Nel 2024, il fatto che il mondo sia in piena crisi ecologica e climatica è innegabile. Il cambiamento climatico è evidente anche solo nella quotidianità dell’alternarsi di intere stagioni a distanza di giorni. Siamo nell’era detta “Antropocene” (Crutzen, 2002), in cui noi, come individui umani, siamo l’agente primario che influenza la natura e l’ecosistema in cui viviamo. Non positivamente. I dati sulle emissioni, sul riscaldamento globale e sulla conseguente perdita di biodiversità sono allarmanti, ma non sono di certo nuovi. Leggendo i giornali non ci si sente più scioccati dalle notizie sullo scioglimento dei ghiacciai o sull’estinzione di qualche animale. Nell’Antropocene queste notizie non sono inaspettate, bensì parte della vita quotidiana. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Questo saggio non intende porsi come una presentazione cronologica degli eventi e delle decisioni che hanno portato all’Antropocene, ma aspira piuttosto a esporre il ruolo che la nostra visione del mondo e di noi stessi come individui nel mondo ha nel riprodurre e normalizzare le azioni responsabili dell’attuale crisi ecologica e climatica. Le scienze umane ambientali ritengono che alla base di questa crisi vi sia una specifica visione (antropocentrica) del mondo, tipica della cultura occidentale, e che per risolverla sia necessario un cambiamento del modo in cui percepiamo il nostro essere umani (Kahan, 2010; Stibbe, 2015; Lopez, 2012). Poiché la nostra visione del mondo e di noi stessi nel mondo è fortemente influenzata dal linguaggio, dalle metafore e dalle “storie” (Stibbe, 2015) che utilizziamo per trattare e rapportarci all’ambiente che ci circonda, è possibile studiare il linguaggio per risalire alla visione di fondo del mondo che guida le nostre azioni. Questo saggio introdurrà quindi il campo dell’ecolinguistica, che investiga il rapporto tra linguaggio, cognizione e azioni, allo scopo di presentare visioni del mondo non sostenibili, che riproducono e normalizzano azioni non sostenibili. Presenterà poi esempi di storie non sostenibili, con l’obiettivo di avviare una discussione su visioni del mondo indiscusse e naturalizzate che hanno l’effetto di riprodurre la crisi ecologica e climatica. Secondo Lent (2017), se vogliamo un futuro sostenibile, dobbiamo prima prendere coscienza di come siamo arrivati a questo disastroso presente. Pertanto, l’intento è di stimolare la discussione di visioni del mondo che tendono a essere indiscusse e naturalizzate come primo passo importante verso questa presa di coscienza.
Concezioni del mondo: antropocentrismo vs ecocentrismo
Prima di entrare nei dettagli del ruolo del linguaggio nel creare concezioni del mondo, è importante definire che cosa intendo quando parlo di “concezioni del mondo”, e come possono essere categorizzate. Lent (2017) definisce le concezioni del mondo come valori e credenze implicite e date per scontate, che creano un modo specifico di dare senso alla vita quotidiana e al mondo in cui viviamo. Tutte le concezioni del mondo hanno a che fare con il nostro rapporto con la natura e con l’ecosistema in cui viviamo, nonché con il ruolo che, come individui umani, crediamo di avere nel mondo (Lopez, 2021). Le nostre azioni nel mondo sono guidate da tale concezione del mondo e di noi stessi all’interno di esso. Buttare i rifiuti per terra, per esempio, piuttosto che riciclare sono azioni indicative di diverse concezioni del mondo e della relazione dell’individuo con l’ecosistema in cui vive. Secondo Corbett (2006), le concezioni del mondo esistono su uno spettro che va da antropocentrismo a ecocentrismo.
Le concezioni ecocentriche pensano alla Terra come un pianeta che vive, un organismo fatto di sistemi connessi tra loro, che si sostengono a vicenda. In una simile concezione del mondo, l’individuo umano è parte integrante di questi sistemi, né superiore né inferiore agli altri esseri viventi che sono parte dell’ecosistema. Si tratta di una concezione sistemica, ovvero una concezione che dà rilievo al sistema nella sua completezza, in cui tutte le parti hanno un ruolo fondamentale perché contribuiscono a creare il sistema. Le concezioni ecocentriche possono essere visualizzate come un cerchio, al cui interno vi è l’individuo umano, che contribuisce al sistema allo stesso modo di piante e animali. Al contrario, le concezioni antropocentriche pensano alla Terra e all’ecosistema come inanimato ed esistente in funzione dell’essere umano. In tali concezioni l’individuo umano è infatti superiore rispetto al più-che-umano11 Il termine più-che-umano è stato introdotto da David Abram (1997) per indicare l’ampia comunità degli esseri viventi sulla Terra, che include l’individuo e la sua cultura, ma che eccede la cultura umana. Il sintagma era inteso a indicare che lo spazio della cultura umana è un sistema all’interno di un sistema più grande che lo sostenta, e ad incitare una nuova umiltà da parte dell’umanità.
e può servirsene come meglio crede. La natura e l’ecosistema esistono per essere utilizzati dall’individuo. Questo tipo di concezioni sono tipiche del mondo occidentale, influenzato maggiormente da due correnti: la prima, religiosa, di tradizione cristiana, derivata dalla Bibbia e specialmente dal libro della Genesi; la seconda, filosofica, derivata dal pensiero di Cartesio. Le religioni cristiane, prominenti nel mondo occidentale, fondano la loro concezione del mondo sulla storia della creazione contenuta nel libro della Genesi, in cui è scritto che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza per dominare sopra gli uccelli del cielo e gli animali della terra e su tutta la natura. In epoca moderna, questa idea di dominio ha assunto quasi sistematicamente il senso di possesso, perdendo quello di responsabilità. Correnti filosofiche dell’epoca della rivoluzione scientifica in Europa, specialmente quelle di matrice cartesiana, hanno avuto l’effetto di consolidare la visione dell’individuo come superiore al più-che-umano. Secondo le torsioni più dualistiche del pensiero cartesiano, l’individuo umano può definirsi tale dal momento che possiede una mente in grado di pensare; di conseguenza, il corpo non presenta alcun valore e non aggiunge nulla all’esperienza di essere umani. Da ciò ne consegue che gli altri esseri viventi, come piante e animali, non possedendo una mente in grado di pensare, siano privi di valore intrinseco. Il loro valore deriva solo dal grado di utilità che costituiscono per l’essere umano.
Simili interpretazioni dualistiche sono alla base della modernità come ideologia (Lopez, 2021). Il dualismo originario mente/corpo, infatti, ha dato origine a una serie di altri dualismi tipici della modernità, dove la parte associata alla mente ha valore, mentre la parte associata al corpo non ne ha. Alcuni esempi sono: umano/animale, cultura/natura, ragione/emozione, civilizzato/selvaggio. L’eredità del pensiero cartesiano è visibile anche nel quadro concettuale conosciuto come meccanicismo, che è alla base del pensiero scientifico e postula che un sistema, come per esempio l’universo, sia come un macchinario e possa essere compreso studiando separatamente tutti i suoi componenti (al contrario del quadro concettuale del pensiero sistemico delle concezioni ecocentriche che postula che per comprendere un sistema occorre studiarlo nella sua interezza e che il tutto è più della somma delle sue parti). Il meccanicismo come quadro concettuale, collegato alla concezione antropocentrica del mondo, è specialmente visibile nell’approccio tecno-scientifico alla crisi ecologica e climatica, dove le soluzioni mirano a risolvere problemi singoli con specifiche tecnologie – come, per esempio, utilizzare la geo-ingegneria per risolvere la crisi climatica –, al contrario di un approccio sistemico che proverebbe a risalire e modificare il modo di pensare e agire che ha condotto a questa crisi.
L’ecolinguistica: le metafore e le storie di cui viviamo
Il termine metafora si riconduce automaticamente al fenomeno linguistico della figura retorica, spesso utilizzata nel linguaggio poetico. Le metafore, tuttavia, non sono un fenomeno esclusivamente linguistico, ma anche cognitivo. Nel volume Metafore e Vita Quotidiana (Metaphors We Live By), Lakoff e Johnson teorizzano la metafora come fenomeno cognitivo legato al modo in cui l’individuo pensa e concepisce enti e concetti. I due studiosi sostengono che le metafore nascano dall’esperienza vissuta e che aiutino l’individuo a dare senso, esprimere e descrivere fenomeni astratti come il tempo o sentimenti come l’amore. Le metafore, quindi, contribuiscono a formare un sistema coerente – del quale sono parte – che è culturalmente specifico e che può essere osservato e studiato attraverso il linguaggio. Uno degli esempi che Lakoff e Johnson (1980) offrono è “la discussione è guerra”. Questa metafora è ben visibile in espressioni come: “ha attaccato le mie argomentazioni”; “le affermazioni sono indifendibili”; “non ho mai vinto una discussione con lui”. C’è di più. Non solo infatti, durante le nostre discussioni, facciamo ricorso a metafore belliche, ma arriviamo persino a concepire tutte le azioni connesse all’esercizio della discussione come indissolubilmente strutturate dallo stesso concetto di guerra; la persona con cui stiamo discutendo è infatti il nostro avversario, attacchiamo le sue argomentazioni e difendiamo le nostre, pianificando l’uso di strategie per vincere. Le metafore, quindi, strutturano le azioni che compiamo.
Più recentemente, ispirato al lavoro di Lakoff e Johnson, Jeremy Lent (2017), nel suo libro The Patterning Instinct, racconta la storia dell’umanità a partire da metafore fondamentali specifiche di diverse culture che hanno guidato la storia del mondo. Secondo Lent, la cultura plasma i valori, e i valori plasmano la storia. I valori sono formati dalla cultura attraverso il linguaggio, che ha un effetto modellante sulla cognizione, su come vediamo, capiamo e percepiamo il mondo intorno a noi; diverse culture, quindi, creano le proprie metafore fondamentali per dare senso al mondo, e tali metafore forgiano i valori che guidano le (e sono alla base delle) azioni degli individui (Lent, 2017). Lent non crede che il linguaggio determini cosa l’individuo sia in grado di pensare, ma che il linguaggio influenzi il modo in cui pensa e concepisce il mondo. A differenza di Lakoff e Johnson, Lent non presenta però espressioni specifiche in cui le metafore fondamentali che descrive si presentano, e utilizza il termine “metafora fondamentale” per indicare l’aspetto cognitivo (ovvero come esse strutturano il pensiero dell’individuo), non necessariamente correlandolo a una specifica manifestazione linguistica, ma ad azioni ed eventi storici.
Già nel 2015 Stibbe spiegava come vi fosse una grande varietà di termini utilizzati per indicare le diverse concezioni del mondo e il loro legame con la lingua: miti, metafore, metafore fondamentali, paradigmi. Stibbe (2015) introduce l’espressione “storie-di-cui-viviamo” per racchiudere le diverse terminologie e riconnettere l’aspetto cognitivo del linguaggio alle sue diverse e specifiche manifestazioni. Le storie-di-cui-viviamo, infatti, secondo Stibbe assumono diverse forme nel linguaggio, che possono essere descritte come: narrazioni, metafore, ideologie, angolazioni, valutazioni, identità, convinzioni, assenze, rilevanze. Nello specifico, lo studioso introduce il concetto di storie-di-cui-viviamo nel campo dell’ecolinguistica, che investiga il rapporto tra lingua, cognizione e azioni, allo scopo di criticare e problematizzare storie che contribuiscono alla crisi ecologica e ricercare storie che ispirino l’individuo a riconnettersi con la natura. Stibbe spiega inoltre che gli ecolinguisti giudicano se le storie siano o meno distruttive, ambivalenti o benefiche per l’ambiente secondo la propria “ecosofia”, o filosofia ecologica. L’ecosofia è costituita dall’insieme di dati e fatti ecologici scientifici, concezioni del mondo e visioni normative per un futuro migliore per la società dell’ecolinguista.
Qui non indaghiamo se le storie che saranno presentate siano o meno sostenibili, ma presentiamo alcune storie che definiamo normativamente come non sostenibili. Ritengo comunque necessario specificare che l’ecosofia adottata in tale definizione è radicata in una concezione ecocentrica del mondo, presentata come alternativa sostenibile da studiosi in varie discipline (Corbett, 2006; Lopez, 2021; Lent, 2017; Stibbe, 2015; Curry, 2006) e nella convinzione della necessità dell’approccio sistemico alla crisi ecologica (Lopez, 2021; Capra e Luisi, 2014). Pertanto, le storie che verranno presentate sono state classificate come non sostenibili perché riproducono una visione antropocentrica del mondo – dove il più-che-umano esiste per essere utilizzato dall’uomo – e un approccio meccanicistico alla crisi ecologica.
Le insostenibili storie-di-cui-viviamo
Come argomentato, la concezione del mondo prevalente in Occidente è quella dell’antropocentrismo, che vede l’essere umano come superiore al più-che-umano, e il più-che-umano come esistente per essere utilizzato dall’uomo. Questo tipo di concezione del mondo deriva e allo stesso tempo contribuisce a rafforzare la narrazione dell’individuo umano come separato rispetto alla natura e come suo amministratore.
Questa narrazione è visibile, per esempio, nelle numerosissime immagini pubblicitarie che raffigurano la natura come un’immensa area selvaggia e incontaminata che aspetta solo di essere esplorata e conquistata dall’uomo. Un esempio di questo tipo si trova nelle pubblicità delle auto (Corbett, 2006). Questa narrazione ha due effetti deleteri sul modo in cui concepiamo e ci rapportiamo al più-che-umano. Il primo è che l’idea di natura che presenta colloca quest’ultima al di fuori dalla vita quotidiana della città e delle aree popolate. Ciò porta inevitabilmente l’individuo umano a percepire lo spazio quotidiano della città in cui vive come uno spazio non-naturale, dove non vi è natura, e che pertanto non subisce l’impatto delle sue azioni. Allo stesso tempo, questa narrazione contribuisce a percepire questioni ambientali (la crisi ecologica e climatica) come distanti e non connesse alla propria quotidianità.
Il secondo effetto deleterio è che tende a rendere invisibile l’impatto ecologico dell’utilizzo di varie tecnologie nella vita quotidiana. L’individuo umano si distingue infatti dal più-che-umano per l’utilizzo che fa delle tecnologie (dal fuoco alla macchina, allo smartphone). L’uso della tecnologia rende l’individuo umano parte del mondo civilizzato, e quindi estraneo alla natura selvaggia. In questo senso, la ricerca tecnologica e l’uso della tecnologia sono indiscutibilmente desiderabili perché confermano la separazione dell’individuo umano dal più-che-umano e della cultura (mondo civilizzato) dalla natura. Questa interpretazione del mondo rende invisibile l’impatto ecologico delle tecnologie su due fronti: in primo luogo nella dimensione individuale, per cui tecnologie come lo smartphone o le macchine elettriche non vengono concepite come connesse e impattanti per la natura, nonostante contengano al loro interno vari minerali la cui estrazione ha un ingente impatto ambientale; in secondo luogo, nella dimensione collettiva, per cui anche le decisioni sulle tecnologie più discusse nei contesti politici e accademici – come l’intelligenza artificiale – tendono a non tenere in considerazione il loro impatto ambientale.
La narrazione dell’essere umano come amministratore della natura si presenta quindi in due modi. Il primo è l’idea sottostante a determinate politiche ambientaliste secondo cui la preservazione della natura è legata alla sua bellezza e al suo valore terapeutico per l’essere umano. Il linguaggio e le immagini tipiche di questa storia sono quelle del romanticismo di Emerson e Thoreau, della natura indisturbata in cui l’uomo può sedersi a riflettere o a prendere una pausa dalla frenesia della vita quotidiana. Sebbene questo approccio possa sembrare innocuo per il più-che-umano, esso contribuisce invece a rafforzare l’idea del più-che-umano come privo di valore intrinseco ed esistente in funzione dell’essere umano; un’idea che, in definitiva, non è sostenibile, poiché mette in primo piano le necessità con logica a breve termine dell’individuo piuttosto che il benessere a lungo termine dell’ecosistema. Il secondo modo in cui la narrazione dell’essere umano come amministratore della natura si presenta prende forma nelle politiche e nelle discussioni sullo sviluppo sostenibile. Quest’ultimo consiste nel trovare strategie per gestire le risorse, come terreni, acqua e minerali, in modo responsabile, in modo da poter sostenere la crescita demografica ed economica nel futuro. Per quanto l’idea dello sviluppo sostenibile sia stata fondamentale per aprire una conversazione internazionale sull’impatto ecologico delle politiche e delle vite quotidiane, essa sul lungo termine non è sostenibile poiché postula che lo sviluppo e la crescita economica possano continuare indefinitamente nel futuro. Non solo questa visione è discutibile, considerando che la Terra è un sistema con un numero limitato di risorse, ma è anche pericolosa, poiché implica che la concezione del mondo alla base delle azioni che hanno condotto all’attuale crisi ecologica possa restare invariata.
Conclusione
Come siamo arrivati a questo punto? L´ecolinguistica suggerisce che le concezioni antropocentriche del mondo hanno guidato le azioni che ci hanno condotto all´Antropocene. Individuare e mettere in discussione concezioni del mondo naturalizzate – come lo sviluppo sostenibile e la storia dell´individuo come amministratore della natura – è pertanto fondamentale per tentare di risolvere la crisi ecologica. L´approccio tecno-scientifico non è abbastanza. Abbiamo bisogno di nuove storie-di-cui-vivere.
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Elisabetta Petrucci è dottoranda presso l'Università di Roskilde (Danimarca). Ha conseguito una laurea in Communications presso la John Cabot University a Roma ed un Master in Cultural Encounters and Communications presso l ́Università di Roskilde. La sua ricerca si concentra sul rapporto tra epistemologia, prassi e formazione della conoscenza. Il suo ultimo progetto investiga come i processi di dataficazione impattano sulle epistemologie della produzione della conoscenza, soprattutto in relazione alla crisi climatica.
Abram, D. (1997). The Spell of the Sensuous: Perception and Language in a More-Than-Human World, Knopf Doubleday Publishing Group.
Capra, F., & Luisi, P. L. (2014). The Systems View of Life: A Unifying Vision. Cambridge University Press.
Corbett, J. B. (2006). Communicating Nature: How We Create and Understand Environmental Messages. Island Press.
Crutzen, P. J. (2002). Geology of mankind. Nature (London), 415(6867), 23. https://doi.org/10.1038/415023a
Curry, P. (2006). Ecological Ethics: An Introduction. Polity.
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Lakoff, G., & Johnson, M. (1980). Metaphors we live by (New edition.). University of Chicago Press.
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López, A. (2012). The Media Ecosystem: What Ecology Can Teach Us About Responsible Media Practice. Evolver Editions.
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Stibbe, A. (2015). Ecolinguistics: Language, Ecology and the Stories We Live By. Routledge. https://doi.org/10.4324/9781315718071
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.