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Il mito della patria nel linguaggio dello sport, del video e della performance art
Magazine, MITO - Part I - Aprile 2019
Tempo di lettura: 17 min
Giulia Trojano

Il mito della patria nel linguaggio dello sport, del video e della performance art

Il patriottismo nel mondo dello sport e il caso di “Giochi senza frontiere”. Il video come strumento di propaganda nativista durante la presidenza Trump. “Temporary Orders”, la prima performance di Public Movement in Italia. Per un nuovo mito della patria contro i miti nazionali e neoimperialisti nell’era della globalizzazione.

Nathaniel Mellors, Erkka Nissinen, The Aalto Natives, 2017, frame da video.

 

Il mito della patria

Il risorgere di slogan populisti, di partiti che alimentano pensieri nazionalisti e promettono all’elettorato un ritorno in auge della patria, della cultura “pura”, non contaminata dall’ingresso degli “altri”; la retorica della competizione, della non cooperazione, la voglia di sovranità assoluta, il desiderio per certi versi banale di sentirsi migliori a scapito d’altri (socialmente, politicamente, economicamente ecc.): queste e altre peculiarità e attitudini concorrono attualmente a definire le fondamenta della nostra epoca.

La patria promessa, la concezione di nazione, di “identità nazionale”, diviene un mito, una stella da inseguire per accedere a una realtà più pulita, nitida e depurata. Ma esattamente di che cosa stiamo parlando quando parliamo di patria, e di cosa invece quando parliamo di nazione?

Sebbene si pensi spesso che la sua etimologia sia da ricercare nel sostantivo latino “pater”, in realtà “patria” deriva dall’aggettivo “patrius, patria, patrium” (sottointendendo i sostantivi “terra, terrae” o “tellus, telluris”). Tra la patria e la terra sembra pertanto esservi istituito all’origine come un profondo legame, la stessa terra da cui provengono le proprie radici. Tuttavia, se ancora per le popolazioni nomadi il patriottismo – ovvero l’amor di patria – si manifestava prevalentemente come attaccamento al proprio nucleo familiare, successivamente all’invenzione ed espansione dell’agricoltura riusciamo a scorgere ciò che potremmo definire come una sorta di senso di orgoglio e territorialità nei confronti della terra. Le città-stato greche, e poi Roma, ci conducono invece a una specifica forma di patriottismo di tipo imperialistico, in cui l’amore per la patria è tanto forte da desiderare di vederla più stabile e potente nei confronti di possibili attacchi e minacce stranieri. In San Tommaso il legame con la patria è sacro, e nei suoi riguardi occorre portare pietas – rispetto, devozione – attraverso un riguardo per la lingua, l’ambiente, la tradizione culturale (cultus) e i doveri civici (officium). In seguito, con lo sviluppo dei comuni in età medievale, il sentimento patriottico si parcellizza nelle numerose nuove piccole patrie (città e stati regionali) governate da re o signori, allo scopo di esaltarne la grandezza dinastica e il buon governo. Tendenza, questa, che si potrae anche con la nascita dei veri e propri Stati-nazione e l’instaurarsi delle monarchie nazionali. Con la progressiva espansione del potere statale, il mito della patria inizia così a esprimere specifici attributi etnici, linguistici, spirituali e religiosi, sino ad arrivare, nel corso del ’900, alla completa esasperazione di tali tendenze con il decisivo affermarsi di dittature di stampo nazionalista e xenofobo. È in questa congiuntura storica che la fisionomia strutturale del “patriottismo” viene sempre più a connotarsi di sentimenti pericolosamente sciovinisti e avversi a tutto ciò che viene percepito ed etichettato come “altro”, “straniero”. E dopo il crollo dei nazionalismi d’Occidente, concomitante alla fine della Seconda guerra mondiale, e l’espansione della democrazia nei principali paesi del Vecchio mondo, oggi, in questi ultimi decenni di guerre e conflitti armati combattuti nei Paesi “altri”, assistiamo di nuovo a un ritorno, negli Stati occidentali, di quel medesimo patriottismo di matrice neonazionalista che nulla più ha a che vedere con le originarie sfumature etimologiche che lo caratterizzavano.

Oggi, così come ieri, i miti della patria, della nazione e delle origini si configurano come potenti strumenti persuasivi“…i miti della patria, della nazione e delle origini si configurano come potenti strumenti persuasivi” che, se manipolati, costituiscono una grave minaccia a causa della loro pervasività mediatica e propagandistica. Nel linguaggio comune e in quello della politica, “patriottismo” e “nazionalismo” presentano pertanto confini labili difficili da discernere. Per questa ragione, i due motivi – il mito della patria e quello della nazione – verranno analizzati sotto una diversa lente che prende in causa lo sport, il video e la performance art.

Il conduttore televisivo Giulio Marchetti presenta il File rouge di “Giochi senza frontiere”, 1977, Marina di Carrara (TECHE, Rai).

 

Lo sport tra il ludico e il proto-nazionalismo

Lo sport si presta in modo particolare a catturare il confine sottile tra patriottismo – qui inteso come sostegno e devozione per i propri sportivi – e nazionalismo. Se nell’antichità greca gare e competizioni tra atleti erano intraprese come gesti eroici in onore degli dei dell’Olimpo, oggi – quando il culto della nazione e della patria prevale, nell’epoca della secolarizzazione, su quello religioso – esse divengono un’ulteriore campo di guerra in cui esporre il dominio di una nazione attraverso un display di “soft-power”. Basti pensare ai centri sportivi degli atleti cinesi e ai sistemi estremi impiegati per assicurarne la vittoria olimpica, nonché agli ingenti fondi stanziati. Gli atleti competono per la gloria nazionale e, nonostante il sentimento che li muova sia più o meno puro e genuino, l’insieme di pressioni sociali e politiche che vengono messe in campo può facilmente sfociare in una forma di vero e proprio odio per l’avversario (come attesta, nel calcio, il diffuso fenomeno degli hooligans).

Presenti in campo non vi sono soltanto gli atleti, mossi da un prevedibile spirito di competizione e dal desiderio di vincere l’avversario, ma un complesso di forze sociali e politiche che riflettono vere e proprie lotte per la sovranità, espressioni di conflitti diplomatici e un desiderio viscerale di mostrare al mondo che la propria nazione è la più forte, la più determinata, potente e influente, tanto da investire tempo e fondi in un aspetto della vita che solo apparentemente ha a che fare con il gioco e il divertissement.

Fantoccio e striscione razzisti esposti il 28 aprile 1996 dagli ultrà del Verona (Omega – fonte Corriere della Sera).

A tal proposito, esemplificativo è il caso dell’Arabia Saudita, che continua a partecipare e ospitare grandi eventi sportivi allo scopo di mitizzare la propria immagine a livello nazionale e internazionale, come del resto suggeriscono le stesse parole attraverso cui presenta le iniziative sportive in cui è coinvolta: «Il pubblico Saudita è stato molto accogliente nel condividere l’amore per la propria nazione tramite gli eventi [sportivi]».22R. F. Alaquil, Sports helping to boost the Kingdom’s soft power, «Arab News», 17 Jan. 2019.

Analizzato in quest’ottica, il linguaggio performativo dello sport aiuta pertanto a espandere e far permeare il mito della patria. La disciplina, il rigore e i duri allenamenti contribuiscono così a delineare una dimensione estetica che facilmente ricorda quella militare.

Ritornando al caso della Cina, è ormai noto il Progetto 119, un programma di allenamenti intensivi cominciato nel 2002 con l’intento di formare atleti pienamente in grado di vincere medaglie d’oro in sport quali il nuoto o l’atletica. Ancor più significativo è il modo in cui sono trattati gli atleti non vincitori, ostracizzati dai media cinesi, pronti a scusarsi pubblicamente per aver disonorato la terra madre e abbandonati a loro stessi. Impegnati ad allenarsi duramente, questi atleti rinunciano di fatto a una formazione professionale standard, trovandosi, alla fine del loro percorso, senza alcuno stipendio e con una pensione minima di $150 al mese. È stato appurato che molti di loro si trovano oggi costretti a rubare o comunque a vivere in condizioni di povertà assoluta, con famiglie a carico.33L. Timm, Abandoned by the State, Former Chinese Athletes Stuggle After Sports, «The Epoch Times», 3 Aug. 2016.
In questo caso gli atleti, considerati alla stregua di parti meccaniche facilmente sostituibili in caso di fallimento, vengono relegati ai margini della società poiché non riescono a ottenere l’oggetto del trionfo – in questo caso la medaglia olimpica, il trofeo e, di conseguenza, l’onore della terra madre.

il mito della patria è in grado di affrancarsi dalla semplicistica associazione ai nazionalismi estremi.

Presentata recentemente al pubblico italiano al Centro Pecci in una mostra a cura di Marta Papini, l’opera di Aleksandra Mir, Triumph, fa scaturire nell’osservatore una riflessione ironica sul valore stesso dei trofei. Le 2.529 coppe abbaglianti, raccolte dall’artista attraverso un annuncio sul «Giornale di Sicilia» in cambio di 5€ l’una, rappresentano ormai dei veri e propri cimeli, reliquie i cui eredi sono ormai sin troppo alieni dal sudore e dalla fatica dell’atleta che li ha conquistati. Immergendosi tra i trofei sparpagliati e accantonati – alcuni di questi vinti in gare amatoriali dai titoli come «Ma cu m’u fici fari!!!» –, l’aspetto funereo e nostalgico che prevale a primo impatto viene gradualmente rimpiazzato da un vivace spirito di leggerezza, che consente al fruitore di apprezzare le gare sportive per il loro mero aspetto ludico.

Ed è proprio grazie a tale aspetto che il mito della patria, attraverso il linguaggio performativo dello sport, è in grado di affrancarsi dalla semplicistica associazione ai nazionalismi estremi e ai consueti cori che incitano all’odio e a una netta polarizzazione, offrendosi pertanto come contraltare alle immagini barbariche di ultras pronti ad agire violentemente in nome di una squadra (di una nazione, di un ideale) e ad atleti per certi versi costretti a doparsi per non deludere le aspettative della nazione. È proprio all’interno di questo solco che si inserisce Giochi senza frontiere.

Nel 1965, l’Europa si diede un’opportunità per ricostruire la propria storia – il proprio mito – attraverso il gioco. Charles de Gaulle, Adenauer, il giornalista politico Zitrone e il presentatore francese Lux si incontrarono per pianificare un campionato di giochi a squadre che coinvolgesse gli stati europei e fosse trasmesso in Eurovisione. I Giochi senza frontiere nacquero sulla base dei Trattati di Roma, ed Enzo Tortora, riportando le considerazioni di De Gaulle, disse: «Egli pensa che la carica di passione sprigionata da questi giochi semplici e popolari possa giovare a un legame europeo, che questi incontri a livello “provinciale” serviranno a una conoscenza reciproca più intima, più immediata, più vera. Giungeranno, insomma, a farci capire che, in fondo, di qua e al di là delle frontiere, siamo molto più vicini e simili – vizi e virtù – di quanto non sospettassimo».44F. Ariaudo, E. De Donno, L. Pucci, Sportification: Eurovisions, Performativity, And Playgrounds, Viaindustriae, Foligno, 2017, p. 110.

I Giochi senza frontiere ebbero un enorme successo e coinvolsero numerosissimi paesi europei. Al contrario delle gare olimpiche o delle partite tra nazionali, sebbene vi sia il medesimo desiderio di vittoria, l’amore per il proprio comune, per la propria squadra e nazione è qui legato più a una voglia di conoscere il resto dell’Europa e di farsi conoscere attraverso la condivisione e la cooperazione.

Similmente, nel 1995, il Sudafrica ospitò la coppa mondiale di rugby. In tale occasione, Mandela utilizza l’evento per mostrare alla propria nazione e al mondo intero che il Sudafrica si trova in fase di integrazione tra etnie diverse – il rugby non è più uno sport prevalentemente “bianco”, ma è uno sport nazionale. Il Sudafrica vinse il campionato promuovendo in questo modo un nuovo mito della patria – una patria unita e riconciliatoria.55H. M. Nygard, S. Gates, Soft power at home and abroad: Sport diplomacy, politics and peace-building, «International Area Studies Review», 16, 3, 2013, pp. 235-243.

Riassumendo, esibito tramite il linguaggio dello sport, il mito della patria può pertanto essere da un lato soggetto a forme di estremo nazionalismo, con la vera e propria consacrazione di atleti a nuovi eroi, l’ostracismo sociale dei perdenti e un pubblico di ultras che incita all’odio e al disprezzo. Dall’altro, invece, lo stesso linguaggio sportivo svela tuttavia, nella materialità per certi versi futile dei suoi simboli (per esempio, i trofei), una sua leggerezza intrinseca, un aspetto meramente ludico che consente alle nazioni di incontrarsi, gareggiare in modo salubre e offrire – come proprio mito nazionale – una storia sportiva fondata sull’amore per la propria squadra e sul rispetto (e non l’odio) per l’avversario.

 

Il mito nazionale in versione commestibile e digeribile

Il linguaggio sportivo ha una duplice natura, che da un lato si manifesta direttamente nel gioco sul campo, mentre dall’altro si esprime tramite il commento televisivo che, attraverso il video, si concentra spesso sugli elementi più estremi e spettacolari e meno sportivi. È proprio attraverso il linguaggio performativo del video e della televisione che il mito della patria è più esposto al rischio di manipolazione e corruzione.

Immagine tratta da “Giochi senza frontiere”, Trento, 1998.

Il format video si presta infatti facilmente alla divulgazione dei miti nazionali: è recente il caso di Stop the caravan (2018), uno spot propagandistico della durata di 30 secondi, diffuso dall’entourage politico del presidente Trump, in cui in toni apocalittici viene presentata la pericolosa invasione degli Stati Uniti a opera degli immigrati messicani. È interessante notare che il suddetto spot sia stato mandato in onda proprio durante una delle più seguite trasmissioni televisive di football americano su NBC.66M. M. Grynbaum, N. Chomsky, Even Fox News Stops Running Trump Caravan Ad Criticized as Racist, 5 Nov. 2011.

Il ruolo del nativismo diviene particolarmente importante nella divulgazione del mito nazionale tramite video e televisione. La retorica nativista presente nel populismo di estrema destra tenta di creare un legame tra la geografia nazionale e gli abitanti “originari”, “indigeni”. In Russia troviamo l’esempio di Alexander Dugin, che ha rivitalizzato un patriottismo nativista fondato sulla tradizione euroasiatica che rifiuta il progetto di globalizzazione liberale e i princìpi fondamentali delle democrazie europee. Anche Marine Le Pen, in Francia, ha fondato il proprio manifesto politico sul richiamo dei “francesi indigeni”;77S. Trüby, Para-Platforms Symposium (25 November 2017), riprodotto in M. Miessen & Z. Ritts (a cura di) Para-Platforms: On the Spatial Politics of Right-Wing Populism, Sternberg Press, Berlin, 2018, pp. 43-44.
 sulla scia delle teorie complottiste sul cosiddetto “genocidio bianco”, Renaud Camus, sostenitore di Le Pen, nel Grand Replacement critica proprio l’immigrazione araba in Francia dal Medio Oriente e dal Nordafrica poiché minaccerebbe di “mutare” la nazione e la sua cultura permanentemente, attraverso una vera e propria sostituzione etnica.88Ibid., pp. 102-103.

In questi casi appena citati, la creazione del mito nazionale si fonda sul presupposto di una comunità originaria indigena interna alla nazione, che deve oggi proteggersi e difendersi dalle invasioni dell’“altro”. In termini numerici, le “invasioni” sono solo fittizie (così come l’“indigenità” di un popolo, dato il carattere specificamente migratorio delle popolazioni umane), ma per rendere la minaccia vera e reale è necessario visualizzarla, ed è a tale scopo che l’utilizzo del video diviene qui strumento essenziale.

Attraverso l’installazione The Aalto Natives, presentata in occasione della 57° Biennale di Venezia, gli artisti Nathaniel Mellors ed Erkka Nissinen presentano una serie di shorts, della durata complessiva di un’ora, in cui viene esplorata la creazione di caratteristiche e di miti nazionali in Finlandia. Protagonisti sono due alieni – Geb e Atum –, una scatola di cartone e un uovo, i quali fanno ritorno in un luogo che hanno creato milioni di anni prima – appunto la Finlandia –, per esplorarne e comprenderne la cultura che nel frattempo vi si è sviluppata. L’opera tenta di svelare alcuni stereotipi finlandesi, facendo leva su ciò che può considerarsi realmente o meno “nativo” alla Finlandia.99T. Jeffreys, The Aalto Natives: an interview with Erkka Nissinen and Nathanial Mellors, Frame Contemporary Art.
Il risultato è una narrazione assurda, piena di paradossi e che illustra al meglio quanto sia illogico tentare di distillare la cultura pura e indigena all’interno di una nazione. Mellors afferma in proposito: «Tutte queste cose (creazione e miti di identità nazionali) riguardano semplicemente persone che generano storie per divertire e manipolare altri».1010N. Mellors: «All of these things (creation and national identity myths) are just about people generating little stories to entertain and manipulate people», da https://vimeo.com/218913159.

Frame da “Stop the caravan” (2018), spot propagandistico razzista diffuso dall_entourage politico del presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump e trasmesso su NBC

La complessità di caratteristiche e peculiarità eterogenee di ciò che possiamo definire come “cultura nazionale” – risultato di una progressiva stratificazione di migrazioni e contatti tra diversi popoli e culture – è oggi ridotta al minimo a favore di un’estetica e un linguaggio sempre più semplicistici e quindi digeribili per le grandi masse, in linea con le attuali tendenze populiste schierate contro i “tecnocrati” e contraddistinte da slogan semplici e memorabili. Prendendo ancora a esempio Donald Trump, notiamo facilmente come il suo vocabolario politico sia costituito da coppie di termini in grado di dividere il mondo in fazioni nitide, azzerando di fatto tutto quello spettro di significati che vi è tra good e bad, tra winner e looser o tra greatest e failure.

Questo restringimento di significato a livello dicotomico viene ancor meglio esemplificato in tutta l’estetica del linguaggio visuale, quindi non solo in video e pubblicità, ma anche, per esempio, nei siti web realizzati a sostegno di candidati politici particolarmente attenti al mito della patria, in cui riscontriamo immagini eroiche, con stemmi e bandiere nazionali, colori riconducibili appunto alla patria e un’attenzione particolare per l’immagine del candidato, spesso messa in risalto in primo piano su uno sfondo sfocato, proprio per far percepire al fruitore un “contatto diretto” con l’individuo.1111K. Renner, Template Culture: Parameters of Political Design Themes for the Internet, in Miessen & Ritts, cit., p. 134.

Se da un lato il linguaggio visuale e quello performativo, come abbiamo visto, possono essere impiegati allo scopo di veicolare una retorica nativista caratterizzata dall’odio razziale e dal mito di una cultura indigena “pura”, dall’altro essi possono essere utilizzati per l’esatto opposto, ossia per contrastare l’affermarsi di simili estremismi, pur conservando un legame salubre e virtuoso con il mito della patria.

Public Movement, Temporary Orders, installation view, courtesy Public Movement and Vistamarestudio Milano, photo Filippo Armellin.

 

La forza della patria in una scatola vuota

Temporary Orders è il titolo di una performance presentata nel 2018 dal gruppo diretto da Dana Yahalomi, Public Movement, presso Vistamarestudio (Milano). In tale occasione, i membri del gruppo hanno ricercato e studiato la storia di opere d’arte prodotte in Italia tra 1909 e ’45 e trafugate, distrutte o perse durante la Seconda guerra mondiale. I performer hanno quindi guidato i visitatori all’interno dello spazio, sussurrando vicende storiche, personificando le opere e mostrando, attraverso intervalli di coreografie, il percorso intrapreso dalle stesse.

Solitamente Public Movement si esibisce all’interno di musei la cui storia e rilevanza culturale è impossibile da scindere dal contesto in cui si svolge la performance. Nel caso invece di Temporary Orders, il luogo deputato alla performance è una galleria commerciale, che per l’occasione è stata del tutto svuotata, lasciando le pareti completamente bianche, come potenziali fogli di carta su cui trascrivere metaforicamente la storia di un mito nazionale. All’interno del white cube, l’intensità emotiva suggerita dalla perdita di un patrimonio artistico e culturale nazionale diviene pertanto tangibile. La coreografia, il linguaggio della performance, «che rende concreto ciò che è effimero» e «non lascia tracce ma solo attività»,1212Ariaudo, De Donno, Pucci, cit., p. 140.
si rivela pertanto in grado di catturare le nuances date dal mito della patria – un mito in questo caso fondato sul patrimonio artistico.

Questo caso ci porta a sviluppare un ragionamento ulteriore, che riguarda le caratteristiche specifiche di un prodotto culturale che possa essere in qualche modo considerato come rappresentativo di una patria: in altre parole, è possibile considerare ciascuna opera prodotta in Italia (o da un Italiano) come espressione rappresentativa della patria? Inoltre, in quali termini un simbolo culturale può essere esportato ed esposto all’estero?“…in quali termini un simbolo culturale può essere esportato ed esposto all’estero?”

Le battaglie culturali odierne – anch’esse essenziali per alimentare il mito della patria, nonché ulteriore esempio di “soft-power” – si trasformano in veri e propri casi diplomatici, come per esempio la continua tensione tra Italia e Francia nell’ambito delle mostre su Leonardo da Vinci. La ripetute richieste di rimpatrio di oggetti trafugati o esportati illecitamente se da un lato evidenziano la sottile linea di confine tra l’amore per il proprio patrimonio culturale e l’orgoglio nazionale insito in esso, dall’altro mettono il luce un diffuso sentimento possessivo e di competitività territoriale.

Ecco che, in assenza di veri e propri oggetti culturali, il linguaggio della performance, seppur espresso all’interno di uno sterile white cube, è in grado per certi versi di instillare ugualmente sentimenti patriottici nello spettatore, sentimenti che, anziché dividere e mettere gli uni contro gli altri, in questo caso uniscono e aggregano generando affiliazioni (seppur artificiali).

Nathaniel Mellors, Erkka Nissinen, The Aalto Natives, 2017, frame da video.

 

Verso un mito della patria aperto

Mito e ideologia nazionalista, legati inesorabilmente alla necessità di limitare le libertà altrui per esaltare la propria, non possono in alcun modo essere riabilitati – lo impediscono categoricamente la storia e la memoria collettiva. Un mito salubre della patria, che si ricolleghi al significato originario del termine, se narrato attraverso un’ottica di apertura, può invece essere in grado di contrastare l’avanzamento di tali tendenze e retoriche populiste, nativiste e neonazionaliste. Un nuovo mito della patria potrebbe pertanto coincidere con un amore archeologico per l’ambiente, che di quel dato territorio tenga anche in considerazione la stratificazione di contatti tra culture e popoli diversi che lo hanno caratterizzato. Un mito della patria che conduca quindi alla collaborazione, a uno scambio – e non a una guerra – culturale, ad attività sportive che mantengano intatto il loro aspetto ludico.

La possibile risposta alla digeribilità e alla commestibilità della retorica nativistico-patriottica, interamente orientata alla creazione di un senso di comunità – ove per “comunità” si intende una razza “pura” che esclude l’altro – è forse oggi da ricercare all’interno del linguaggio performativo, nella misura in cui permette e accoglie sfumature.

Se, come abbiamo visto, nel linguaggio dello sport, del video e delle performance riusciamo a scorgere evidenti segnali che ci indicano la strada per un non appiattimento del linguaggio, allora diviene oggi sempre più necessario raccogliere tali segnali e trasformarli in strumenti efficaci per ribaltare ed erodere le fondamenta su cui si basano i miti nazionali e neoimperialisti nell’era della globalizzazione. La speranza per un futuro che abbatta posizioni isolazioniste e il riemergere dei nazionalismi è forse un mito della patria aperto e fondato sulla verità storica, sulla memoria dei flussi migratori che hanno contribuito a rendere tale ciò che appunto definiamo patria.

Aleksandra Mir, Triumph, 2009, 2.529 sporting trophies, installation view at Centro Pecci. Courtesy the artist and Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, photo Ela Bialkowska, OKNOstudio.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Giulia Trojano
  • Giulia Trojano lavora per lo studio legale internazionale Withers come associata nel contenzioso commerciale e nell'arbitrato, con un'affinità per il diritto dell'arte. Attualmente risiede a Londra. È particolarmente interessata a far progredire il discorso giuridico e politico attraverso un attento studio delle forme d'arte contemporanea e sperimentale. Giulia si è laureata alla LSE con un LLB in Giurisprudenza e prima ancora ha vissuto a Roma e Vienna.
Bibliography

R. F. Alaquil, Sports helping to boost the Kingdom’s soft power, «Arab News», 17 Jan. 2019.
F. Ariaudo, E. De Donno, L. Pucci, Sportification: Eurovisions, Performativity, And Playgrounds, Viaindustriae, Foligno, 2017.
M. M. Grynbaum, N. Chomsky, Even Fox News Stops Running Trump Caravan Ad Criticized as Racist, 5 Nov. 2011.
T. Jeffreys, The Aalto Natives: an interview with Erkka Nissinen and Nathanial Mellors, Frame Contemporary Art.
C. Metrangolo, Elementi di Estetica e Arte Militare dalla Falange Greca all’Esercito Italiano, Università di Padova, 2016.
M. Miessen & Z. Ritts (a cura di) Para-Platforms: On the Spatial Politics of Right-Wing Populism, Sternberg Press, Berlin, 2018.
H. M. Nygard, S. Gates, Soft power at home and abroad: Sport diplomacy, politics and peace-building, «International Area Studies Review», 16, 3, 2013
L. Timm, Abandoned by the State, Former Chinese Athletes Stuggle After Sports, «The Epoch Times», 3 Aug. 2016.