltello rambesco dalla lama leggermente incurvata che ricorda, come ha notato Ballardini, «la scimitarra, simbolo dei guerrieri musulmani» (B. Ballardini, ISIS®. Il marketing dell’Apocalisse, Baldini&Castoldi, Milano 2015), inquadra il suo personaggio all’interno di uno stereotipo a cui gli è impossibile sottrarsi. Ancora una volta, assistiamo a un male vagamente in odore di banalità.
l’IS utilizza i simboli della nostra cultura mainstream per ricontestualizzarli, facendoli propri
Tuttavia, nel più ampio quadro delle strategie di comunicazione del terrorismo, questi video vedono, come detto, un significativo rinnovamento nelle modalità e negli strumenti. Dei video-proclami in VHS di Al Qaida, con le immagini sgranate, l’audio in differita, l’inquadratura fissa e un set ‘di fortuna’ non è rimasto nulla. Allo sgraziato uomo di mezza età che sbraitava contro la macchina da presa, l’IS ha contrapposto l’immagine trionfalistica di un giovane eroe (o anti-eroe) seducente e cool, e sebbene la coolness appartenga più ai personaggi dei video successivi che non specificamente a Jihadi John, siamo comunque in grado di scorgere, in uno degli ultimi video che lo vede protagonista, i prodromi di questa generale cura estetica che verrà a configurarsi sempre più come la cifra stilistica del ‘cinema’ della jihad. Il video in questione è quello dell’esecuzione di 21 soldati siriani nei pressi di Dabiq, vicino al confine turco.
Le riprese statiche dei video precedenti sono qui sostituite da inquadrature dinamiche, lavorate in postproduzione con effetti di slow e speed motion che aumentano la suspense strizzando l’occhio agli action movie statunitensi. L’azione ha inizio con la lunga processione dei condannati, scortati dai propri carcerieri entrati in scena con le uniformi militari e a volto scoperto. Un personaggio vestito di nero, che non tardiamo a identificare con Jihadi John, apre la lunga fila. A turno, ciascun miliziano impugna un coltello prelevato da una scatola – un oggetto di scena che attribuisce maggiore solennità al sacrificio –, accompagnato da una colonna sonora (il nasheed) disturbata da suoni metallici di lame sguainate. Mentre Jihadi John rivolge la sua invettiva agli Stati Uniti, gli altri miliziani restano in posa davanti alla camera, con un’attitudine simil-squad. A questo punto segue un tempo d’attesa di circa un minuto, fatto di silenzi e restringimenti di campo sui volti rassegnati delle vittime e sulla mano di un impaziente miliziano che agita il coltello tra le dita. L’effetto di climax raggiunge il parossismo nel momento conclusivo dell’esecuzione: il sangue, che sgorga da ogni parte impregnando il terreno, risparmia inverosimilmente le uniformi dei miliziani, rimaste intonse nella scena finale che mostra i cadaveri delle vittime. Più che davanti alla testimonianza di un sacrificio, siamo di fronte a una sua messa in scena, il cui effetto di realtà è ottenuto seguendo i princìpi, ricalcati sul modello occidentale, della rappresentazione e della fiction.
La morte di Mohammed Emwazi – avvenuta il 12 novembre 2015 – non sottrarrà affatto all’immaginario comune occidentale il personaggio di Jihadi John, che anzi vi si fisserà ancor di più nel momento in cui, a inizio gennaio 2016, sarà diffusa dai principali media occidentali la notizia di un erede di Jihadi John (e non di Emwazi, si badi bene), in riferimento alla video-esecuzione di 5 presunte spie britanniche.
Nei filmati successivi a quelli che compongono la saga di Jihadi John, i legami con la cultura mainstream dell’Occidente si faranno via via più evidenti, e l’immagine autocelebrativa con cui l’IS si presenterà al mondo reggerà sempre più su un ricco sistema di riferimenti anglo-statunitensi, comprendenti cinema, musica e videogame. Seguendo un meccanismo che potremmo definire di ‘sostituzione per appropriazione’, l’IS utilizza i simboli della nostra cultura mainstream per ricontestualizzarli, facendoli propri, e utilizzarli come arma di propaganda.
Harverst of the Spies #1 #2 #3
Tre filmati, realizzati tra maggio e ottobre 2015, mostrano le esecuzioni di alcune presunte spie. A partire dal titolo, i video definiscono una trilogia, che svela, all’interno di ogni capitolo, precisi caratteri di serialità.
Innanzitutto, ciascuna esecuzione è preceduta da un’intervista alla vittima, che sembra mimare, grazie al lavoro di postproduzione, la live-action cutscene di un videogame, la sequenza narrativa in cui ricaviamo informazioni sull’identità di un personaggio e la storia. Ai primi piani dell’intervista, segue il momento concitato dell’azione, che può svolgersi nella penombra di un edificio industriale, o in aperta campagna.
I miliziani si muovono su auto di grossa cilindrata, con il marchio Toyota ben in vista come nei più comuni spot televisivi, ostentando un atteggiamento gangsta che richiama (parodiandola inconsapevolmente) la cultura hip hop. Come i loro carnefici, anche qui le vittime risultano tipizzate, secondo schemi già rodati: su di loro la consueta uniforme arancione le raggruppa spersonalizzandole, i polsi e le caviglie sono legati per marcare il loro stato di impotenza, e la postura in ginocchio ne indica la piena sottomissione. La suspense è ottenuta, come da manuale, con una sequenza di primi piani sui volti e le armi presenti in scena, sino al momento clou in cui la vittima, con un colpo d’arma da fuoco o una grossa lama, viene uccisa.
Rispetto alla ‘saga’ precedente, tra i nuovi espedienti narrativi è interessante segnalare quello che, all’inizio del terzo episodio, ci fornisce alcune anticipazioni su ciò che andremo di lì a poco a vedere: si tratta di una prolessi (o flashforward), enfatizzata tramite effetto notte, in cui viene prefigurato l’istante della fucilazione delle quattro spie, che verrà riproposto, alla fine del filmato, ben tre volte (una successione di tre riprese: frontale, laterale, di nuovo frontale ma con un filtro seppia), terminando con l’inquadratura conclusiva di un anfibio immerso nel sangue.
L’intensa connotazione simbolica di una simile offesa – l’omicida che calpesta il sangue della propria vittima – si spiega con la constatazione che la ricerca, da parte dell’IS, dell’immagine più eclatante e spettacolare passa inevitabilmente per l’umiliazione e annientamento del corpo. Spettacolarizzando la morte, l’IS ha codificato, rendendolo mainstream, il genere leggendario dello snuff movie. In ogni video non importa tanto che la vittima muoia, ma come: una suggestiva costa libica ha fatto da sfondo alla decollazione di 21 cristiani copti; un pilota giordano, tenuto chiuso in gabbia, è morto divorato dalle fiamme dopo una lunga agonia, mentre quattro ostaggi, in gabbia anche loro, venivano calati nel fondale di una piscina per essere ripresi durante l’annegamento; un uomo ha trovato la morte schiacciato da un tank, un altro dopo essere stato trascinato a lungo sull’asfalto da un furgone; su una collina, dieci presunte spie sono state fatte saltare in aria scatenando una pioggia di resti umani, mentre dei prigionieri venivano incaprettati su un’altalena per essere arsi vivi.
Il vasto repertorio delle modalità omicide dell’IS si riassume pertanto in un solo comune denominatore che prevede la deumanizzazione della vittima, ridotta a oggetto inerte di uno spettacolo reso possibile da una strumentazione tecnologica all’avanguardia e una capacità di trasmissione capillare offerta dai nuovi media. Con «deumanizzazione» s’intende, come spiega C. Volpato, «la negazione dell’umanità, un processo che introduce un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato carente». Deumanizzare la vittima significa pertanto negarne l’identità, sottrarle le proprietà che la definiscono come persona.
To the Sons of Jews
Il video, di circa 14 minuti e risalente al 3 dicembre 2015, parte da una sequenza di immagini dei due bersagli che stavolta l’IS intende colpire: Israele e il suo Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Con una sorta di mise en abyme, osserviamo un miliziano jihadista – il cui volto non è inquadrato, ma si tratta presumibilmente di un ragazzino – inserire su Facebook la video-esecuzione a cui tra pochi istanti assisteremo. Finito il buffering, il video può cominciare. Adesso ci troviamo catapultati nel Governatorato di Deir el-Zor. Una classe di ragazzi di non più di dieci o dodici anni è intenta a leggere e studiare il Corano in uno sfondo desertico. Un adulto fa loro da precettore e trainer, accompagnandoli nella lettura del testo sacro e addestrandoli alle arti marziali. Come prova di lealtà nei confronti del Califfato, sei giovani studenti sono scelti per superare un test. L’esame consiste nella ricerca e conseguente uccisione di sei presunte spie tenute prigioniere tra le antiche rovine del castello di al-Rahba.
Dopo alcune affascinanti riprese aeree della roccaforte, la missione dei giovani guerrieri ha inizio, e l’ambientazione assume i contorni fantastici di un videogame, con la visuale d’azione di un TPS (Third-Person Shooter) e il clima di suspense e attesa di un Reverse Survival Horror. Percorrendo il fitto e buio reticolo di corridoi e cunicoli, ciascuno va a caccia del suo obiettivo. Le vittime sono disarmate e rese del tutto inoffensive: hanno polsi e caviglie legate. I luoghi in cui si nascondono hanno una forte valenza simbolica: sono spazi angusti, oscuri, piccole intercapedini di difficile accesso, tutto un mondo del sottosuolo a cui appartengono i ratti, gli insetti e, naturalmente, i morti. Il momento in cui il carnefice incontra la propria vittima è scandito da un’analessi: alla scena principale è sovrapposto un breve video, girato in precedenza, in cui la vittima svela la sua identità. Non si profila alcuna via di scampo per i prigionieri, che vengono fatti fuori uno a uno, ripresi nei loro ultimi istanti di vita in uno stato di semi-incoscienza scandito da rantoli. Portata a termine la missione, ciascun miliziano torna al punto da cui è partito e passa il testimone (pistola e balaklava) al prossimo imminente omicida. La caccia all’uomo è riaperta.
Tale schema si riflette sull’intera narrazione, eccetto che per l’epilogo, in cui si ha l’introduzione di una variante: la morte per arma da fuoco è infatti qui sostituita da quella per arma da taglio. Al grido di «Allah Akbar», un ragazzino, che dimostra un’età persino inferiore rispetto ai suoi giovani colleghi, recide in slow motion la gola della propria vittima, con un contatto fisico diretto tra i due che rende ancor più macabra la scena. Il più giovane guerriero dell’IS sa essere anche il più crudele ed efferato assassino.
In questa serie di video-esecuzioni a essere celebrato è il trionfo della morte. In esse siamo in grado di scorgere quello scarso senso di attaccamento alla vita che caratterizza la cultura jihadista e la distanzia dalla nostra occidentale, per cui il concetto di esistenza è tradizionalmente sacro e inviolabile. Ciò nonostante, a ben guardarle nel loro insieme, le immagini cruente di questi video sono immagini dimidiate del dolore e in cui è possibile percepire una rapida erosione del senso di realtà. L’IS ci ha abituati all’orrore in HD, mettendoci di fronte a dei codici linguistici che nella nostra società rappresentano realtà fittizie (appunto il cinema, i videogiochi, ecc.). Le sue immagini edulcorate e avvincenti sono costole del nostro comune immaginario occidentale, e per un meccanismo che può apparire perverso esse ci mortificano come uomini ma ci appagano da spettatori. Come ha notato Ponte di Pino, «per scegliere il supplizio più spettacolare, l’IS adotta lo stesso metodo usato dai produttori cinematografici, e soprattutto dagli autori di fan fiction: assecondare le aspettative del pubblico, chiedendo l’aiuto degli spettatori per scrivere il finale della storia».
Più l’immagine è verosimile, maggiore è lo shock. Uno degli elementi che più distingue le immagini dell’IS da quelle di Auschwitz o Abu Grahib è senza dubbio l’intenzionalità. Le seconde valgono come testimonianze storiche, che creano scandalo nello spettatore nel momento in cui ne entra in possesso perché cosciente di avere tra le mani qualcosa che in origine non era destinato a sé. Ci siamo indignati di fronte alle fotografie delle vittime, anch’esse deumanizzate, di Abu Grahib, ma davanti ai video dell’IS è inevitabile essere colti come da un senso di amara incredulità. La propaganda jihadista dell’orrore passa irrimediabilmente per la desensibilizzazione dello spettatore. Come sostiene E. Ferrari, «se la fotografia gode di un rapporto consustanziale con il reale, l’esposizione prolungata alle fotografie comporta una de-realizzazione dell’esperienza del mondo che diminuisce la nostra capacità di interagire con esso. La visione abituale dell’orribile ci anestetizza e ci paralizza: abituati a vederlo nell’immagine non sappiamo più reagire a esso nella realtà».
Uno degli effetti più spaventosi di questa gigantesca narrazione autorappresentativa e mistificante del reale è proprio l’assuefazione progressiva che essa genera in chi la osserva. L’IS, per esistere, ha bisogno che attori e pubblico della sua propaganda oscillino tra una condizione di apatia e un inesorabile stato di inerzia. La sua forza sta nel pietrificarci con gli occhi incollati agli schermi, come un’autentica e rediviva Medusa del mondo contemporaneo, per sapere cosa accadrà nell’“episodio” successivo.
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Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
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KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.