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La pigrizia anti-performativa di Duccio
Magazine, AUTOCOSCIENZA - Parte I - Gennaio 2024
Tempo di lettura: 9 min
Antonio Romano

La pigrizia anti-performativa di Duccio

Per un’autocoscienza dell’estinzione.

Fotogramma dalla serie Boris 4 con i personaggi Renè Ferretti e Duccio Patanè

Licantropi politici

Inaugurato in età moderna da Hobbes e ripreso in epoca contemporanea da Eisler, Canetti, Agamben, Derrida tra gli altri, il tema del sovrano-licantropo o signore-mostro sottende l’idea che una certa “irrequietezza” generi un corso di eventi: le energie distruttive del bisogno sono inesauribili e l’uomo non del tutto civilizzato è il vettore di questi appetiti regressivi potentissimi capaci di porsi come eventi significativi.11Nell’impero austro-ungarico, un ruolo simile è stato giocato dal folklore slavo, spesso tradotto in tedesco e rielaborato dall’intellighenzia di Vienna, epicentro normativo mitteleuropeo della civiltà (“disagiata”) che ben presto vedrà in Freud una voce capace di articolare queste forze animali – o comunque non proprio umane. 
Per questo appetito, può imporsi un leviatano: per la sua brama di conquista in lui c’è qualcosa di letteralmente irresistibile che eccita e seduce, nell’istintualità e nell’anticiviltà del famigerato animale politico c’è l’azione vorace del mostro nel mondo, nella sua crudeltà il suo carisma.

Questa tensione libidica dell’uomo occupa a lungo Nietzsche, che ha come nemici dichiarati la mediocrità e l’acquiescenza:22Quando ad esempio è la mediocrità della religione cristiana, anziché della filosofia socratica, a infastidirlo, i tratti di questa mediocrità sono l’ambiguità e la pigrizia della sua Chiesa (Volontà di potenza, sez. 247), rea di indurre falliti e malati (sic) a riprodursi, anziché autodistruggersi e scomparire.
sottolineando involontariamente il legame tra animalità e agency, per lui solo l’oltreuomo – non un potente ma un “oltrepotente” – ha diritto ad agire, il resto è massa gregaria e pietosa degna dell’estinzione. Nick Land, a proposito della guerra di Nietzsche contro la filosofia statica, osserva che «l’assoluto è il pensiero più pigro dell’umanità» e che «è una tale forma di pensiero, il cui esempio più eminente è il Kant della filosofia critica, che ha generato in Nietzsche la sua sfiducia per gli scrittori che lavorano comodamente seduti» (da Nietzsche sciamanico). La comodità permette al pensatore di pensare troppo, fino all’ovvio di ritrovare nel proprio intelletto i limiti dell’intelletto, cadendo in impasse, smettendo anche di credere all’agire. La risposta nietzschiana a questo è la “filosofia del martello”, la “dinamite”, vale a dire la famosa trasvalutazione di tutti i valori, concordemente con l’immagine del signore-mostro (l’abisso che guarda in te se guardi in esso), sebbene a un altro livello.

Paradossalmente – e mica tanto – questo modo di porsi nel mondo, che trasforma il singolo in leviatano, se adottato dalla suddetta massa, la trasforma in ciò che in Massa e potere Canetti chiama «muta», cioè il sostrato indifferenziato di fenomeni indifferenzianti come il totalitarismo. È la fame del licantropo, del mostro, del sovrano signore e padrone a generare l’impressione di un movimento, ma questa fame, se viene estesa e subisce un processo di normalizzazione, crea stasi: le masse sono condannate a soggiacere quanto più, regredendo all’istinto, si movimentano. Di contro, occorrono masse fedeli ben addestrate per permettere ai pochi di regredire e signoreggiare; esse possono, se proprio lo desiderano – e sempre lo desiderano – godere transferalmente dell’animalità tramite quella del signore-padrone: la “ricerca della felicità” (il miraggio del godimento, differito però indefinitamente nel transfert) rende la massa disponibile alla manipolazione, la speranza la espone a un ottovolante emotivo dove il piacere è sempre rimandato a favore del servire e la frustrazione la rende sensibile alla demagogia.

Matisse, The Black Shawl, 1917.

Il corpo inerte: (non) voler somigliare a niente

A una simile deresponsabilizzazione radicale, che fa del singolo sanguinario un signore e della massa la sua muta, se ne contrappone una speculare anti-demagogica, in cui lo sregolamento non va nel senso della deregolamentazione, ma della recisione di ogni rapporto, e dove l’estinzione non è determinata dal leviatano, ma perseguita autonomamente dal singolo: il ritiro ha come obiettivo sottrarsi alla tensione libidinale, all’entusiasmo, e cercare una dimensione più propria e autosufficiente (sostenibile?) della coscienza soggettiva, in cui quest’ultima sia davvero superata.

In una delle figure del corpo nominata da Canetti, «l’accoccolarsi»,33Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981, p. 477.
si manifesta sicurezza di sé e padronanza della situazione e contemporaneamente l’assenza di sé e l’indifferenza alla situazione:44«L’accoccolarsi esprime una mancanza di bisogni, un ripiegarsi su se stessi. Così facendo, si conferisce al proprio corpo la forma più circolare possibile e non ci si aspetta nulla dagli altri. Si rinuncia a ogni attività che implicherebbe una contropartita. Non accade nulla che possa suscitare una replica. Chi sta accoccolato sembra tranquillo e pacifico; da lui non ci si aspetta alcuna aggressione: egli è soddisfatto, sia che abbia tutto ciò che gli necessita, sia che non chieda più nulla per sé. Il mendicante accoccolato lascia intendere che sarebbe soddisfatto di qualunque elemosina: lui non fa nessuna distinzione» (Canetti, Massa e potere).
assume una composizione che somiglia a un atto affermativo e negativo insieme,55«È però anche peculiare di questo modo di star accoccolati la rassegnazione a tutto ciò che potrebbe accadere. Il medesimo uomo starebbe nel medesimo atteggiamento anche se divenisse un mendicante: continuerebbe, cioè, a essere sempre lui. L’accoccolarsi può contenere sia il possesso, sia il vuoto. Procedendo da quest’ultimo, esso è divenuto la posizione fondamentale della contemplazione: uno spettacolo familiare a chiunque conosca l’Oriente. Chi sta accoccolato si è separato dagli uomini, non si appoggia a nessuno e riposa in sé» (Canetti, Massa e potere).
come se alla fine di un profondo processo intrapsichico non rimanesse che superare la coscienza come un qualcosa che cerca soluzioni a falsi problemi. Il corpo designa questo stato equivoco fatto di autonomia e assenza insieme, la cui dimensione temporale è quella di un flusso lento e colloso, di un fluido non newtoniano: non ci si può tuffare sennò ci si schianta, occorre affondarci lentamente. Il corpo ritirato, ripiegato involtolato, rintanato, arroccato, sbarrato, chiudendo occhi e orecchie, rendendosi irreperibile a schermi di qualsivoglia natura, si sottrae alle contese del mercato dell’attenzione, all’investimento su se stessi, all’autovalutazione, senza nemmeno un «no comment».

Se l’accoccolato canettiano esprime un che di soft e compiuto (tanto che pure il signore potrebbe accoccolarsi senza paura di sminuirsi), quello restituitoci da Albert Cossery è incollato al giaciglio e conquista perciò un grado di innocenza66«La miseria brulicante che lo circondava non aveva nulla di tragico; sembrava celare in sé una misteriosa opulenza, i tesori di una ricchezza inaudita e insospettata. Una prodigiosa noncuranza sembrava presiedere al destino di quella folla: tutte le abiezioni vi assumevano un carattere d’innocenza e di purezza. Gohar si sentiva ricolmo di una simpatia fraterna; a ogni passo, gli appariva la futilità di tutta quella miseria, e ne era affascinato» (Cossery, Mendicanti e orgogliosi).
che manca al signore. 

Nell’incipit di Mendicanti e orgogliosi, il sonno da cui si risveglia Gohar è una membrana appiccicosa varcata la quale ci si ritrova in uno stato allucinatorio quanto il momento della venuta al mondo, e, nei Fannulloni della valle fertile, il piccolo Serag è preso nelle spire di questa indolenza invincibile che lo porta a stupirsi dell’energia che un ragazzino come lui mette nel dare la caccia a degli uccelli.77«Il ragazzino continuava la sua caccia con una rabbia accresciuta. Ciò non aveva più nulla di umano; sembrava una forza demoniaca che si accaniva nel vuoto. Serag lo guardava senza crederci, lo spirito annichilito dallo stupore. Era assillato da un imperioso bisogno di sonno. Ma come dormire davanti a questa visione assurda e sconcertante? In fondo, quel che lo sgomentava in quest’agitazione forsennata, era il mistero che sembrava nascondere, il mistero d’un universo mostruoso, riempito di uomini subissati di lavoro e che soccombono nello sforzo. Non era possibile sbagliarsi. Serag riconosceva nel delirio insensato del ragazzino tutti i segni di un’umanità laboriosa e braccata. Mai sino ad allora il mondo degli uomini votati alla schiavitù l’aveva colpito con questo strano vigore» (Cossery, I fannulloni della Valle fertile).
Cossery, attraverso gli occhi di Serag, rende la complessità dell’indolenza di chi incredibilmente è nato già ritirato e il suo stupore dinanzi alla foga animalesca del coetaneo cacciatore d’uccelli o del lavoratore, addirittura dinanzi al lavoro in quanto frenesia incompatibile con la sopravvivenza fisica: alla sua mente sfugge quella condizione del corpo, poiché la condizione del suo è mantenere lo stato prenatale di perfezione dell’accoccolato, del sonnecchiatore.88«Serag aveva sentito dire che gli uomini lavoravano, ma erano soltanto storie che si raccontavano. Non riusciva a crederci del tutto. Lui stesso non aveva mai visto un uomo lavorare, al di fuori di quei mestieri futili e ridicoli che non avevano nella sua mente alcuna valida attrattiva. Era tuttavia un desiderio radicato in lui da molto tempo, di vedere uno di questi uomini che lavorano duramente con le loro mani e portano le stigmate d’una fatica estenuante. Ma gli era molto difficile riuscirci…» (Cossery, I fannulloni della Valle fertile).
Serag appartiene a un’umanità che non si sprecherebbe mai nel cercare il “benessere”, nello yoga, nella ricerca interiore, nel lavorare in cerca di (auto)riconoscimento. Il suo ancoraggio a sé è indistruttibile, fatto di quella vischiosità che per lui è l’ingresso nella sua vera dimensione, il sonno. Non è toccato nemmeno dall’ansia da prestazione: nel sesto capitolo dei Fannulloni, Serag è sul punto di fare l’amore con Hoda, che «aveva per lui un attaccamento ostinato da bambina, una sorta di amore vizioso e torbido», e mentre «le mordicchiava i capezzoli che sporgevano attraverso il vestito. Lei si lasciava fare, l’aria felice e birichina. La testa di Serag le si appesantiva sul seno, lo sentiva sul punto di addormentarsi».

Cossery, però, ammette ancora la possibilità che nel ritiro, pure così profondo, si annidi la capacità di un ampliamento, di un amore che si (de)realizza puntualmente alla fine del romanzo, del resto nemmeno il bacio è più contagioso dello sbadiglio.99«Serag fece un grande sbadiglio; Hoda lo guardò e si mise anche lei a sbadigliare. Poi si strinsero l’uno contro l’altra e si addormentarono, indifferenti alle forsennate fatiche degli uomini, sotto il lento sguardo delle stelle oziose» (Cossery, I fannulloni della Valle fertile).

Salvador Dali, Sonno, 1937.

La confutazione (a)sessuale di Duccio

Un personaggio della serie tv italiana Boris, il direttore della fotografia Duccio Patané, è l’esempio più nitido, radicale, lucido, attuale di questo approccio neo-stoico: il suo rintanarsi solitario (per indugiare nell’uso di cocaina e dormire) esprime il bisogno, tipico in qualsiasi altro fannullone accidioso oblomoviano della storia, di ritrovare se stesso perdendosi nel – secondo la grafia di Antonio Rezza – son(n)o.

In Duccio c’è il tipo umano del pigro, spesso bullizzato dall’ordine sociale o familiare in quanto componente riluttante della collettività, la cui pigrizia scandalizza e irrita. Le figure genitoriali, assumendo il ruolo di emissari del mercato della formazione e del lavoro, anziché rispettare il bisogno di pace e annullamento del pigro, lo spronano “a darsi da fare”; quelle educative, preparandolo anch’esse al mondo del lavoro che semplicemente lo sfrutta e lo scarta in quanto quiet quitter o affetto da burn out, lo obbligano ad “applicarsi” per offrire una buona prestazione scolastica; una volta tornato a casa, poi, i familiari lo criticano e rigettano come un inquilino odioso o un genitore assente.

I ritirati non disdegnano necessariamente appetiti e riconoscimento, ma li relativizzano dinanzi alla beanza del procrastinare, e una prelibatezza gastronomica o erotica non sono a priori escluse ma rinviate: “altri cinque minuti”, invoca ogni volta il sonnecchiatore. E progressivamente si allontanano l’uno dall’altra nello scarto di due diverse temporalità, mentre il piacere si stressa fino a divenire una macchina diafana impantanata nella colla del sonno, dove invece resiste nell’autosottrazione un godimento – quello della rinuncia – che va oltre il partecipare degli appetiti, anche per interposto tiranno, amante, genitore ecc. 

Se in una prima fase di questo processo di ritiro si verifica il fenomeno dell’immedesimazione1010Prima Marco Aurelio (Pensieri, IV 3) e poi, sulle sue orme, Ortega y Gasset (L’uomo e la gente) hanno chiamato «immedesimazione» il rientrare del sé in sé medesimo, dove ha luogo la «ri-flessione» (processo di doppia curvatura che fornisce il quid essenziale per renderci effettivamente umani oltre che umanoidi).
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in una fase ulteriore scompare anche questo medesimo cavo in cui rientrare, cioè scompare la possibilità di una coscienza che si conosce e con ciò diventa impossibile ogni platonismo e ogni metafisica, ogni meditazione e ogni Oriente, ogni “risveglio” e ogni “wellness”. Non c’è più un sé che si raccoglie in se stesso: si è assentato nei flussi di questo – non più cavo – medesimo, occupato dalle visioni e allucinazioni autoprodotte dall’informe esperienza del sonnecchiare, dal buio vuoto. Interdetti alla realizzazione, immersi in un fascio di onde che non si cosalizza, i membri di questa umanità insondabile si ritrovano proprio là dove si perdono, nel momento della negazione si determinano come individui autonomi: la decisione di assentarsi li individualizza più della decisione di agire.1111Un’incursione nella parte più post-moderna della  Italian theory è doverosa: se l’incredulità nelle metanarrazioni annulla il superamento della dialettica servo-padrone – così sdrammatizzando la tragicità della mortalità –, annulla pure il processo di assoggettamento-soggettivazione che implica (Dario Gentili, p. 126), sicché la domanda è se la rinuncia al conflitto (tema di Cacciari in Krisis) sia effettivamente una forma – pur debole – di soggettivazione. Ma «se la modernità si definisce come l’epoca del superamento, della novità che invecchia ed è sostituita subito da una novità più nuova, in un movimento inarrestabile che scoraggia ogni creatività e al tempo stesso la esige e la impone come unica forma di vita – se è così, allora non si potrà uscire dalla modernità pensando di superarla» (Vattimo, La filosofia del mattino). L’eziologia dell’alternativa di Duccio (il suo “chiudersi a riccio”, che mostra una soggettivazione non solo senza conflitto, ma fuori dal meccanismo del superamento e soprattutto – senza ricorso alla mistica o a “irrazionalismi” vari – fuori dalla categoria del superamento critico) è sorprendentemente organica alla Italian theory.
 

Lo shifting progressivo di Duccio (il quale dice di sé: «Ci sono eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli, chi ha orecchie per intendere intenda») è una consapevole esenzione dell’ego prima che un atto di insubordinazione contro certe aspettative socio-professionali, perciò egli può attraversare tanti stadi del ritiro – assenteismo, astensionismo, astinenza, asessualità, ageneratività, cecità – con incrollabile disfattismo. Amplificando il movimento di ritrazione arriva alle dimissioni dalla natalità, e i nessi tra riproduzione, sessualità e genitorialità risultano dissolti.1212Sottrarsi alla natalità significa sottrarsi al relativo mercato del valore personale basato su restrittive caratteristiche fisiche, psicologiche, reddituali, di status, ed è allettante perché, se per partecipare a questo gioco bisogna venire selezionati secondo questi criteri da dei propri simili, per principio non bisognerebbe parteciparvi.
Il ritiro da ogni forma di “commitment” e “accountability”, arrivando a confutare la natalità, da un lato relativizza l’ultimo argine alla scomparsa della natura1313Se non la genitorialità, la natalità resiste al collasso dei generi rimanendo, in primo luogo, un fatto che prevede l’esistenza di due generi sessuali e, in secondo, il tema-limite di ogni rivendicazione emancipatoria, perché ciò che viene definito «far famiglia» è vettore privilegiato di rivendicazioni che vedranno – alla fine di ogni altra dialettica – chi può procreare contro chi non può.
(sebbene siamo già in epoca post-naturale) e dall’altro invoca sul piano etico un triplice argomento contro la natalità,1414Tale argomento, messo in mostra da filosofi come Benatar e rivendicato da quanti “fanno causa” ai propri genitori per averli fatti nascere senza loro consenso, è: far nascere qualcuno è sempre una violazione del consenso, nascere comporta sempre un certo dolore connesso al vivere breve o lungo che sia, dunque non è mai etico costringere qualcuno a venire al mondo. Chiaramente è un trilemma paradossale, irricevibile, rivelatore: l’abbandonarsi rivela in chi si abbandona questo crimine, poiché non ha chiesto lui di nascere e, aggiungendo il dato soggettivo (cioè: non avendo lui chiesto di nascere “così”), abbiamo l’istanza-chiave di ogni rivendicazione socio-ideologica.
per il quale si arriva – con metonimia serrata – alla conclusione che far nascere qualcuno è sempre una crudele costrizione degna appunto di un tiranno o di un mostro. La strategia di ritardare questo «I would prefer not to» dalla nascita alla procreazione è un mezzo di resistenza negativa che a prima vista smitizza una certa istituzione, ma di base mina il sistema della proattività obbligatoria a favore di una condizione in cui – unica cosa che sappiamo e su cui si concorda – il tempo rallenta. 

Al di là dei paradossi etici,1515Questa aporia si risolve laddove si relativizzi totalmente il valore della vita. Qui antinatalismo e nichilismo non coincidono per una differenza capitale: se nascere o non nascere, in fin dei conti, fosse ugualmente irrilevante per l’antinatalista così come lo è per il nichilista, il suddetto problema etico del consenso violato del nascituro perderebbe pregnanza, ma per lo più questa relativizzazione non viene fatta e il tema etico antinatalista (ogni nascita si fonda su un abuso di potere) mantiene la sua aura scandalosa e pseudo-nichilista.
desiderare estinguersi – come individuo, casato, stirpe o specie non fa differenza – esplicita un afflato malthusiano simile a quello di chi non fa figli “in un mondo come questo” (qualsiasi cosa significhi), infatti, non i venuti al mondo, ma i trascinati rappresentano una categoria di vittime indecostruibile: vedranno sempre nella vita una truffa o un abuso e comunque un giro a vuoto, magari non trovando il coraggio di suicidarsi. Senza risarcimento possibile per il crimine originario che hanno subìto, la civiltà trova nell’ingratitudine dei trascinati al mondo il suo disagio, poiché, se del mettere al mondo ci si può alla fine disinteressare, dell’essere nati non ce ne si può fare mai una ragione. Davanti a questo svuotamento, superato anche il momento dell’autocoscienza, ormai liquefatta e liquidata, avviene il rallentamento del tempo, vero grande fenomeno del ritiro: il tempo, decongestionato della speranza e dell’appetire (proiezione e produzione dell’io), è sorprendentemente immobile, come la filosofia odiata da Nietzsche, oppure come il pensiero (o non-pensiero) che vi si arena.

Quando un altro personaggio di Boris, il tecnico delle luci Biascica, è ri-piegato sul suo dolore per l’incrinatura di un mondo sul punto di finire, Duccio lo consola con una confutazione del tempo basata sulla felicità: «Goditela questa infelicità, Biascica. La felicità fa andare più veloce il tempo. La felicità ti avvicina alla morte. Bisogna usarla con cautela. Goditi la tua infelicità, lentamente». Come il sonno, l’infelicità rallenta l’apocalisse e consente di contemplarla: ironico che da chi perde la vista provenga un monito sulla visione, ma per questo Duccio incarna l’archetipo del cieco che contempla il tempo, e invita a farlo fotogramma per fotogramma, per non perdersi nulla di questa estinzione senza tracce.

Henri Rousseau, La zingara addormentata, 1897.
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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Antonio Romano
  • Antonio Romano, scrittore e saggista. Nel 2008 fonda con Luigi Fasanella l’etichetta discografica FaRo Records (http://farorecords.com/) vincitrice della nona edizione del talent XFactor. Pubblica su riviste accademiche di filosofia e antropologia. Scrive su siti di tematiche culturali. Collabora con testate giornalistiche e riviste di politica, economia, arte. Nel 2014 vince il premio Building Apulia della Regione Puglia (https://www.antonioromano.eu/tecanews-n-48-2015_-torinodoc/) per il saggio Glue. Estetica urbana dai graffiti alla pornografia (Bruno Mondadori, Milano 2015), presentato al Salone internazionale del libro di Torino. In seguito lavora per tre anni come esperto di comunicazione nella PA. Dal 2018 al 2020 tiene presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce i corsi di Sociologia dell’arte e di Storia e teoria dei nuovi media. Nel 2021 è invitato a esporre “K\afkian\nowledge – About N.44 and Mistress Q” all’Università Bicocca.
Bibliography

Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981.

François Cossery, I fannulloni della Valle fertile, Einaudi, Torino, 2016.

François Cossery, Mendicanti e orgogliosi, E/O, Roma, 2008.

Dario Gentili, Italian theory, il Mulino, Bologna, 2012.

Nick Land, Collasso, Luiss University Press, Roma, 2020.

Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 1992. 

Gianni Vattimo, La filosofia del mattino, «Aut aut», 202/1984.