Una delle cose più insolite che possa capitare di fare oggi è lo zapping. Questo neologismo, che negli anni ruggenti della TV commerciale rappresentava una sorta di antidoto alla presenza massiccia della pubblicità, è oggi qualcosa di semisconosciuto. I motivi di questa scomparsa (o estinzione) sono molteplici, la TV come la conoscevamo qualche anno fa è stata quasi del tutto sostituita da nuove piattaforme on demand che si basano sui princìpi di Internet e che propongono agli users11Nel delineare le differenze tra fan e follower, Tiziano Bonini sostiene che: «Entrambi condividono la stessa radice, cioè quella di essere parte di un’audience, di essere membri di un gruppo di spettatori che seguono con attenzione e con passione la performance di qualcuno, sia esso un politico, uno sportivo, un artista». Alle due categorie intendo aggiungere quella generica degli users as producer, ovvero di quella parte (ormai maggioritaria) di audience che performa il ruolo di produttore di contenuti.
(non più ai telespettatori) dei contenuti sempre disponibili. Da un punto di vista esplicitamente personale credo che il valore dello zapping possa associarsi alla noia e alla navigazione apatica e multifinestra in cui spesso si cade quando si sta su Internet. Due forme di alienazione mediatica: una lineare, come lo zapping, e una a più livelli, come quella della navigazione apatica, che rispondono a logiche simili. Secondo Lev Manovich a differire sono soprattutto le forme di montaggio spaziali. Grazie a Internet siamo in grado di ricevere una proliferazione intrinseca di più immagini nella stessa, un’addizione di livelli che costituisce la differenza fondamentale con il cinema e la televisione, che invece consentono un montaggio quasi esclusivamente temporale basato su associazioni lineari di immagini.22L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002.
Nonostante tali differenze va ammesso che oggi, in un macrosistema mediatico fatto di interconnessioni, è molto più facile passare agevolmente dalla televisione a Internet e, consequenzialmente, avere la possibilità di cercare su altre piattaforme quei lacerti testuali captati en passant dalla nostra attenzione in un’ipotetica e rara sessione di zapping. Lo spunto testuale da cui intendo partire sono andato a cercarlo su Internet, pur essendomi giunto all’attenzione in una di quelle piacevoli sessioni di zapping in cui ancora testo l’efficienza del telecomando. In un episodio della serie Criminal Mind, Aaron Hotchner dichiara: «Tutti i cambiamenti, anche i più desiderati, hanno la loro malinconia, perché ciò che lasciamo dietro è una parte di noi. Dobbiamo morire in una vita prima di poter entrare in un’altra». Tale aforisma mi ha spinto ad avviare una riflessione sul passaggio del testimone e di come, in ambito mediatico, il tema della morte sia stato affrontato rispettando e tradendo le specificità di ogni singolo medium.33Nel procedere in questo percorso, si passerà spesso a confronti trans-storici tra media diversi, in ottemperanza alla necessità di rispondere a un bisogno di chiarezza sull’identità, lo statuto e la localizzazione dei media stessi che, inseriti in una dimensione uniformante come quella del digitale, necessitano di essere ri-descritti da un punto di vista ontologico. Si procederà dunque a un’escavazione archeologica dei media che è al momento una disciplina-non-disciplina ma di cui molti studiosi hanno iniziato a occuparsi da tempo. Per un’antologia in italiano sull’archeologia dei media si consiglia: G. Fidotta, A. Mariani (a cura di), Archeologia dei media. Temporalità. Materia, tecnologia, Meltemi, Milano 2018.
Testimonianze
Una serie di domande mi hanno portato a riflettere sull’atteggiamento che si è tenuto e ancora si tiene rispetto alla rappresentazione della morte. In che modo, seppur stigmatizzata e de-ritualizzata, la morte resta al centro delle rappresentazioni mediatiche? Perché le piattaforme di video sharing sono piene zeppe di video di gente che si riprende accidentalmente mentre muore? La risposta a queste domande sta nei media stessi, o almeno nella storia stessa dei media. In realtà, volendo guardare a ritroso, è possibile ricostruire come l’interesse verso la morte da parte dei singoli media abbia attraversato la storia delle rappresentazioni, e nel nostro caso specifico è possibile ricostruire il modo in cui è maturata una certa distanza dalla sacralità (tabù) della morte rappresentata a favore di una sua ostentazione. Osservando la collezione dell’anatomista Frederik Ruysch44Frederik Ruysch (1638-1731), scienziato e medico olandese che perfezionò il metodo anatomico, nonostante debba gran parte della sua notorietà a una particolare pratica di conservazione dei cadaveri che lo condusse, attraverso l’iniezione di preparati innovativi, a ottenere delle mummie assai diverse da quelle del passato. Se quelle antiche, infatti, esprimevano chiaramente l’aspetto della morte nella loro caratteristica secchezza, Ruysch riuscì a dare alle sue “creazioni” un’apparenza di vita. Lo scienziato allestì inoltre un vero e proprio museo di tali composizioni che, collocate nel loro contesto storico, rispondono al gusto bizzarro dell’epoca barocca. Giacomo Leopardi vi dedicò un dialogo nelle sue operette morali (Cf. G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in Operette morali, Feltrinelli, Milano 2014).
si può notare come, già nel XVII secolo, la conservazione e la disposizione dei reperti anatomici (mummie, scheletri, organi ecc.) rispecchiassero i canoni della rappresentazione pittorica barocca fiammingo/olandese, a sua volta fortemente attratta dalle lezioni di anatomia dei vari Ruysch, Tulp, Deyman. Una produzione pittorica dalla fortuna critica non limitata al barocco, infatti, le famose lezioni di anatomia, quelle di Rembrandt o di Jan van Neck, seppur prodotte sulla scia di uno “spirito” in cui la morte diviene oggetto bizzarro che attrae e respinge, ritornano ad acquisire un valore scientifico anche nei tempi a venire.
Esporre e studiare il cadavere ha una valenza tale che: «Queste mummie costituiscono un tesoro senza pari in termini sia biologici che storici», come sostiene Piombino-Mascali, beneficiario di un fondo di ricerca dell’Expeditions Council del National Geographic55Cf. J. Berlin, I segreti delle mummie siciliane, «National Geographic», 30 gennaio 2013.
e protagonista di un curioso incontro nell’estate del 2015 con l’artista Lois Weinberger nella Chiesa Madre di Piraino, in Sicilia. Quel Weinberger che, in occasione di Documenta 14 ad Atene, ha esposto il lavoro Debris Field (2010-16), in cui la disposizione tassonomica dei reperti provenienti dagli scavi del cortile della fattoria dei suoi genitori nel Tirolo austriaco diventa un prontuario etnologico. Tra i reperti esposti da Weinberger vi erano anche una serie di animali mummificati che ci dicono molto della vita rurale. La morte, quindi, nella sua disposizione pittorica o installativa, può assumere valenze etnografiche, scientifiche, ritualistiche; la sua rappresentazione non è mai pertanto solo ed esclusivamente una presa d’atto, ma a sua volta un dispositivo. Ma che cosa avviene quando a essere esposta (condivisa) è la sequenza video di un evento luttuoso? Qual è il motivo per cui vi sono così tante sequenze filmate di eventi tragici? E infine che cosa spinge una persona, estranea all’evento luttuoso, a condividere le immagini in movimento di quello stesso evento?
Chi ha ucciso Narciso?
Nel 2005 nasceva YouTube, una piattaforma di video sharing creata da Jawed Karim, Chad Hurley e Steve Chen66Il 10 ottobre 2006, i tre fondatori hanno ceduto YouTube per 1,65 miliardi di dollari a Google Inc.
. La storia del primo contenuto caricato sul portale, il video intitolato Me at the Zoo, in cui è proprio Karim il protagonista principale di un video di soli 19 secondi, è una sorta di avvertimento che oggi, con il vantaggio del tempo, riusciamo a cogliere appieno. Karim è ripreso a mezzobusto, mentre si trova di fronte a due elefanti che mangiano del fieno. Il giovane informatico sembra abbastanza imbarazzato e così, dopo aver descritto gli elefanti sottolineandone l’eccezionalità delle proboscidi, conclude il primo video-discorso pubblico della storia del video sharing con un emblematico «and that’s pretty much all there is to say».
Eppure quella prima esperienza di relazione interno-esterno tra la videocamera e il soggetto ripreso e poi consapevolmente condiviso e reso pubblico – Karim sarà il primo utente in assoluto a loggarsi su YouTube con il nickname jawed – mostra alcuni elementi che diventeranno prototipi per milioni di video successivi. Il giovane non sa come riempire uno spazio di cui conosce solo l’esistenza e le possibilità, ma espone se stesso come contenuto allo scopo di colmare quel vuoto. Con Me at the Zoo siamo ancora agli albori del network, che però dimostra già di avere un’identità ben precisa. Nonostante i 13 anni di età (quasi un’era geologico-digitale), YouTube è ancora oggi e sarà a lungo una piattaforma in cui alcune esperienze di conoscenza del sé mediante il video diventeranno esperienze di neofitizzazione77Il termine neofitico (da cui l’azione della neofitizzazione) è abbastanza utilizzato in ambito botanico per descrivere quei processi di “inquinamento” o colonizzazione neofitica in cui specie adattive si instaurano in territori interessati da cambiamenti e/o antropizzazione repentina. In questo caso va inteso come un’assuefazione narcisistica all’uso del video a fini di autorappresentazione.
al video stesso. Gli “indicatori”88Mutuo il processo dall’osservazione scientifica in cui l’indicatore deve essere uno strumento sintetico, ma allo stesso tempo efficace e in grado di fornire una descrizione quanto più accurata possibile di un fenomeno. Esso deve essere in grado di descrivere una situazione ambientale utilizzando un numero limitato di parametri oltre che semplificare la comprensione del fenomeno in modo che il valore informativo che deriva dall’indicatore stesso sia facilmente utilizzabile dai “non addetti” ai lavori.
di questa esperienza corrispondono al criterio generale di rappresentazione semplificata e riduttiva dei cambiamenti del fenomeno dell’autorappresentazione.
YouTube ha agevolato la transizione dall’audience come consumatore all’audience come produttore/consumatore. Un processo tuttavia avviato cronologicamente prima della nascita di YouTube e precisamente con il circuito videocamera-monitor. Un circuito chiuso che negli anni ’60-’70 ha innescato una spirale vertiginosa con l’incremento dell’utilizzo di questo “nuovo” device dell’immagine. Un meccanismo, quello del video a circuito chiuso, che ha visto l’antropizzazione e neofitizzazione di milioni di fruitori e users, e che assomiglia molto a quanto continua ad accadere a ogni essere umano che si guardi allo specchio. Un esercizio, quello dello specchiarsi, che nonostante i secoli di pratica e confidenza, non ha perso la propria carica neofitizzante. Rosalind Krauss ha osservato un certo atteggiamento narcisistico dell’artista di fronte al video,99Si pensi al video non come lo si conosce oggi, ma come un circuito chiuso in cui una videocamera inviava le immagini a un monitor producendo un effetto di fade out tra immagine ripresa e immagine mostrata.
e in Video: The Aesthetics of Narcissism, pubblicato nel 1976 su «October», la Krauss, descrivendo Centers (1971) di Vito Acconci, afferma: «What we see is a sustained tautology: a line of sight that begins at Acconci’s plane of vision and ends at the eyes of his projected double. In that image of self-regard is configured a narcissism so endemic to works of video that I find myself wanting to generalize it as the condition of the entire genre. Yet, what would it mean to say the medium of video is narcissism?».1010R. Krauss, Video: The Aesthetics of Narcissism, in G. Battcock (a cura di), New Artists’ Video, E.P. Dutton & Co, New York, p. 44.
Una posizione, quella di Krauss, che sposta l’attenzione del dibattito sui media dalla condizione fisica del medium a quella sostanzialmente psicologica. In particolare, la studiosa statunitense mette in relazione il proprio punto di vista sul video quale medium del narcisismo con quanto affermato da Sigmund Freud, che sostiene che la condizione di narcisismo avvenga nel passaggio dalla “libido oggettuale” alla “libido dell’ego”. In tale condizione il narcisismo non può che produrre quel costante rinnovamento dello stato di alienazione, che porta a una condizione di immutabile frustrazione, ma anche a un forte desiderio di ripetere l’esperienza. Un oscillare perpetuo dell’io che, posto di fronte all’immediatezza dell’immagine video, si respinge e si attrae.
Jawed Karim stava dunque provando la sua prima esperienza di condivisione pubblico-narcisistica di un’immagine in movimento. Un’esperienza repellente e attraente che rappresenterà il principale motore del successo di YouTube.1111Tengo a precisare che la posizione di Krauss sul video è solo una (forse la prima) tra le tante che prova a dare un inquadramento estetico/teorico a questo medium ed è quindi doveroso ricordare, tra i tanti, il punto di vista sulla relazione video/memoria di M. Sturken, The Politics of Video Memory: Electronic Erasures and Inscriptions, in M. Renov, E. Suderburg (a cura di), Resolutions: Contemporary Video Practices, University of Minnesota Press, Minneapolis 1995; oppure quello di M. Lazzarato che insiste sulla relazione flusso-temporalità del video nel capitolo Video, Flows and Real Time di Video-Philosophy.
Il video, destinato alla nuova video-sharing-culture, ritrova alcune delle caratteristiche del circuito chiuso con cui Vito Acconci, Dan Graham, William Wegman, John Baldessari e altri avevano iniziato a lavorare negli anni Settanta. Il monitor/specchio, che era servito come un diario, uno spazio per la teatralità personale e una reazione ironica e giocosa alla monodirezionalità della televisione commerciale, torna in YouTube e ribadisce il carattere personale della propria azione. Lo slogan «broadcast yourself»1212Broadcast Yourself è stato lo slogan di YouTube tra il 2005 e il 2012.
rappresenta il compimento narcisistico della comunicazione video, una liberalizzazione che è innanzitutto autonarrazione.1313Ovviamente non solo un’autonarrazione; fatta eccezione per alcune restrizioni territoriali di censura, YouTube ha contribuito alla diffusione di contenuti e mutato sostanzialmente persino la narrazione fattuale. Per un approfondimento si vedano: J. Chapman, Issues in Contemporary Documentary, Polity Press, 2009; E. Balsom, H. Peleg, Documentary Across Disciplines, MIT Press, Cambridge MA, London 2016.
Il video, dunque, seguendo questa logica, agevola una dimensione di autorappresentazione, poiché – a differenza del cinema e della fotografia – consente agli users di chiudere un circuito in cui l’immagine ripresa viene mostrata su un monitor in tempo (quasi) reale. Un circuito che, da un punto di vista media-archeologico, anticipa quello della microcamera frontale sugli smartphone che ha consentito agli users contemporanei di autoriprendersi e autofotografarsi monitorando costantemente i risultati come di fronte a uno specchio.1414Sulle piattaforme di vendita di applicazioni per smartphone e tablet (Google Play, Appstore, Aptoide ecc.) sono disponibili centinaia di applicazioni specchio che trasformano lo schermo degli smartphone in veri e propri specchi.
Guardarsi e fissarsi ci espone pericolosamente al “fastidio” della delocalizzazione dello sguardo, scaraventandoci verso il «vertiginoso baratro dell’esperienza di sé», come lo definisce Hans Belting.1515H. Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 222.
Quello stesso baratro in cui Narciso perde la vita, inghiottito dal fondo oscuro del suo specchio d’acqua.
Chi ha quindi ucciso Narciso? Ma, soprattutto, è possibile attualizzare l’esperienza del mito greco all’attitudine contemporanea di autospecchiarsi? A quanto pare, per rispondere alla prima domanda, non possiamo avvalerci di prove indiziarie, dato il tempo e la nebulosità fattuale che circonda l’episodio, ma potremmo ipotizzare che l’assassino di Narciso sia stato proprio quel dispositivo creatosi tra il riflesso e quel senso d’amore di sé per cui ricordiamo retoricamente la figura mitica.1616Il mito di Narciso in cui la morte sopraggiunge a purificarlo dalla sua presunzione e dalla supposta illusione datagli dall’amore di sé, è una forma di moralizzazione operata in età medievale al testo di Ovidio, che poi si è affermata all’interno della tradizione culturale cristiana occidentale.
Una pozione letale che conduce a un «amore di sé [che] si realizza nello sguardo»1717Belting, cit., p. 223.
. Oggi possiamo sostenere che, attravero l’uso costante delle autoriprese video, riattualizziamo la medesima dissociazione dell’io di Narciso, producendo un disturbo di personalità connotato da una mancanza di sensibilità verso gli altri, a cui si somma un’ostentazione di grandiosità e il bisogno continuo di adulazione.1818C. Fishwick, I, narcissist – vanity, social media, and the uman condition, «The Guardian», 17 mar 2016.
La costante autorappresentazione, così come “la contemplazione del sé”, ci porta alla produzione dell’amore di sé.1919Belting, cit., p. 226.
Un meccanismo tautologico amplificato dai device dell’immagine che agevolano e modificano le modalità di rappresentazione della realtà, e in cui in modo contraddittorio si rafforzano sia le pretese verso una vita materiale potenzialmente interminabile sia i rischi della morte. Nel narcisismo contemporaneo convivono sia una funzione antropocentrica dello sguardo, mediante cui è possibile conoscere e riconoscersi, che il fascino per la caducità stessa di quelle immagini in cui ci si specchia e si sparisce.
Diversi gradi di media-mortalità
Nel contesto attuale della media pervasiveness e della convergenza dei media,2020Secondo Henry Jenkins i contenuti della comunicazione contemporanea possono essere declinati in ogni formato e sono in grado di spostarsi da un mezzo all’altro in modo da poter essere distribuiti capillarmente in un panorama mediatico convergente (cf. H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007).
lo schema video/specchio si pone sia in continuità che in opposizione a tutta una cultura ritualistica premoderna in cui lo specchio veniva coperto nei giorni del lutto.2121Coprire lo specchio è un’usanza della tradizione ebraica, ancora molto diffusa nell’Italia meridionale e un tempo abbastanza comune anche nell’Inghilterra vittoriana. Questo rituale risponde a una prescrizione le cui motivazioni hanno a che fare con la qualità intrinseca degli specchi di riflettere e catturare l’immagine. Quindi, se da un lato si teme che l’anima proiettata fuori da una persona sotto forma del suo riflesso possa essere portata via dallo spirito del defunto, che comunemente si crede rimanga ancora in casa fino al suo funerale, dall’altro si sostiene che sia meglio evitare il volto della morte, oppure che sia necessario evitare che l’anima del defunto resti intrappolata in uno specchio e, quindi, sulla terra (cf. J. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 234).
Tale stato rovescia l’accezione negativa dell’idolatria della propria immagine in un’interpretazione filosofica di sé in cui l’io diventa unico elemento agente. Possiamo affermare che il circuito video è l’immagine della vita: il qui e ora, lo sguardo simbolico verso la conoscenza, il flusso continuo in cui l’atto di pre-visionarsi garantisce la presenza. Una forma di pensiero, dunque, che per contrasto fa maturare un senso di disagio nei confronti della morte. Essa rappresenta l’interruzione, e in molti casi la sconfitta, dell’illusione che la scienza (la tecnica) possa darci la vita eterna. La morte è un bug che porta al collasso di tutti gli strumenti che potenzialmente dovrebbero allontanare l’arrivo dell’inesorabile fine. In The Pixelated Revolution (2012), l’artista libanese Rabih Mroue guarda proprio al video per analizzare i limiti fisici della camera in soggettiva nella produzione dell’immagine di guerra. Il lavoro, realizzato durante la prima fase del conflitto siriano, in cui la circolazione delle immagini di guerra non era ancora capillare, riutilizza i video dei ribelli siriani impegnati nel conflitto contro il regime del presidente Bashar al-Assad. La videoperformance di Mroué racconta come i ribelli abbiano impiegato i telefoni cellulari per filmare i cecchini dell’esercito regolare e come questa azione documentaria li abbia portati alla morte. Mroué ha collezionato e poi montato varie sequenze video, caricate su YouTube, in cui coloro che inquadravano i cecchini venivano da questi uccisi durante la ripresa video. Ci troviamo di fronte a casi in cui non è la morte a essere filmata, ma è l’atto stesso di filmare a condurre alla morte. In altre parole, una condizione in cui il video non innesca il meccanismo narcisistico dell’autoriflessione, ma in cui il circuito si chiude nell’intersezione sguardo-proiettile.
Le sequenze filmate delle morti condivise sulle piattaforme di video sharing sono invece il risultato di un’occorrenza che denota l’affermarsi di alcune forme di mostrazione web con cui abbiamo iniziato a familiarizzare proprio alla fine degli anni ’90. Nel 1996 veniva registrato un dominio che avrebbe cambiato radicalmente la sensibilità dei primi Net Surfers rispetto all’immagine della morte. Il sito, Rotten.com, rimosso definitivamente nel settembre 2017, riportava il sottotitolo «An archive of disturbing illustration». E proprio dal sottotitolo, più che dall’intestazione (rotten, “marciume”), è possibile ricavare qualche informazione in più. La nozione di inquietudine (disturbing) di cui Rotten.com promuoveva le qualità è diventata negli anni una delle macro-categorie o tag attraverso cui sono indicizzate le immagini che popolano Internet. Le immagini inquietanti, violente, macabre, sono nate contestualmente alla produzione iconografica. La differenza con Internet si è avuta nelle forme di distribuzione e di accumulo. Grazie a (o a causa di) Internet, l’abitudine di confrontarsi con le immagini di eventi traumatici ha portato alla creazione di un numero x di sotto “archivi”. Le pratiche dell’accumulo e della condivisione di immagini macabre sul modello di Rotten.com si sono trasformate in una delle conseguenze della navigazione attiva di Internet, un follow up agli eventi stessi. Ecco pertanto che Internet, se da un lato ha consentito la possibilità di diffondere, dall’altro ha garantito lo spazio per conservare. Se il famoso pestaggio di Rodney King2222Il pestaggio di Rodney King, un tassista afroamericano violentemente picchiato dalla polizia di Los Angeles nel 1991, venne documentato da George Holliday con una videocamera portatile. Il video venne ospitato nella Whitney Biennal del 1993.
fosse accaduto nell’età di Internet, avremmo centinaia di immagini dell’uomo insanguinato e della scena del crimine.
Oggi è una prassi comune rendere pubblico ciò che in passato poteva essere definito come disturbante, anche perché quelle stesse immagini, una volta inserite nella blogosfera contemporanea, ne assumono le proprietà.2323Un connubio in cui abiezione e sublime fanno sì che la fruizione diventi godimento. Qualcosa di morboso, mai pacificato, sempre problematico, irrisolto, che sconfina con l’ambito fisiologico se non patologico. Una retorica degli effetti estremi che il fruitore ben conosce e che trasforma lo spettatore in voyeur o in vittima. M. Mazzocut-Mis, Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno, Le Monnier, Firenze 2009.
Ecco dunque che la morte irrappresentabile, inaccettabile, impensabile, non è più l’interruzione della vita né una semplice sospensione delle attività produttive e di consumo. Se morire, in un’ottica tardocapitalistica, potrebbe costarci caro perché rimarca la futilità e gli affanni produttivi della vita, allora è necessario invertire il trend. La ri-mercificazione della morte e la sua ri-funzionalizzazione avvengono nel momento stesso della condivisione postuma. In uno dei tanti video su YouTube in cui qualcuno si autofilma narcisisticamente non sapendo che quella sarà l’ultima immagine di sé.
Una morte filmata che qualcun altro, diverso dal protagonista, sommerà agli altri contenuti che faranno del video della morte un web content. Un contenuto anonimo e senza proprietà, ma in grado di generare nuovo prodotto, nuova economia. La morte diviene proprietà degli altri e vince sull’inefficienza capitalistica della morte.2424Nel suo articolo sul turismo macabro, Philip Stone sostiene che la Commodification of Death è l’insieme di alcune dinamiche in cui al voyerismo si associa la pervasività dei media (cf. P. R. Stone, The Commodification of Death: A Reflection on dark tourism research, education & media interest. Death in Education, CDAS Seminar Series, University of Bath, UK, 2011).
Un modello che realizza la distopia di Vincent (Harry Dean Stanton) che in La mort en direct (1980) cerca disperatamente tragedie da filmare mediante Roddy (Harvey Keitel), a cui al posto degli occhi sono state impiantate delle videocamere. Immagini in cui la tecnologia dell’osceno è quella che ci consente di mettere in vendita la nostra stessa vita, una transazione di cui non potremo mai godere dei proventi.
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Vincenzo Estremo è un teorico dell’immagine in movimento, docente di teoria dei media, curatela e fenomenologia dell’immagine presso la NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) Milano, co-dirige la collana editoriale Cinema and Contemporary Art (Mimesis International). È tra i fondatori e caporedattore del magazine online in lingua inglese Droste Effect e scrive regolarmente su Flash Art Italia. Ha pubblicato Teoria del lavoro reputazionale (2020), Albert Serra, cinema, arte e performance (2018), Extended Temporalities. Transient Visions in Museum and Art (2016).
E. Balsom, H. Peleg, Documentary Across Disciplines, MIT Press, Cambridge MA, London, 2016.
H. Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
J. Chapman, Issues in Contemporary Documentary, Polity Press, 2009.
G. Fidotta, A. Mariani (a cura di), Archeologia dei media. Temporalità. Materia, tecnologia, Meltemi, Milano 2018.
J. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
R. Krauss, Video: The Aesthetics of Narcissism, in G. Battcock (a cura di), New Artists’ Video, E. P. Dutton & Co, New York.
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M. Mazzocut-Mis, Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno, Le Monnier, Firenze 2009.
P. R. Stone, The Commodification of Death: A Reflection on dark tourism research, education & media interest. Death in Education, CDAS Seminar Series, University of Bath, UK, 2011.
M. Sturken, The Politics of Video Memory: Electronic Erasures and Inscriptions, in M. Renov, E. Suderburg (a cura di), Resolutions: Contemporary Video Practices, University of Minnesota Press, Minneapolis 1995.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.