L’immagine dell’albero è associata al simbolo della trascendenza umana, rappresenta la continuità della vita stessa e con i suoi rami sostiene e copre tutti i mondi. L’albero cosmico è non solo l’asse che unisce cielo, terra e inferi, ma anche il tramite attraverso cui lo sciamano è in grado di uscire dal nostro mondo per salire, o scendere, attraverso i molteplici livelli dell’essere. Nella mitologia dei Greci, dei Romani, dei Celti e di altri popoli, le specie di alberi sacri collegati al culto delle divinità erano numerose: la quercia a Zeus e a Pan, l’olivo ad Atena, il mirto ad Afrodite, il fico a Dioniso ecc. Nell’antica raccolta nordica Edda, l’albero è chiamato Yggdrasil (il destriero di Odino) ed è rappresentato similmente all’olivo nell’Islam, alla betulla e al larice in Siberia e al Ficus religiosa in India.
Secondo Platone, l’uomo è una pianta celeste, è come un albero rovesciato, le cui radici protendono verso il cielo e i rami verso la terra. La perfetta simmetria della corona rimanda a una riunificazione degli opposti.
Spesso questo simbolo viene anche collegato alla figura del serpente, in quanto dall’ombra, radici, segue un movimento di risalita verso la coscienza, rami. Entrambi sono simboli di Mercurio, e ne rappresentano i suoi aspetti, ma in modo differente: l’albero è statico e vegetale, il serpente è mobile e animale. Il primo rappresenta la corporeità della terra, il secondo l’emotività, ma uniti creano la piena realizzazione del soggetto, in quanto «senz’anima il corpo è morto; senza corpo, l’anima è irreale».11Carl Gustav Jung, L’albero filosofico, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, p. 23.
In particolare, le radici si dirigono in tre direzioni che non sono quelle della terra, quanto piuttosto tre distinte manifestazioni dell’essere: la prima, le profondità abissali; la seconda, i confini del mondo; la terza protende verso il cielo.
Nel suo saggio L’Albero Filosofico, lo psicoanalista Carl Gustav Jung analizza come la simbologia dell’albero sia centrale per la strutturazione degli archetipi inconsci, sviluppata attraverso un parallelismo tra la figura dell’alchimista e quella dello psicoanalista moderno; egli intende così collocare la pratica dell’attuale ricerca simbolica con la ricerca alchemica medievale, da cui ha avuto origine.
«ll processo nel suo complesso, che noi oggi leggiamo come sviluppo psicologico, fu designato come “albero filosofico”, una similitudine poetica che suggerisce una felice analogia tra il processo naturale di crescita della psiche e quello della pianta. Per questo motivo mi è parso auspicabile esporre diffusamente quei processi psichici su cui si fondano sia l’alchimia che la moderna psicologia dell’inconscio».22Ivi, p. 130.
La figura archetipica dell’albero, in cui la radice rappresenta l’inconscio, il tronco la mente conscia e la chioma l’individuazione, conduce l’anima a una piena espressione del sé. Sono dunque riconoscibili, a partire dalla funzione del simbolo negli immaginari collettivi, l’albero come crescita, vita, l’estrinsecarsi della forma in senso fisico e spirituale, lo sviluppo, la crescita, l’aspetto materno, l’età, la personalità, la morte e la rinascita.
Da questo continuo mutamento di senso Jung ne deduce che lo studio della simbologia è quanto mai importante per riappropriarsi nel presente dell’archetipo, in funzione di un’integrazione delle simbologie passate, condizionate non solo dalla tradizione con cui si tramandano, ma presenti anche nei modi rappresentativi di culture diverse. È quindi familiare, ma di difficile focalizzazione, soprattutto quando si tratta di collocarlo in contesti storici.
Seguendo questo filo conduttore e analizzando il nostro contemporaneo tecnicizzato, è evidente come, con l’egemonia della scientificità, si sia posta di fronte all’essere umano la quasi fine dell’analisi archetipico-simbologica della coscienza, che ha portato alla scissione della personalità e alla totale scomparsa dell’eredità storico-collettiva. Negare l’esistenza dell’inconscio significa negare qualcosa che ne ricostruisce una genealogia, qualcosa che è al di là del significato oggettivo, non comprensibile immediatamente, sicuramente sconosciuto e di conseguenza spaventoso, ma la sua analisi fornisce la comprensione più profonda del proprio sé in relazione al mondo. Il processo psicologico è un albero che cresce.
L’aspetto psichico è esso stesso associato all’albero, il cui lento crescere si adegua a un preciso schema; i simboli così reintegrano nello stato consapevole un atteggiamento più o meno dimenticato della coscienza, in un movimento dall’interno verso l’esterno, cioè verso ciò che sta fuori dal sé. Gli opposti contenuti nell’albero, l’ombra psichica incarnata dalle radici e l’anima che si espande, cioè i rami, evidenziano come, nell’indagare queste due polarità, Jung cerchi di prevenire la dissociazione della coscienza a favore di quello che lui chiama “processo dI individuazione”: un lento percorso di consapevolezza, doloroso e lungo, che parte soprattutto da ciò che viene assimilato e analizzando dall’esterno, cioè la struttura socio-politica della comunità in cui il soggetto è inserito.
L’individuazione si caratterizza come un insieme di elementi non venuti fuori in modo cosciente e che sono stati in qualche modo rimossi. Questo lento processo di auto-conoscenza inizia con la pubertà, quando l’adolescente entra in contatto con le proprie pulsioni; quanto più la coscienza ha un atteggiamento negativo verso di esse tanto più si hanno probabilità di dissociarsi da essa ed essere rimosse. Questa condizione di blocco ha le sue conseguenze nei sogni, che saranno caratterizzati da immagini senza alcun freno o chiarezza comprensiva. La perdita del contatto con l’esistenza, ovvero una dissociazione dal contesto sia esteriore che interiore, è identificata da diversi studi antropologici come “perdita dell’anima”: «Una notevole spaccatura (o più tecnicamente una dissociazione) della coscienza».33Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1983, p. 23.
Tale evento è una delle più comuni forme di alienazione delle società non occidentali e marginalizzate, che si evidenzia come una perdita di contatto con il sé, spesso una diretta conseguenza del dominio occidentale, che ha causato lo spossessamento dei territori, distruggendo e colonizzando non sono l’ecosistema ma anche le soggettività, provocando quindi crisi coscienziali collettive.
L’anima, pertanto, nel pericolo di disgregarsi, appare come un fattore instabile della coscienza, in quanto viene esposta al rischio di scissione, cambiando modalità a seconda del contesto in cui è collocata, non rappresentando, dunque, un’unità immutabile.
Facendo un passo indietro all’antica Grecia, si evidenzia come il mondo allora conosciuto veniva considerato come costituito da un’anima unitaria, dove l’anima individuale rappresenta solo un frammento di vita, un frammento di mondo. Secondo questa prospettiva il cosmo è formato da frammenti che, uniti insieme, generano un tentativo per superare il dualismo dei mondi; quando l’universo nasce, nasce anche la complessità. Contrapponendo quindi gli elementi psichici collettivi e l’ereditarietà dei simboli archetipici, l’anima mundi rappresenta il principio che lega tutte le cose e da cui tutto nasce e si sviluppa, una sorta di inconscio collettivo originario. Nel Timeo di Platone, l’anima del mondo è descritta come un’entità a contatto con tutte le cose, compresa l’anima superiore, cioè la divinità, con la quale scambia continuamente informazioni e crea gli archetipi. Il termine anima, deriva dal greco ànemos, “soffio”, e similmente psyche deriva dal greco psychein, “respirare”. L’animità della realtà consente di vedere come ogni cosa del mondo possieda una caratteristica vitale che la lega al tutto; parte dall’anima mundi per arrivare alle sfaccettature che compongono il reale, la materia viene preceduta dall’intelligenza, in un movimento dall’alto verso il basso. Ogni creatura ha in sé il soffio, il respiro, il frammento che, nell’unirsi con altri frammenti, forma la complessità, che non è omologatrice ma unica.
Lo psicologo e antropologo James Hillman, partendo dalla collocazione che anticamente Platone dà dell’anima mundi e unendola agli studi junghiani sulla psiche, arriva ad affermare che l’anima del mondo indica le possibilità di animazione offerte da ciascun evento per com’è, rivelando cioè la propria immagine interiore. L’anima come oggetto in sé, riconosciuto come tale, che parla alla psiche, che è oggetto diverso dall’anima, ma l’ascolta. Con l’analisi apportata da Hillman, la psicologia si confronta con la mitologia, vista come riacquisizione delle frammentazioni dell’esperienza di percezione della realtà attraverso l’analisi storico-culturale. I miti unificano il Sé affermando così che il soggetto non è universalmente statico e unico, ma una parte del tutto mutevole. Secondo Hillman, durante i periodi di crisi l’inconscio collettivo si manifesta regredendo verso quei simboli che stanno alla base della nostra strutturazione psichica, per far sopravvivere la coscienza e trovare un punto di rinascita.
La mitologia serve pertanto da guida per il nostro presente tormentato, costituito dalla perdita di una coscienza critica rispetto al mondo che ci circonda. Le divinità, che avevano spesso caratteristiche antropomorfe, evidenziano come il sacro e la natura coincidessero. Il mito diviene un codice interpretativo per la complessità del presente, necessario per la vita contemporanea sofferente che non trova soddisfazione e non si esaurisce nell’orizzonte della razionalità.
«Sappiamo che quando il mondo finirà gli animali ritorneranno umani, come lo sono questi nei tempi mitici: cani polli, animali selvatici, tutti torneranno a parlare la nostra lingua , in una despeciazione regressiva che ci ricondurrà al caos originario – finché, immaginiamo, non venga tracciato un nuovo piano di immanenza, non sia selezionato un nuovo tagli o pezzo del caos e uno nuovo mondo possa sorgere. O magari no».44Deborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano, 2017, p. 166.
Oggi, gli dèi popolano i sogni, sono portatori di anima, in quanto con la familiarità di questi simboli si percepisce il valore psicologico e terapeutico. Hillman in un dialogo con Silvia Ronchey dal titolo Ci vengono a trovare in sogno parla a proposito dell’ibridazione del pensiero, considerando come il nostro immaginario animista entri nel microcosmo psichico:
«Assumere l’occhio animale, perseguire non solo una metanoia, un conversione intellettuale, ma un’ibridazione profonda, una metamorfosi spirituale e psichica, legata alla nostra immaginazione».55Dialogo tra Silvia Ronchey e Francesco Monico, Ci vengono a trovare in sogno. Animali, anima, sogno e realtà, «Vogue Italia», 844, 7 gennaio 2021, ultimo accesso: 26 gennaio 2022.
Il destino ultimo dell’essere umano e il suo esser-ci nel mondo sono studiati dall’escatologia; questa modalità di analisi porta alla luce il principio secondo cui tutte le cose sono connesse tra loro, anche e soprattutto quando si presentano situazioni di crisi collettive. L’anima mundi appare quindi come un quesito escatologico, in quanto inizio, presente e destino dell’essere umano, i frammenti che si connettono tra loro, ma che altresì si disgregano.
Venendo a mancare i valori fondamentali che reggono le nostre strutture sociali, le suddette crisi dissociative possono presentarsi come vere e proprie apocalissi, dove persino il mondo smette di essere dimora per farsi perturbante, mostruoso. Il mondo, privato di senso, diviene il nulla in cui l’angoscia prende il sopravvento; una crisi senza riscatto, senza eschaton. Nel corso di questa disgregazione del mondo escono fuori tutti quei problemi che la società ha subìto sino a quel momento, un andare indietro per poter proseguire nel futuro. In questa prospettiva, l’antropologo Ernesto De Martino, nel volume La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, analizza come la perdita dell’eschaton nel nostro vivere contemporaneo abbia condotto alla disgregazione non solo della struttura socio-culturale, l’apocalisse, ma anche della coscienza individuale, cioè la crisi della presenza. Il mondo che conosciamo può effettivamente finire, a causa di fenomeni naturali, ma quello che De Martino sottolinea è che la fine del mondo deve essere intesa come fine stessa dell’umanità. Essa si caratterizza con la perdita dei valori inter-soggettivi culturali e con l’asfissia provocata dal tecnicismo, porta l’uomo a strumentalizzare la natura annientata dalla stessa possibilità di culturizzazione. L’estrema propulsione verso l’innovazione e le rapide trasformazioni sociali occidentali, avvenute nell’ultimo secolo, non hanno lasciato tempo per l’assimilazione del “nuovo mondo”, eliminando, come conseguenza, tutte le tracce residuali di traduzione, cultura e misticismo. Per tradurre questo processo di disgregazione in altri termini si potrebbe dire che la coscienza non riesce a compensare ciò che la realtà circostante le propone, non si sofferma più sullo studio del simbolo e corre verso l’orizzonte di benessere economico e sociale utopico che promette il sistema capitalistico.
«L’uomo è oggigiorno dolorosamente consapevole del fatto che né le religioni, né le diverse filosofie risultano in grado di fornirgli quelle potenti idee animatrici che sole potrebbero dargli la sicurezza di cui ha attualmente bisogno per fronteggiare le condizioni del mondo contemporaneo».66Jung, cit., p. 101.
Mentre si trova in Calabria, De Martino chiede a un vecchio pastore alcune indicazioni su un bivio che non riesce a trovare. Le informazioni che il vecchio pastore gli fornisce sono molto vaghe, così l’antropologo chiede se può accompagnarlo in macchina sino al bivio. Il pastore sale, ma con diffidenza, guarda continuamente fuori dal finestrino, come se stesse cercando qualcosa. All’improvviso urla: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo più!»; il campanile è semplicemente sparito dalla sua vista, ma questa perdita visiva di un luogo familiare lo ha completamente turbato, al punto che De Martino deve accompagnarlo indietro sino al punto in cui si sono incontrati. Questo evento così drammaticamente estremo porta alla luce come la perdita di contatto e la velocità con cui tali riferimenti scompaiono alla nostra vista portano allo sgretolamento della percezione del reale, diventata ormai estranea e perturbante. Questa esperienza critica vissuta da De Martino conduce alla riflessione sulla modalità attraverso cui il mondo di oggi non è più adeguato alle richieste dolorose di nuovo equilibrio, sia psichico che culturale. Non vi sono più rituali per far defluire il disastro e riequilibrare l’animo. Per stare con la catastrofe, occorre pertanto comprenderla, attivarne i processi simbolici, eliminando la responsabilità a carico del singolo soggetto, che resta solo di fronte alla distruzione, inerme mentre sfumano le sue coordinate. La perdita dell’anima, dunque, non è solo un fenomeno intersoggettivo, ma anche collettivo, l’anima mundi si sgretola per mancanza di contatto con le altre anime che popolano il mondo, comprese quelle non umane. La dissociazione, l’ansia e il senso di impotenza sono fenomeni psichici che caratterizzano la nostra epoca contemporanea, sono sì crisi della presenza interpersonale, ma anche crisi delle presenze, dei simboli, del rapporto con il mondo; apocalissi, ma non del mondo, ma dei modi di stare nel mondo di domani.
«Sono stanco, anima mia, troppo a lungo è durato il mio vagare, il cercarmi al di fuori di me. Sono passato dalle cose e ti ho trovata dietro a cose di ogni sorta. Ma nella mia peregrinazione attraverso le cose ho scoperto l’umanità e il mondo. Ho trovato gli esseri umani. E te, anima mia, ho ritrovato, anzitutto nell’immagine che è presente nell’uomo, e poi ho trovato proprio te. Ti ho trovata là dove meno ti aspettavo. Là tu affiori per me da un pozzo oscuro. Già prima ti eri annunciata a me nei sogni, ma mi avevano in petto, m’inducevano nelle imprese più ardite, audaci e mi hanno costretto a sollevarmi al di sopra di me stesso. Mi hai fatto scorgere verità di cui non avevo il minimo sentore. Mi hai fatto percorrere strade la cui infinita lunghezza mi avrebbe spaventato, se in te non ne fosse rimasta celata la conoscenza».77Carl Gustav Jung, Libro Rosso, Bollati Boringhieri, Torino, 2021, p. 132.
Nel luglio 2011, presso la Fondazione Antonio Ratti, si è tenuto il workshop di Susan Hiller, dal titolo The Dream Seminar II, a cura di Éric Alliez e in collaborazione con Annie Ratti, Andrea Lissoni e Cesare Pietroiusti.
Hiller è un’artista internazionalmente riconosciuta dagli anni Settanta per la sua ricerca sugli aspetti della nostra cultura considerati marginali e largamente ignorati. Accosta antropologia e psicologia con altre discipline scientifiche usando diversi medium. Spesso esplora processi subconsci, compresi i sogni, tutto ciò che sta al di sotto della conoscenza culturale. In occasione del seminario, l’artista ha rimesso in scena un suo workshop degli anni Settanta in cui chiedeva ai partecipanti di pensare ai propri sogni, ma in maniera collettiva. I partecipanti sono invitati, nel corso del laboratorio, a prendere nota dei loro sogni e a leggere diversi testi che affrontano il tema da una varietà di prospettive inusuali. Sono altresì invitati a prendere parte a sessioni intensive di lavoro di gruppo dedicate ai sogni individuali. In questo modo, viene messo in atto un processo di ri-modellazione dell’aspetto onirico, a favore di una ripetizione continuativa dei processi che stanno alla base dell’elaborazione psicologica. Letture e discussioni, inoltre, consentono di analizzare e illustrare le relazioni tra la dimensione del sogno e quella della produzione di immagini, esplorando diverse culture. Con questi esempi argomentativi si sviluppa il seminario Dream of Insomnia, del 2012, postumo rispetto a Dream Seminar II, che indaga i confini tra il sogno e la realtà, analizzando tutte quelle situazioni in cui le due polarità si uniscono: il sonnambulismo, le visioni e gli stati alterati, spostando continuamente la responsabilità del discernimento percettivo dal soggetto alla collettività. Il rapporto che si instaura tra i due poli è il continuo scambio percettivo tra la critica alla responsabilità del singolo sulla propria interiorità e la clinica che è il contenitore in cui il soggetto opera i suoi processi psichici, in solitudine. Il desiderio di interpretazione del sogno è misto al desiderio di curarsi, porta alla dispersione della presenza interpersonale, e il soggetto diviene così insonne nel momento in cui gli è affidata la sola responsabilità. Deresponsabilizzandolo, invece, dall’autocura e collocandolo in un contesto socio politico più ampio, si creano connessioni collettive in grado di favorire l’abbattimento del nichilismo delle nostre società contemporanee. Gli artisti e studiosi invitati a collaborare al workshop sono John Duncan, Éric Alliez, Dario D’Aronco, Roberto Fassone, Janga Cihucta, Nayari Castillo, Lindsay Benedict, Nicola Valentino, Cesare Pietroiusti, Barbara Glowczewski, Karl Holmqvist, Olivier Schefer, Bertrand Méheust, Gerard Cuartero e Johanna Santos Bassetti.
Nelle sue opere, Susan Hiller cita Minimalismo, Fluxus e aspetti del Surrealismo, sino ad arrivare all’antropologia e al femminismo. Contrappone le conoscenze derivate dall’antropologia, dalla psicoanalisi e da altre discipline scientifiche a materiali generalmente considerati non importanti, come cartoline, sfondi, film popolari, bilanciando il familiare e l’inspiegabile e invitando lo spettatore a partecipare alla creazione del significato. Raccoglie e utilizza immagini, oggetti e suoni per creare nuovi contesti, incorporando tracce di memoria, storia e allusioni personali. La sua pratica indaga spesso i processi subconsci, inclusi i sogni, la scrittura automatica e le vocalizzazioni improvvisate. Privilegiando il represso, il dimenticato o lo sconosciuto Hiller analizza, ricontestualizza e conferisce uno status a ciò che sta al di fuori o al di sotto del riconoscimento.
Lo psicoanalista Jacques Lacan affermava che esiste un gap tra il sogno e l’interpretazione, una linea sottile che differenzia le due modalità di esserci nel presente; esso è alla base dell’arte, della letteratura e delle forme culturali. Hiller lavora in questo gap, cercando di rendere possibile la visualizzazione della conoscenza, che è il lavoro di ogni artista, o perlomeno ciò che dovrebbe essere la produzione artistica. La conoscenza che Hiller intende portare alla luce è quella che riguarda l’astrazione, la non fisicità, la formulazione del linguaggio, operando verso il disvelamento con sollecitazioni e interruzioni, trovando la propria via per raggiungere la visualizzazione della conoscenza. In concomitanza di Dream of Insomnia, viene presentata la mostra dell’artista negli spazi della Chiesa di San Francesco a Como, con l’opera PSI Girls (1999): cinque brevi sequenze ad anello che raffigurano cinque ragazze con poteri telecinetici paranormali, catturate mentre sono concentrate nel produrre il movimento di un oggetto con la forza della loro mente; molte di loro soffrono per il proprio potere e si trovano in difficoltà a renderlo palese nei confronti della loro comunità. Le sequenze sono tratte da cinque celebri film (The Fury, di Brian De Palma, 1978; The Craft, di Andrew Fleming, 1996; Matilda, di Danny De Vito, 1996; Firestarter, di Mark Lester, 1984; e Stalker, di Andrej Tarkovskij, 1979), i cui colori vengono alterati da Hiller. Ciascun film è in un monocromo blu, giallo, rosso, viola e verde, mentre l’audio originale è stato sostituito da un’unica colonna sonora, tratta dal disco di un coro gospel della Cattedrale di San Giorgio a Charlotte, North Carolina, USA. Vengono inoltre proiettati gli stessi colori, in modo casuale, nell’ambiente circostante, così da produrre una continua alterazione dello spazio, creando un effetto ipnotico e mutevole. Lo stato percettivo è alterato da una temporalità modificata ed enfatizzata dalla rappresentazione della figura dell’adolescente collegata all’identità femminile, riflettendo sul potere e sulla produzione che hanno quei film sull’immaginario contemporaneo. Il ritmo e la scansione delle immagini creano una sensazione di stordimento quasi onirico, una sospensione della realtà, il gap di cui parla Lacan. Ciò che viene rappresentato oscilla tra realtà e mondo onirico, erotismo e alienazione, in una dimensione contemplativa. Nella nostra concezione razionalizzata, tutte queste PSI abilità creano diffidenza sulla loro veridicità: «Le ragazze raffigurate non sono vincolate dal principio di realtà, nulla si pone come ostacolo al loro desiderio. Affermano il primato dell’immaginazione e dell’erotismo del piacere su ogni costrizione».88Catalogo della mostra Susan Hiller, presso la Tate Britain (2011), Tate Publishing, 2011, p. 96.
In altre tipologie di società, le loro abilità sono invece considerate normali, e spesso vengono associate a regali di spiriti, oppure acquisiti a seguito di pratiche di meditazione profonda. Sognare è uno stato alterato di coscienza naturale, avviene spontaneamente senza che vi siano agenti esterni. Se questi sogni sono dunque parte della nostra esperienza, creano un substrato percettivo che modifica la “norma” esperienziale, e quindi non devono essere dimenticati. I fenomeni paranormali, come i sogni, non riescono a trovare una validazione nella realtà tecnica e non sono pertanto presi in considerazione come parte delle nostre stesse esperienze percettive spontanee. I sogni, proprio per la loro natura simbolica, sono di difficile comprensione, ma non possiamo ignorarli in quanto parte di noi stessi.
Durante il workshop è stato invitato anche Éric Alliez, professore di Philosophie et Créations Contemporaines en Art all’Università di Parigi 8 e professore di filosofia francese contemporanea al Center for Research in Modern European Philosophy. Il tema presentato dal docente universitario è la lettura di una parte del libro The Interpretation of Dreams (Die Traumdeutung, 1900), in cui lo psicologo Sigmund Freud avanzò l’ipotesi che i sogni fossero guardiani del sonno. Il testo, in questa occasione, viene messo in relazione con To Have Done with Judgment (Critical and Clinical Essays, 1993) di Gilles Deleuze, in cui si afferma che il sogno non è guardiano del sonno, ma guardiano del sogno insonne. Il mondo onirico, dunque, è un continuo riproporsi di immagini psichiche in cui il giorno è l’attesa del sogno nella notte. In questo movimento caotico si trova il soggetto, continuamente esausto. Il Sé dissolto è descritto da Deleuze come «giudizio che poi camminerebbe nel sonno verso una soglia dionisiaca identificata con quella “schizofrenia in principio” che caratterizza il più alto potere di pensiero di un Sé dissolto – e che ci chiede di guardare all’arte attraverso il prisma della vita (Nietzsche)».99Testo di Éric Alliez per il seminario Dream of Insomnia, 2012. Traduzione mia.
Problematizzare il momento presente, riflettendo sulle rappresentazioni che produce, crea una spaccatura tra realtà e finzione. Il sogno fa parte della vita e le due cose non possono essere separate. Deleuze nel testo To Have Done with Judgment (Critical and Clinical Essays, 1993) afferma che i sogni siano intorno a noi, non solo imprigionati dentro le gabbie della mitologia e dell’interpretazione, ma anche nei simboli che ci circondano, liberamente. I sogni insonni sono quelli che gravitano intorno alla nostra esistenza, è necessaria una presenza storica e politica per costruire la storia di ciò che ci circonda. Quindi come imparare da questo? Come andare avanti in modo migliore analizzando i processi che ci legano al resto dell’umanità? Introdurre uno sguardo critico contribuisce a produrre una nuova visione della società che abitiamo, diversa dalla dilagante passività con cui la maggior parte delle persone esperisce la contemporaneità. Il sogno rappresenta pertanto un dispositivo che garantisce la nostra presenza nel mondo, fuori dalle categorie di interpretazione, è il margine della sperimentazione personale. Il capitalismo rende tutto reazione e azione, attività senza riposo, nulla sembra che si possa spegnere, per questo l’insonnia è la diretta conseguenza dell’essere costantemente svegli in una società iperproduttiva. Il sogno, quindi, secondo questa prospettiva, è il luogo in cui avviene l’atto di resistenza più forte, rendendo sottili i margini tra realtà e finzione e istituendo una dialettica di reciprocità per generare energia vitale.
Le modalità con cui sono analizzati e studiati da Hiller gli archetipi collettivi forniscono un esempio di come il pensiero critico e aperto alla sperimentazione reintegri tutti quei processi celati da una narrazione collettiva. L’artista cerca di portare in luce i meccanismi collettivi, partendo dall’inconscio e dalle pratiche culturali che lo studiano e lo portano all’interno della cultura e delle narrazioni sociali. Il tentativo è dunque quello di fornire una cura alle apocalissi, una modalità per sopravvivere al nostro presente tornando dentro, per espandersi fuori, con nuove immagini e visioni.
Nel suo saggio Come le lucciole, una politica delle sopravvivenze (2021), Georges Didi-Huberman analizza il testo di Pier Paolo Pasolini scritto per il «Corriere della Sera», Il vuoto di potere in Italia (1975), meglio conosciuto come Articolo delle lucciole, in cui il poeta e regista afferma che le lucciole sono scomparse, offuscate dai riflettori della società dei consumi. Questi esseri viventi sono l’archetipo dei soggetti marginalizzati ed esclusi dalle norme impositive della società capitalistica. Secondo Pasolini, nei primi anni della storia repubblicana è esistita una sostanziale continuità tra la “nuova cultura dello Stato democratico” e la cultura del fascismo. In questa prima fase le lucciole c’erano ancora, in quanto il potere agiva ancora in modo tradizionale, operando dall’esterno: imponeva un ordine alla vita, ma non era capace di modificarne i ritmi, ossia non era in grado di cambiare l’indole delle persone.
In questa confusione ideologica, Pasolini cerca le lucciole, aspetta di vederne un bagliore, i fugaci incontri creano costellazioni di speranze, per sfuggire ai «riflettori lontanissimi e feroci, occhi meccanici a cui non era dato fuggire, e allora un terrore d’essere scoperti ci prese, mentre abbaiavano i cani, e ci parve d’essere colpevoli».1010Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 17.
La seconda fase dell’articolo si apre con la scomparsa delle lucciole. Siamo all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, la modernizzazione accelerata del paese – soprattutto attraverso l’automazione e il dominio dei mass media – distrugge in pochissimo tempo un intero universo di culture, magie, religiosità e modi di vivere che non erano mai stati intaccati dalle precedenti forme di potere; la nuova egemonia consumistica interrompe così una continuità millenaria, e le diverse generazioni appartengono ora a due mondi distinti e non comunicanti.
In questa apocalissi culturale, vissuta da Pasolini, il mondo è visto come distante, perduto, lontano e inafferrabile, è un mondo in cui la memoria storica non è più presente, così come anche le identità, la collettività, i riti e le rappresentazioni collettive. Anzi forse esiste la soggettività, ma iperindividualizzante e tossica, che porta gli individui a non riconoscersi e conseguentemente a non riconoscere l’alterità. Ecco che tornano le apocalissi, la fine della fine, come fine della possibilità di fare cultura.
Secondo l’autore la perdita della memoria è dunque la perdita del mondo in cui la crisi è presente quando la tolleranza generalizzata avviene senza cultura, perché non è più un dispositivo sociale da proteggere, ma anzi diventa una modalità di profilazione di regimi sempre più incontrollabili e dissocianti.
«Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza».1111Pier Paolo Pasolini, Il vuoto di potere in Italia, «Corriere della Sera», Milano, 1975.
Partendo da questa analisi pasoliniana, Didi-Huberman si sofferma pertanto sul fatto che le lucciole non sono realmente scomparse, ma sono semplicemente invisibili, ogni tanto appaiono in lontananza ed esistono malgrado tutto. Sta a noi, secondo Pasolini, non vedere scomparire le lucciole, acquisendo la capacità di introspezione, che non vuol dire annichilimento, ma essere in grado di guardare la ferita da cui appariranno bagliori di umanità: «In questi corpi in fuga non appare altro che l’ostinazione di un progetto, il carattere indistruttibile di un desiderio».1212Ivi, p. 93.
Vorrei proporre di fare un passo indietro, e riprendere il simbolo dell’albero, che come abbiamo visto abita il nostro inconscio dall’inizio della storia umana. Se partiamo dalle sue radici possiamo trovare le basi del nutrimento della pianta, ma anche lo scambio di sostanze e informazioni con gli altri esseri che le sono vicini, attraverso i funghi. Se paragoniamo la pianta alle nostre modalità di relazione possiamo affermare che le radici sono la nostra cultura, le strutture della società e i nostri affetti.
La cultura è quindi un mezzo per assicurare la sopravvivenza, soprattutto quando, in periodi di crisi, le “apocalissi senza eschaton” ci portano a una condizione di eterna distruzione, dove non resta nulla se non la distruzione stessa. Come abbiamo visto, le apocalissi rendono il soggetto paralizzato di fronte alla fine del mondo, e ogni tentativo di fare in modo che qualcosa cambi sembra non essere sufficiente. Tornare al racconto implica dunque necessariamente che ci sia qualcuno che ascolti; per questa ragione l’atto di narrare è sempre collettivo, dal momento che la storia funziona per intrecci di soggettività, non per individui unici che agiscono, altrimenti non ci sarebbe appunto bisogno di raccontare. Spesso le storie provengono da fatti o azioni che riguardano il contesto sociale, ma possono anche derivare da metafore, sogni e sensazioni. Hiller, per esempio, analizzando le strutture della società e i suoi modi rappresentativi, ha cercato di sondare come le immagini oniriche siano direttamente collegate a quelle socioculturali. Il sogno e i suoi rimandi metaforici e mitici reintegrano quelle narrazioni che, partendo dal soggetto, vengono messe in relazione al resto degli individui che abitano il suo medesimo contesto. Come ha affermato anche De Martino in La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, i rituali servono per sovrascrivere ciò che salva su ciò che isola e provoca dolore. Forse però è difficile immaginarsi oggi alle prese con il diario dei sogni, intenti a studiare le tradizioni popolari o a riprodurre rituali di ogni sorta. I problemi del nostro mondo sono sistematici, e per questa ragione tali modalità di reazione al problema sembrano distanti, obsolete e poco rilevanti vista la drammaticità degli eventi a cui stiamo assistendo.
Ci uniamo insieme per andare avanti, lavorando su quelle pratiche di riacquisizione dello spazio che occupa la cultura all’interno del nostro modo di vivere, analizzando il problema con attivismo e responsabilità. Come il processo di individuazione studiato da Jung, in cui il soggetto intraprende un lungo percorso doloroso alla scoperta del proprio Sé, così la struttura della società con questi mezzi attua un cammino di consapevolezza, pur non senza dolore e disperazione. L’insonnia, il sentimento di vuoto, la sensazione che la vita sia uno scorrere artificiale, senza scopo, irreale e lontano colpiscono il nostro esserci contemporaneo, creano una spaccatura all’interno della società. Nella fenditura della notte oscura che incombe ci sono, ogni tanto, le lucciole: la tradizione che non muore, ma vive nelle piccole cose: «A tenere insieme la società, in fondo, c’è sempre un racconto. Storie d’amore e di guerra, noi contro loro».1313Matteo De Giuli, Nicolò Porcelluzzi, Medusa. Storia della fine del mondo (per come lo conosciamo), NERO Editions, Roma, 2021, p. 27.
Le lucciole allora sono sempre lì, insonni, malgrado tutto.
More on Magazine & Editions
Digital Library
Imitazione di un Sogno
Esplorazioni filosofiche e sensoriali tra sogno e realtà.
Magazine , AUTOCOSCIENZA – Parte II
Coscienze permeabili per un mondo connesso
All’intersezione di fenomeni, affetti e tecnica.
Editions
Estrogeni Open Source
Dalle biomolecole alla biopolitica… Il biopotere istituzionalizzato degli ormoni!
Editions
Embody. L’ineffabilità dell’esperienza incarnata
Il concetto di coscienza incarna per parlare di alterità e rivendicazione identitaria
More on Digital Library & Projects
Digital Library
Imitazione di un Sogno
Esplorazioni filosofiche e sensoriali tra sogno e realtà.
Digital Library
La Mia Morte
Un racconto polifonico degli ultimi istanti di vita di Pier Paolo Pasolini.
Projects
KABUL ft. TANK
3ª edizione di FEIQ - Festival di Editoria Indipendente Queer e pratiche performative
Projects
#CFP24 | ESCAPISMI
La call for papers di KABUL magazine dedicata alle diverse forme e modalità di escapismo che caratterizzano la contemporaneità.
Iscriviti alla Newsletter
"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
-
Ljuba Ciaramella è laureata presso il biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ricerca si sviluppa nell'area delle arti visive con un approccio trasversale che spazia dalla antropologia alla psicologia.
Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, Raffaello Cortina, Milano, 1983.
Carl Gustav Jung, Albero filosofico, Bollati Boringhieri, Torino, 2020.
Carl Gustav Jung, Libro Rosso, versione studio, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.
Deborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano, 2017.
Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2019 [2002].
Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Einaudi, Torino, 2021.
Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
James Hillman, Figure del mito, Adelphi, Milano, 2014.
Mircea Eliade (a cura di), Dizionario del Mito, Jaca Book, Milano, 2018.
Matteo De Giuli, Nicolò Porcelluzzi, Medusa. Storia della fine del mondo (per come lo conosciamo), NERO Editions, Roma, 2021.
Susan Hiller, Catalogo della mostra presso la Tate Britain (2011), Tate Publishing, 2011.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.