In questo articolo, che abbiamo tradotto in occasione di Dancing is what we make of falling 2 (OGR, Torino), Alexandre Baril tenta di individuare alcune affinità tra la condizione trans e quella disabile, attraverso una prospettiva «femminista, queer, legata all’attivismo trans e antiabilista». Partendo dalla propria esperienza di uomo trans e disabile, Baril cerca di delineare un modello composito della disabilità che permetta una concezione dell’esperienza trans che includa anche gli aspetti fisiologici, mentali, emotivi o sociali, augurandosi che, tra la comunità trans e quella disabile, possa nascere una solidarietà intersezionale in grado di oltrepassare le barriere dell’abilismo, della transfobia e dell’invisibilizzazione sociale dei corpi. Molte persone trans, infatti, così come molte di quelle disabili, non solo vivono una condizione psicofisica debilitante, ma sono anche costrette ad affrontare molteplici forme di violenza e di discriminazione indissolubilmente legate alla propria stessa condizione.
Ripensare le intersezioni tra le identità trans e quelle disabili11Testo originale tradotto dal francese da Catriona LeBlanc. Versioni precedenti di questo saggio sono state presentate nel gennaio 2015 durante una conferenza al Department of Gender, Sexuality, and Women’s Studies alla Simon Fraser University; nel febbraio 2015 al Social Death & Survival Thursday Series alla Wesleyan University; e nel marzo 2015 per una conferenza all’Institute of Feminist and Gender Studies all’Università di Ottawa. Mi piacerebbe ringraziare i partecipanti a questi eventi per i loro importanti quesiti e suggerimenti. Vorrei anche ringraziare i revisori anonimi di questo articolo per i loro utili commenti, e Victoria Pitts-Taylor, Kathryn Trevenen, Catriona LeBlanc, Stéphanie Mayer, Gabrielle Bouchard ed Élisabeth Woods per l’attenta lettura e le loro opinioni. Vorrei anche ringraziare il Social Sciences and Humanities Research Council (SSHRC) per il suo generoso supporto.
Dichiarare le proprie debolezze e vulnerabilità è un atto di coraggio. Sino ad oggi, non sono mai riuscito ad ammettere di essere psicologicamente fragile, e di esserlo stato sin dall’infanzia. Sebbene il disturbo ossessivo-compulsivo, l’ansia e la depressione (disabilità mentali)22Il mio uso del termine “disabilità mentali”, come quello di Price (2011), fa riferimento a una varietà di condizioni, inclusi i deficit cognitivi e i disturbi mentali/emozionali.
con cui combatto abbiano interferito con molte attività nel corso della mia vita, ho rifiutato le etichette datemi dai professionisti della sanità per molte ragioni. In primo luogo, il mio rifiuto è stato causato da una prospettiva abilista33L’abilismo mentale viene a volte chiamato “sanismo” o “mentalismo” (Lewis 2010 [1997]).
interiorizzata (mentale). “Non sono un malato di mente/disabile” mi dicevo, senza capire che la mia limitata ontologia della disabilità destinava a questa categoria i portatori di disabilità “visibili” e “fisiche”. Il mio interesse per i disability studies mi ha permesso di decostruire queste congetture e smantellare quel senso di vergogna abilista che mi portava a dissociare me stesso da altre persone disabili. In secondo luogo, temevo i pregiudizi che circondano questa identità: i datori di lavoro avrebbero esitato nell’assumermi, le compagnie assicurative nel propormi una polizza, e gli amici e i colleghi avrebbero iniziato a trattarmi diversamente sapendo che soffro di disabilità mentali? Infine, il mio rifiuto si è anche fondato sulla mia posizione critica rispetto alla medicina, la psichiatria e la psicologia, e sugli effetti negativi causati dalla medicalizzazione di alcune condizioni. Ero convinto che i sistemi oppressivi (sessismo, eteronormatività, cisessualità/cisnormatività)44Negli studi trans, il prefisso “cis” è l’antonimo di “trans”. La persona cisessuale o cisgender (cis) non si è sottoposta a una transizione di sesso/genere (Serano 2007). Alcuni autori parlano di transfobia (Shelley 2008), alcuni di cissessimo (Serano 2007), e altri ancora usano termini come “cisgenderismo” e “cisnormatività” (Bauer et al. 2009; Baril 2013, pp. 396-397; Baril e Trevenen 2014; Baril 2015). Anche se questi termini sono diversi (lascio la loro analisi approfondita ad altri), si tratta di variazioni su un tema che designa il sistema materiale e normativo di oppressione che colpisce le persone transgender/transessuali (trans), le quali vengono considerate inferiori e meno normali delle persone cis.
fossero la causa delle mie disabilità mentali. Seguendo il modello sociale della disabilità, percepivo tali disabilità come esclusivamente sociali/politiche. In ogni caso, rifiutare il modello medico della disabilità e adottare un modello sociale che si concentri esclusivamente sugli aspetti strutturali del modello di disabilità abilista, e quindi oppressivo, mi ha lasciato, come molte altre persone disabili, poco attrezzato per riflettere sulla sofferenza causata dalle mie disabilità.55Faccio qui riferimento sia alle mie disabilità mentali che a quelle fisiche.
Dato il loro rifiuto del modello medico di disabilità, alcuni autori e teorici della disabilità hanno inoltre identificato i limiti del modello sociale e tentato o di perfezionarlo o di creare un’alternativa in grado di problematizzare l’oppressione abilista subita dalle persone disabili e creare strutture per riflettere sull’esperienza fenomenologica della disabilità (Crow 1996; Wendell 1996, 2001; Nicki 2001; Mollow 2006; Shakespeare 2010; Kafer 2013). Queste prospettive alternative, che costituiscono un terzo modello, che ho chiamato “modello composito della disabilità”, riconosce le difficoltà di cui fanno esperienza le persone disabili che sono malate o soffrono di una malattia cronica o mentale, e sostengono che l’oppressione abilista non sia l’unica fonte di sofferenza per le persone disabili: persino le condizioni fisiche o mentali/psicologiche possono esserlo. Anche se il dominio dei modelli medici e poi sociali di disabilità mi ha reso complesso accettare le mie disabilità mentali e le loro conseguenze, o il considerare me stesso disabile basandomi sulla mia condizione psicologica, è stato ancora più difficile concepire un’altra delle mie condizioni “debilitanti”77Seguendo Livingston (2005), Puar (2009) usa il concetto di “debilità” in una visione allargata di disabilità.
come una disabilità a pieno titolo: la mia transessualità.
Secondo Livingston (2005, p. 2) la “debilità”, è “la compromissione, mancanza o perdita di certe abilità corporali”. Nonostante le numerose condizioni “debilitanti” associate a una certa tipologia di transizione sesso/genere, la condizione trans viene raramente considerata come una disabilità legittima. Ispirato da una riflessione critica delle transizioni di genere e usando un modello composito di disabilità, vorrei proporre un assemblage per teorizzare la condizione trans in una modalità che eviti le insidie sia del modello medico che di quello sociale.
Adottando una prospettiva femminista, queer, legata all’attivismo trans e antiabilista, applicando un framework intersezionale e utilizzando una metodologia autoetnografica fondata sulla mia esperienza di uomo transessuale e disabile che soffre di disabilità invisibili, vorrei riflettere sulle implicazioni positive offerte e sulle possibilità create dall’applicazione, all’interno della teoria trans, di un modello composito di disabilità che permette una concezione dell’esperienza trans che includa i suoi debilitanti aspetti fisiologici, mentali, emotivi o sociali. Pur continuando a considerare l’oppressione strutturale, questo modello composito potrebbe anche rendere possibile una riflessione sulle realtà soggettive, gli effetti e la potenziale sofferenza correlati alla transizione per alcune persone trans in termini di “debolezza”. L’applicazione di questo assemblage di strumenti prelevati dalle teorie sulla disabilità alle questioni trans non solo svela la cisnormatività nelle teorie sulla disabilità, rappresentando quindi un’opportunità per denunciare l’abilismo nei movimenti e nelle teorie trans, ma è anche un invito alla concettualizzazione delle intersezioni tra la comunità trans e quella disabile, che molto spesso non sono prese in considerazione.88Seguendo Puar (2014, p.78), che critica le limitazioni delle scarse analisi intersezionali delle realtà delle persone trans che sono disabili e delle persone disabili che sono trans, e che chiede un ripensamento dei confini tra le categorie trans e disabili, propongo una struttura intersezionale che mi permette di teorizzare le intersezioni tra queste categorie attraverso la critica dei loro confini.
Spero che tutto ciò incoraggi la solidarietà tra questi due movimenti e ambiti di studio.
L’impossibile debilità della condizione trans
All’interno degli studi sulla disabilità, l’utilizzo della categoria “persona disabile” è piuttosto ampio:99Il mio obiettivo non è un’analisi della categoria di “disabilità” (si veda per questo Wendell 1996, pp. 11-33), ma dimostrare la varietà delle condizioni che essa include.
le persone disabili possono avere una compromissione fisica, mentale, psicologica o emotiva, o condizioni di salute che possono essere stabili o degenerative, visibili o invisibili, croniche o intermittenti, lievi o gravi, e così via. Gli individui disabili possono convivere con innumerevoli condizioni, essere amputati, paraplegici o ciechi, o soffrire di disturbi cognitivi, dolori cronici (fibromialgia, artrite), depressione o HIV.
Invalidità/disabilità interferiscono con uno o più aspetti della vita, includendo attività economiche, professionali, civiche, sociali, interpersonali e sessuali. A prescindere dal fatto che alcune persone disabili siano trans e che alcune persone trans siano disabili, raramente le intersezioni tra queste due identità sono discusse. Inoltre, dando questa definizione estesa di disabilità, è sorprendente pensare che le persone trans non siano in generale considerate o non si identifichino come disabili. Credo che le persone trans siano escluse dalla categoria disabile nonostante vi siano molte ragioni per una loro possibile inclusione.1010Levi e Klein (2006) prendono in esame vari usi del concetto di disabilità in giurisprudenza. Affermano che, come altri tipi di disabilità, l’identità trans influenza molti aspetti della vita di una persona. Sostengono che la resistenza all’uso di leggi anti-discriminatorie pensate per le persone disabili per difendere le persone trans si basi sull’anonimato di queste leggi e sulle tendenze al pregiudizio che le persone trans hanno verso questo gruppo (abilismo).
Presenterò quindi quattro argomentazioni che considerano la condizione trans attraverso i termini della disabilità.
Essere trans interferisce con diverse sfere di attività prima, durante e dopo la transizione.
In primo luogo, la prospettiva psicologica/mentale. A partire dagli anni ’80, la transessualità1111Il termine «transessualità» è stato coniato tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 negli Stati Uniti nell’ambito della sessuologia medica per designare le persone che desideravano intraprendere un percorso di transizione medicalizzato verso il proprio genere di elezione. Si tratta di un termine connotato in modo patologizzante perché nato in un contesto che associava le esperienze trans a un disturbo mentale. In virtù di questa sua origine è attualmente considerato desueto da attivist* e movimenti trans. Nonostante il termine sia ancora in circolazione, a livello politico è stato abbandonato in favore di termini meno patologizzanti quali «esperienza/e trans» o «esperienza/e transgender». [Nota a cura di Clark Pignedoli]
è stata considerata un disturbo mentale (un tempo “disturbo dell’identità di genere”, ora “disforia di genere”). Un numero di attivisti trans, psicologi e medici continuano a sostenere che si tratti di un disturbo dell’identità, e quindi di una forma di disabilità (Gorton 2013).1212Per la discussione di dibattiti sull’abolizione, la riforma o la preservazione di queste diagnosi, si vedano Spade (2003), Lev (2005), Serano (2007), Drescher (2010) e Gorton (2013).
Ciò detto, nonostante esista una diagnosi relativa alla salute mentale, la transessualità non è considerata una disabilità, come sottolineano le leggi di molti paesi, come l’Americans with Disabilities Act (ADA) (Spade 2003; Levi e Klein, 2006),1313Puar (2014, p. 79) cita l’ADA: “Il termine ‘disabilità’ non deve includere (1) travestitismo, transessualismo, pedofilia, esibizionismo, voyerismo, disturbi legati all’identità di genere che non risultino da menomazioni fisiche, o altri disturbi del comportamento sessuale; […]” (Americans With Disabilities Act del 1990, Pub. L. No. 101-336, §2, 104 Stat. 328 [1991]).
i regolamenti delle compagnie assicurative, private e pubbliche, legate alla sanità, (Bauer et al. 2009) e convenzioni collettive e politiche di congedo dal lavoro per malattia che la escludono. Ciò significa avere un doppio standard. Sebbene la transessualità sia categorizzata come malattia mentale, le persone trans, in generale,1414Alcune persone, e i loro avvocati, hanno fatto richieste di risarcimento su queste basi (Spade 2003; Levi e Klein 2006).
non hanno accesso agli stessi diritti e alle stesse protezioni offerte ad altre persone disabili.1515Le persone disabili incontrano molti ostacoli e barriere per accedere alle risorse. A seconda del genere, classe, razza, livello di istruzione, contesto nazionale, età e anche del tipo di disabilità di cui fanno esperienza (fisica o mentale, visibile o invisibile ecc.), le persone disabili non hanno sempre accesso a riconoscimento, supporto, risorse e alloggi. Per questo, alcune persone disabili potrebbero trovare difficoltà maggiori di alcune persone trans nell’ottenere supporto e accesso a determinate risorse mediche o statali. Vorrei ringraziare uno dei revisori anonimi di questo articolo per il suggerimento.
Lasciando da parte i dibattiti sulle diagnosi, molte persone trans affermano che la dissonanza che percepiscono tra i loro corpi e la loro identità di genere crei diversi livelli di sofferenza emotiva (Prosser 1998; Rubin 2003; Clare 2013, p. 265). Insieme ai problemi psichici che la accompagnano, la sofferenza potrebbe qualificarsi, anche se lo è raramente, come debilitante, o come una disabilità.
In secondo luogo, la disfunzione o l’assenza di organi, parti del corpo o caratteristiche fisiche che risultano dalla transizione potrebbe venire considerata come una disabilità, ma non lo è. Vi porto tre esempi. (1) Le carenze ormonali negli individui cisgender sono viste come condizioni mediche/di disabilità; lo stesso non vale per le persone trans, anche se devono assumere ormoni per tutta la vita. (2) Gli uomini cisgender che hanno perso l’uso del loro pene sono considerati disabili, mentre per gli uomini trans l’assenza del pene non viene considerata come una disabilità, ma come la “norma”, in accordo con un’ontologia cisnormativa che li considera come “realmente” appartenenti al genere femminile (Bettcher 2014, pp. 392-393). I peni artificiali sono quindi considerati come strumenti medici per gli uomini cisgender e come giocattoli sessuali per gli uomini trans. (3) La disabilità può emergere da trattamenti collegati alla transizione. Molte persone trans perdono le loro cosiddette capacità naturali riproduttive dopo la chirurgia, hanno scarsa o nulla sensibilità agli organi ricostruiti e in altre parti del corpo operate, o perdono la mobilità degli arti che fungono da siti donatori per trapianti di pelle (Baril 2013; Baril 2015). Molti condividono le complesse esperienze, positive e negative, del loro percorso chirurgico su forum e gruppi online (per esempio, gruppi su Yahoo come The Deciding Line, FTM Metoidioplasty o Phalloplasty Info), o libri (Cotton 2012). Sebbene l’esistenza di queste disfunzioni e mancanze non sia negata, esse sono tendenzialmente escluse dalla categoria disabile, utilizzando un punto di vista che colpevolizza le vittime: alle persone trans è negato il supporto offerto alle persone disabili, perché si crede che le prime abbiano causato la propria disabilità.1616Ciò non riguarda solo le persone trans. Anche i portatori di disabilità invisibili o non misurabili, o coloro che soffrono di dolori cronici o disabilità mentali, vengono biasimati per la loro condizione (Wendell 1996; Nicki 2001; Wendell 2001; Mollow 2006; Jung 2011; McRuer e Mollow 2012, pp. 9-12).
Le difficoltà nell’inserire alcune questioni legate ai corpi trans nell’ambito della debilità hanno quindi conseguenze negative sulle persone trans a livello economico, professionale, legale e sociale.
Il terzo punto, che riguarda gli ambiti di attività influenzate o limitate dalla disabilità, è che la condizione trans interferisce con ogni aspetto della vita (professionale, finanziario, legale, sociale, interpersonale, sessuale)“… la condizione trans interferisce con ogni aspetto della vita (professionale, finanziario, legale, sociale, interpersonale, sessuale)” (Levi e Klein 2006, pp. 84-87). I dati sulla disoccupazione e il licenziamento delle persone trans sono molto elevati (Levi e Klein 2006; Shelley 2008). Un altro esempio ha a che fare con la sfera interpersonale e sessuale: se la mancanza di una mano o di una gamba può avere un impatto sulla vita personale e sessuale di un individuo (e viene quindi considerata come una disabilità), possedere caratteristiche sessuali o genitali discordanti con la propria identità sessuale/di genere può pertanto avere enorme impatto sulle relazioni interpersonali delle persone trans. Essere trans interferisce quindi con diverse sfere di attività prima, durante e dopo la transizione.
Quarto, le persone trans, come altre persone disabili, affrontano molteplici forme di violenze e discriminazioni fondate sulla loro identità e sulla propria disposizione corpo/mente. Per esempio, possono trovare difficile accedere a determinati luoghi (come ricoveri per donne o senzatetto) (Serano 2007), a servizi come i bagni pubblici (Mog e Swarr 2008; Kafer 2013), all’assistenza sanitaria (Bauer et al. 2009) e a identità anagrafiche (nella maggior parte dei contesti legali, per ottenere documenti identificativi è necessaria la sterilizzazione chirurgica) (Shelley 2008; Baril 2013).1717In Italia, l’accesso alle chirurgie di affermazione di genere e al cambiamento dei dati anagrafici è disciplinato dalla legge n. 164 del 1982, che prevede che a una persona venga attribuito «[un] sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». Questa legge è stata modificata da diverse sentenze nel corso degli anni. In ultimo, la sentenza della Corte di Cassazione n. 15138/15 del 20 luglio 2015 si è pronunciata contro la sterilizzazione forzata delle persone trans come requisito per ottenere i cambiamenti anagrafici. Non è quindi più necessario modificare tramite intervento chirurgico i propri caratteri sessuali primari per ottenere la rettifica del nome e del genere. [Nota a cura di Clark Pignedoli]
Non dico che la realtà trans e quella disabile siano identiche o intercambiabili; nonostante somiglianze e intersezioni significative, le esperienze delle persone trans e di quelle disabili sono diverse. Queste argomentazioni, in ogni caso, avanzano l’ipotesi di concettualizzare gli aspetti potenzialmente debilitanti dell’esperienza che alcune persone trans hanno avuto della transizione. Non sto suggerendo che la presenza di questi quattro elementi sia necessaria per qualificare la condizione trans come disabilità, e non sto nemmeno sottintendendo che la presenza di un elemento in particolare sia necessario o sufficiente per determinare che la condizione trans sia una disabilità. Per esempio, le persone trans che non si identificano come portatrici di un disturbo mentale e rigettano la diagnosi potrebbero comunque star facendo esperienza di condizioni fisiche debilitanti causate dalle loro transizioni, ed essere quindi disabili nella loro condizione trans. Personalmente, la mia precedente mancanza di un corpo maschile e l’esperienza della condizione trans sono state causa di dolore fisico, psicologico, interpersonale e strutturale, sebbene affrontare la transizione sia stata una delle decisioni migliori della mia vita. Eppure, al contrario delle mie altre disabilità, i cui effetti debilitanti sono parzialmente o completamente riconosciuti e gestiti, la mia transessualità non è considerata come disabilità, e i suoi aspetti debilitanti nella mia vita quotidiana non sono riconosciuti. Perché l’esperienza della condizione trans viene quindi esclusa dalla categoria di disabilità? Perché le sovrapposizioni tra esperienze trans e disabili sono inconcepibili?
Vi sono tre fattori principali che hanno ostacolato la concettualizzazione della condizione trans come debilitante: (1) una visione frammentata del corpo e le conseguenti suddivisioni disciplinari; (2) la cisnormatività negli studi sulla disabilità; e (3) l’abilismo negli studi trans. Per esplorare l’esperienza fenomenologica della debilità delle incarnazioni trans,1818Rubin (1998), Salamon (2010) e Davy (2011) definiscono l’approccio fenomenologico e lo applicano alle questioni trans.
presento e decostruisco questi elementi per problematizzare e rendere complessi i confini tra le categorie “trans” e “disabili”.
gli studi e i movimenti trans sono spesso abilisti.
In primo luogo, un numero sempre più elevato di studi esaminano simultaneamente la sessualità (queer) e l’abilità (per esempio, Sherry 2004; McRuer 2006; Puar 2009; McRuer e Mollow 2012).1919Alcuni di questi lavori, come quelli di Robert McRuer, insieme a quelli dei teorici e attivisti che hanno dato nuovo significato al “queer”, suggeriscono di fare lo stesso con il termine “crip” che viene ora usato da alcuni teorici e attivisti della disabilità. La sviluppo delle teorie crip va però oltre gli interessi di questo articolo.
Ciononostante, come indicano Mog e Swarr (2008) e Kafer (2013), analoghi studi delle problematiche trans e disabili sono molto meno comuni.2020La maggior parte della ricerca che affronta i temi legati alle questioni trans e disabili pone le sue fondamenta nel diritto (Spade 2003; Levi e Klein 2006) e nella psicologia/psichiatria (Gorton 2013).
I pochi autori che propongono tali analisi (si vedano Clare 2009[1999], 2013; Hall 2009; Puar 2009, 2014; Wilkerson 2012; Baril 2013, 2015) evidenziano le questioni (l’auto-definizione, il “passing”), le forme di violenza (patologizzazione, stigmatizzazione) e le sfide (accesso ai bagni pubblici: Mog e Swarr 2008; Kafer 2013, pp. 149-157) che colpiscono gli individui trans e quelli disabili in modo simile. Nonostante alcuni abbiano persino cominciato a mettere in discussione i confini tra questi gruppi, il tentativo di decostruirli resta incompleto.2121Baril (2013, 2015), Puar (2014) e Kafer (2013, p. 151) hanno iniziato a mettere in discussione questi gruppi e categorie.
L’esclusività reciproca percepita delle categorie “persone trans” e “persone disabili” ha guidato la costruzione degli studi trans e delle teorie sulla disabilità come discipline distinte. La genealogia foucaultiana è utile per mettere in discussione la suddivisione disciplinare e il “controllo territoriale” (Foucault 2001, p. 39) tra questi campi, nonostante il loro comune interesse nelle differenze tra corpi. A causa di una visione frammentata del corpo, alcune delle sue parti sono incluse nelle teorie sulla disabilità, mentre altre negli studi trans. Come ho argomentato altrove, le teorie sulla disabilità si occupano di corpi che si differenziano dalle norme abiliste, ma si fermano davanti ai marcatori di sesso/genere; una differenza corporale che includa la mano, la schiena e così via pertiene alle teorie sulla disabilità, ma nell’istante in cui si prendono in considerazione i genitali queste differenze diventano un problema degli studi trans, di genere e sulla sessualità (Baril 2015).2222Stabilisco delle connessioni tra questi campi d’indagine creando legami tra transessualità e transabilità (Baril 2015).
In secondo luogo, aggiungo che gli studi sulla disabilità sono interessati ai disturbi che colpiscono parti del corpo sessuali/relative al genere (per esempio, sterilità, cancro al seno/pene), ma solamente se non costituiscono il risultato di transizioni di sesso/genere. Questo duplice criterio mostra la presenza della cisnormatività nelle teorie legate alla disabilità (Baril 2013, 2015; Kafer 2013, pp. 153-157). I problemi e i trattamenti medici che coinvolgono le parti sessuate/genderizzate del corpo di un individuo trans non sono percepiti come appartenenti alle teorie sulla disabilità, ma agli studi trans, queer o di genere. Terzo, gli studi e i movimenti trans sono spesso abilisti. Per esempio, gli slogan sui poster che supportano la depsichiatrizzazione delle identità trans (che io stesso ho sostenuto e che ora metto in discussione), come “Trans, non disabile” e “Trans, non malato”, creano una distanza tra gli individui trans e quelli disabili, relegandoli allo stato di “Altri”. Non solo la questione della disabilità viene dimenticata, ma il progetto di depatologizzare le identità trans usa spesso le persone disabili per i suoi scopi (Baril 2013; Clare 2013; Kafer 2013, pp. 156-157; Puar 2014).2323L’interpretazione sociale della condizione trans e la sua critica del modello medico hanno numerosi vantaggi, incluso il riconoscimento dell’oppressione strutturale che colpisce le persone trans, l’emancipazione delle comunità trans e così via. Una prospettiva trans antipatologica ha valori e meriti che sono discussi in modo esteso negli studi trans. Le limitazioni di spazio mi impediscono di discutere questi vantaggi in questa sede. Per i vantaggi di tale interpretazione, si vedano Meyorewitz (2002) e Spade (2003).
Questi tre fattori hanno impedito la concettualizzazione della condizione trans con quella disabile nella sua esperienza potenzialmente debilitante.
La possibile debilità della condizione trans: identità trans attraverso la lente dei modelli medici e sociali di disabilità
Troppo spesso la condizione trans è stata guardata attraverso la lente di due paradigmi, quello medico o quello sociale, senza la possibilità di una terza opzione in grado di teorizzare sia il “cisgenderismo”2424Con questo termine si intende una forma di pregiudizio, simile al razzismo e al sessismo, che consiste nel negare, ignorare e stigmatizzare individui non cisgender. [N.d.T.]
che l’esperienza soggettiva della sofferenza per gli individui trans.2525Rubin (1999) e Bettcher (2014) hanno sviluppato un’alternativa ai modelli medici e sociali, ma non hanno applicato un modello alternativo di disabilità alle questioni trans, o concettualizzato la condizione trans o la disabilità.
Sebbene il modello medico di disabilità non sia stato direttamente applicato alle identità trans, potrebbe sembrare che la transessualità sia stata storicamente vista attraverso un modello simile (Meyerowitz 2002). Da un punto di vista medico, la transessualità è stata circoscritta a una patologia individuale curabile attraverso trattamenti ormonali e chirurgici, una concettualizzazione che cancella l’oppressione strutturale. La condizione trans, come la disabilità, è considerata una tragedia personale, qualcosa di negativo da eliminare attraverso una normalizzazione. A partire dagli anni ’60, è emersa nelle comunità trans una variazione del modello medico, il discorso sull’“essere intrappolati nel corpo sbagliato” (Prosser 1998; Rubin 2003). Pur essendo ancora largamente utilizzata, questa argomentazione è sempre più criticata nell’ambito degli studi e dei movimenti trans.2626Per le critiche a questo dibattito, si vedano Sullivan (2008) e Bettcher (2014).
Il modello medico e la teoria del “corpo sbagliato” fanno a tratti riferimento diretto alla disabilità. Sia che si tratti di medici o psichiatri che discutono la transessualità come anomalia, errore o disordine di genere, o di persone trans che descrivono la loro situazione come un difetto o un errore di natura, l’idea della transessualità come disabilità è spesso presente. Clare (2013, p. 262) scrive “sento spesso persone trans […] riferirsi alla propria condizione trans come a una disabilità, un difetto di nascita. Dicono cose come ‘[…] ho semplicemente bisogno di una cura’”. L’ho sentito dire anche nei gruppi di supporto per persone trans. Credo che il problema non risieda nell’idea di condizione trans come disabilità, ma nella visione individualista, abilista e patologizzante della disabilità.2727Lo spazio limitato mi impedisce di rendere giustizia alla complessità della concezione medica delle identità trans. Per esempio, da una prospettiva medica che prende in considerazione elementi strutturali oppressivi, Gorton (2013) suggerisce di mantenere la categoria diagnostica per incrementare l’accesso a cure mediche delle persone trans indigenti.
Da un punto di vista sociale, le identità trans non sono state interpretate come disturbi individuali, ma come variazioni delle identità sessuali/di genere stigmatizzate dalle norme e dalle strutture cisgender. Anche se il ricorso ai trattamenti medici non è condannato, viene data priorità alle soluzioni sociali. Continuo ad affermare che il modello sociale della condizione trans, così come il modello sociale della disabilità, abbia una serie di limiti che raramente sono affrontati dagli studi trans. Come gli attivisti antiabilisti che vedono la differenza tra una compromissione neutrale su cui si costruisce l’oppressione (Crow 1996), gli attivisti trans che cercano di controbilanciare il modello medico – in cui la condizione trans è causa del problema – mettono da parte la condizione trans e la considerano come un elemento neutrale a cui sono associati stereotipi, pregiudizi e comportamenti discriminatori. In questa visione, il problema non è la condizione trans, ma quello che la società fa con essa. Tale modello parte dal presupposto che lo sradicamento del cisgenderismo sarebbe condizione sufficiente all’eliminazione di tutta la “sofferenza trans”.2828Ancora una volta, i limiti spaziali mi impediscono di rendere giustizia alla complessità, ai dibattiti e alle sfumature di questo modello. Bettcher (2014, pp. 384-385) posiziona il modello del “corpo sbagliato” in opposizione al modello “oltre il binarismo”. Quest’ultimo crea una gerarchia tra le persone trans con sesso/genere discordante e coloro i quali hanno modificato i propri corpi per farli combaciare con la propria identità (transessuali) (Rubin 1998, pp. 272-276; Baril 2013, pp. 121-135). Il modello “oltre il binarismo” si differenzia dal modello sociale discusso qui, che è più ampio e teorizza la condizione trans come un elemento neutrale socialmente oppresso. Il modello sociale può includere o meno il modello “oltre il binarismo”.
Il modello sociale della condizione trans presenta tuttavia anche dei limiti. Secondo Spade (2003), Levi e Klein (2006) e Baril (2013, 2015), per esempio, l’interpretazione sociale delle identità trans sostenuta da molti attivisti e autori trans all’interno degli studi trans è segnata dall’abilismo. Per rifiutare i pregiudizi associati alla malattia mentale, la maggior parte degli attivisti che vogliono riformare o abolire la diagnosi di disforia di genere, basandosi sulla teoria secondo cui la condizione trans non è una malattia mentale, mostrano una forma di abilismo mentale (Wilkerson 2012, pp. 184-185; Gorton 2013, pp. 646-647). Queste argomentazioni ripatologizzano le persone disabili e pongono una distanza tra le due comunità. Il modello sociale di disabilità offre una visione disincarnata della condizione trans che trascura il tema degli aspetti debilitanti della condizione trans nell’esperienza di alcune persone trans.
Così come i modelli medici e sociali di disabilità si dimostrano inadeguati nel definire l’esperienza soggettiva delle mie disabilità, la comprensione medica e sociale delle identità/incarnazioni trans non descrive in maniera sufficiente la complessità dell’esperienza e delle sofferenze legate alla mia condizione trans. Questa sofferenza persiste nonostante le operazioni che ho subito (la soluzione del modello medico), e continuerebbe a esistere in un mondo senza transfobia/cisnormatività (la soluzione del modello sociale). Clare (2013, p. 263) afferma che “la tecnologia medica da sola non sarà mai la risposta completa per nessuno di noi”, e aggiungerei che le soluzioni del modello sociale, da sole, sono altrettanto insufficienti a rispondere alle esperienze complesse di tutte le persone trans e disabili. Poiché le nostre realtà sono multiple, contraddittorie, complesse e spesso sfuggenti, devono esserlo anche i nostri modelli teorici e le nostre soluzioni. Clare (2013, p. 265) conclude il suo testo con una discussione sull’importanza di una “politica della disabilità per la condizione trans”, un’idea piena di potenziale, ma purtroppo lasciata priva di sviluppi. Mi farò ora carico di questo concetto e lo esaminerò attraverso la lente di un modello composito di disabilità.
Condizione trans come debilità: un’alternativa ai modelli medici e sociali
L’esperienza della sofferenza legata ad alcuni degli aspetti debilitanti della condizione trans non dovrebbe essere trascurata. È centrale nelle vite di molte persone trans, incluso il sottoscritto, che accettano il rischio di compromettere il loro status sociale, il loro lavoro, investimenti finanziari, legami familiari, amicizie, relazioni romantiche e in particolare la propria salute per sottoporsi a trattamenti e operazioni chirurgiche che spesso vanno avanti per moltissimi anni per alleviare il senso di disforia. Non sto dicendo che sia possibile distaccare le nostre esperienze soggettive dal sociale; separarle dal contesto in cui una persona si è strutturata e in cui riflette è del tutto impossibile. È chiaro che l’interiorizzazione della cisnormatività può avere conseguenze negative sull’esperienza fenomenologica della condizione trans. Quando ho scoperto di essere trans ho pensato: “No… tutto ma non QUELLO”. Non volevo essere “quello”, un’identità e un corpo socialmente abietti. Gli strumenti trovati grazie agli studi trans mi hanno aiutato a decostruire la mia cisnormatività interiorizzata ma, come detto prima, la sofferenza trans non può essere ridotta all’interiorizzazione dell’oppressione cisgenderista. Le persone trans occupano una posizione simile a quella delle persone disabili poiché la condizione trans ha il potenziale per causare sofferenza. Pensando ai gruppi lesbici, gay, bisessuali o queer a cui sono spesso associati, la realtà medica/corporea degli individui trans è diversa da quella delle altre minoranze sessuali. Oltre a dover affrontare l’oppressione dall’esterno, molte persone trans soffrono dall’interno e hanno bisogno di supporto medico per vivere la propria identità. Essere donna, nero o gay non causa necessariamente sofferenza; piuttosto, queste esperienze vengono rese difficili dalle nostre società sessiste, razziste ed eteronormative. Le vite di alcune persone disabili e/o persone trans, invece, sono complicate da sofferenza fisica/mentale. Se anche l’abilismo e il cisgenderismo venissero sradicati, queste persone subirebbero comunque le conseguenze della loro condizione. Per questa ragione, l’invalidità e la condizione trans non sempre costituiscono condizioni neutrali su cui si stratificano le oppressioni sociali; possono anche essere causa di difficoltà. Trasformare la prospettiva sull’invalidità e riconoscere la diversità delle esperienze porta, per alcune persone disabili, alla ri-concettualizzazione della nozione di orgoglio. Mentre si può essere orgogliosi di essere donne, gay, neri o in sedia a rotelle, se la mobilità limitata non è associata a dolori cronici o ad altre condizioni di salute, l’orgoglio non funziona allo stesso modo per le persone che sono malate, depresse o soffrono di dolori cronici (Crow 1996; Wendell 1996, 2001, pp. 30-31; Mollow 2006). Queste persone possono essere orgogliose della loro lotta all’abilismo, del loro coraggioso superamento di determinati ostacoli, nonché di aver imparato dalla propria esperienza, ma possono anche essere felici e orgogliose di soffrire di depressione o dolori cronici? Sono orgoglioso di ciò che sono diventato, del coraggio che è servito per diventare l’uomo che oggi sono, per affrontare con dignità il disprezzo di numerosissime persone e istituzioni, e di aver combattuto per cambiare leggi cisgenderiste, pregiudizi e stigmatizzazioni, ma, come per la mia depressione o la mia ansia, la questione della mia condizione trans non è in se stessa fonte di soddisfazione e orgoglio. Al contrario, è sempre stata e continua a essere fonte di sofferenza quotidiana. Sebbene le persone trans abbiano accesso a bagni pubblici trans-friendly, quanti uomini trans piangerebbero comunque la loro mancata abilità di urinare stando in piedi, avere erezioni naturali ed eiaculare? E quante donne trans, se anche il cisgenderismo si fosse estinto, porterebbero il lutto per quella lubrificazione naturale che non avranno mai, nonostante la vaginoplastica e il dolore delle dilatazioni quotidiane necessarie dopo la chirurgia? Quante persone trans sono così perseguitate dalla loro immagine fisica precedente che, dieci anni dopo aver fatto la transizione, fanno ancora incubi in cui si trovano nel loro vecchio corpo? Quante persone trans, nonostante tutti i trattamenti, le chirurgie e i cambiamenti strutturali che potrebbero a un certo punto sradicare il cisgenderismo, sentono ancora un senso di profonda disforia che resta sempre nelle loro menti? Vivo la mia condizione trans in modo molto simile a come vivo la mia depressione o la mia ansia; pur sapendo che questi stati dell’essere sono influenzati da fattori strutturali (sistemi oppressivi), la sofferenza resta molto reale. La sofferenza trans non può essere separata dall’oppressione sociale, e nemmeno può essere ridotta a essa.
Seguendo l’esempio di alcuni attivisti antiabilisti, mi chiedo come possiamo sviluppare un modello composito all’interno della comunità trans, che sia contemporaneamente in grado di denunciare il cisgenderismo e le sue barriere sistemiche, e di considerare l’espressione dell’esperienza soggettiva collegata alla condizione trans, il modo in cui condiziona molte sfere di attività nella nostra vita, e le sensazioni, gli affetti e le emozioni che la condizione trans sottende. In breve, possiamo adottare una complessa “politica della disabilità per la condizione trans”? Senza rendere vergognosa la condizione trans, possiamo creare spazio per le persone trans che, come me, non considerano la propria condizione trans neutra o positiva? Se vogliamo rappresentare le persone trans, riconoscere la loro esperienza e i loro bisogni e combattere per i diritti e per il loro accesso a cure e servizi necessari, in modalità fondate sulla realtà piuttosto che su modelli teorici generalisti, dobbiamo prima di tutto ascoltarle.
Il modello composito proposto ottiene questo risultato completando il modello sociale e contribuendo alla sua analisi strutturale. Approcciare la condizione trans in termini di debilità, anziché localizzare la fonte dei problemi degli individui trans esclusivamente nella condizione trans o all’interno delle strutture cisessuali della società, potrebbe considerare la condizione trans – ispirandoci al concetto di “disadattato” elaborato da Garland-Thomson – come un’esperienza “disadattante”, piuttosto che come avente a che fare con il “corpo sbagliato”.
«L’adattamento e il disadattamento descrivono un incontro in cui due cose si uniscono in armonia o in disgiunzione. Quando la forma e la sostanza di queste due cose corrispondono nella loro unione, allora esse si adattano. Un disadattamento, al contrario, descrive una relazione incongruente tra due cose: un piolo quadrato in un buco cilindrico. […] L’essere disadattati enfatizza il contesto sull’essenza, la relazione sull’isolamento, la mediazione sull’origine. I disadattati sono intrinsecamente instabili piuttosto che fissi, eppure sono molto reali perché sono costruzioni materiali più che mentali (Garland-Thomson 2011, pp. 592-593)».
L’obiettivo di concettualizzare la condizione trans come disadattante e come debilità non è quello di descrivere la realtà di ogni individuo trans. Il mio scopo è la comprensione della mia realtà e di quella di altre persone trans che fanno parte della mia vita.2929Bettcher (2014, p. 384), da parte sua, stava cercando qualcosa di diverso dalle dissertazioni sul “corpo sbagliato” e sull’“oltre il binarismo”, per aiutarla a comprendere la sua stessa esperienza di donna trans. Il suo testo mi ha ispirato.
Non ritengo che i modelli compositi siano superiori agli altri, ma che un punto di vista fenomenologico offra un’alternativa per riflettere sulla complessa esperienza della condizione trans.
Verso una “politica della disabilità per la condizione trans”
L’applicazione di strumenti presi dalle teorie sulla disabilità nell’assemblage qui proposto non svela solo la cisnormatività nei movimenti disabili, ma denuncia anche l’abilismo nei movimenti trans. Spero che questa mia proposta rinforzi le alleanze tra queste due comunità e ambiti di studio. Tali connessioni, troppo spesso inconcepibili, sono fondamentali per le persone che, come me, fanno esperienza della condizione trans come di una disabilità e che si trovano all’incrocio tra identità multiple (per esempio quelle di disabile e di trans).
La mia condizione trans è stata e continua a essere un elemento debilitante e disabilitante della mia vita. La mia disforia, anche se meno grave di quanto non fosse prima della transizione, è una presenza costante che si manifesta attraverso una varietà di preoccupazioni che, prese separatamente, potrebbero apparire insignificanti ma che, considerate nel loro insieme, rivelano un costante disagio nei confronti del mio corpo. Questa disforia è psicologicamente disabilitante, così come lo sono le mie altre disabilità mentali. Inoltre, le interazioni tra identità e abilità di genere, pur se raramente discusse, sono davvero autentiche e vanno comprese meglio. Solo per fare un esempio, la mia transizione ha un impatto sulla mia salute mentale (la transizione porta a stati d’ansia riguardo la salute, la violenza cisessuale provoca rabbia o dolore) e la mia salute mentale influenza la mia esperienza della condizione trans. Più mi sento calmo, felice e poco ossessivo, più sono positivo rispetto alla mia identità di genere e all’immagine che ho del mio corpo, e viceversa. La mia transizione include trattamenti e chirurgie che hanno provocato problemi fisici e dolori cronici. Questi trattamenti e chirurgie consumano anche tempo, energie e denaro. Non sono l’unica persona a considerare il proprio percorso come debilitante; molte altre persone trans, anche quando soddisfatte del risultato, hanno dato testimonianza delle loro difficoltà e delle conseguenze della trasformazione chirurgica sulle proprie vite (Cotton 2012). In sostanza, così come altre persone disabili che hanno esperito forme di “crip time” (Kafer 2013, pp. 25-46), ossia il tempo “in più” che spesso è necessario alla riuscita di determinati compiti, e l’energia, lo sforzo emotivo e il fardello temporale di cui hanno fatto esperienza nelle società abiliste, le persone trans esperiscono il “trans-cript time” (tempo necessario a trovare informazioni sulle procedure chirurgiche, educare i dottori e la società, guarire) e un peso finanziario che influenza l’interezza delle loro vite, attività e opportunità. In aggiunta al loro essere sufficienti a considerare la mia condizione trans come una disabilità, questi fattori combinati (volendo nominare soltanto questi) sono anch’essi fonte di sofferenza. Stratificata sopra questo dolore vi è la sofferenza causata dalla mancanza di riconoscimento o dal rifiuto di questa realtà debilitante da parte dei movimenti sociali. Per tutte queste ragioni, una “politica della disabilità per la condizione trans” si rivela necessaria. Non è mia intenzione lasciare intendere che la condizione trans sia un aspetto esclusivamente negativo della mia vita. Al contrario, la mia transizione è la cosa migliore che abbia mai fatto. È stata un punto di svolta, un primo passo che ho dovuto fare verso le mie speranze e i miei bisogni, anziché continuare ad ascoltare le mie paure. Se non l’avessi fatto, non sarei qui, in senso alquanto letterale. Nel complesso interstizio tra la condizione trans come fonte di sofferenza ed enorme soddisfazione, tra disforia ed euforia, è giusto menzionare il fatto che la transizione, come la disabilità, cambia il tuo rapporto non solo con la tua identità e la tua forma incarnata, ma persino con gli altri. Ed è proprio questo l’argomento con cui vorrei concludere. L’aspetto più ricco e potente della mia transizione è stato il suo potere di trasformare le relazioni; molte erano cambiate, diventate più profonde o rese più intime. Livingston (2005, p. 3) sostiene che la debilità “problematizza, mobilita e intensifica le relazioni sociali”. Non è sola nell’osservare gli effetti paradossali, a volte negativi, a volte positivi, della debilità. Crow (1996) e Wendell (1996) hanno entrambi dimostrato che le disabilità trasformano le relazioni interpersonali in relazioni individuali. Sebbene la mia transizione sia fonte di relazioni interrotte con alcuni amici e membri della mia famiglia, è anche stata un’occasione per una riconciliazione significativa con altri. La mia transizione è stata spesso anche un’opportunità (durante le procedure mediche e chirurgiche, le attività per i diritti trans, l’affermazione pubblica) per approfondire e rafforzare relazioni con la famiglia che ho scelto: i miei amici e i miei partner. Così come altre persone disabili sono al centro di relazioni sociali fondate sulla cura del sé e degli altri, sono stato e sono ancora, come persona trans, al centro di simili relazioni di cura. In molte occasioni e in modi diversi, i miei amici e i miei partner hanno sostenuto e rispettato le mie decisioni, mi hanno incoraggiato ad affermare la mia identità, hanno ricordato agli altri di usare pronomi maschili, hanno ascoltato quando ero giù di morale, supportato le mie battaglie politiche, mi hanno accompagnato in ospedale, mi hanno iniettato ormoni, mi hanno lavato, nutrito e si sono presi cura di me. Tutto ciò ha reso la mia transizione possibile e sopportabile. “Intensificando” queste relazioni, la mia transizione mi ha consentito di stabilire e/o rafforzare relazioni interpersonali che vanno oltre la mia condizione trans, connessioni che ci creano e ci ricreano, che arricchiscono le nostre vite e rendono possibili azioni collettive.
Traduzione di Elena D’Angelo
Si ringrazia Clark Pignedoli, ricercatore in studi trans, per aver partecipato alla rilettura e correzione della traduzione italiana del testo.
Rif. bibl.: Alexandre Baril, Transness as debility: rethinking intersections between trans and disabled embodiments, «Feminist Review», SAGE Publishing, 111, 2015, pp. 59-74, https://doi.org/10.1057/fr.2015.21.
Elena D’Angelo è producer e editor freelance. Dopo la laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali presso la Statale di Milano ha frequentato il biennio specialistico in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha lavorato come producer presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, seguendo progetti di numerosi artisti internazionali come Anri Sala, Hito Steyerl, Nalini Malani e Cécile B. Evans. Al momento collabora con Mattatoio, Roma, ed è partner dell’archivio video online instudio.
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Alexandre Baril è professore associato alla School of Social Work presso l’Università di Ottawa, specializzato in temi di ricerca che riguardano il genere, la sessualità, l’identità di genere, l’esperienza trans e la disabilità. I suoi recenti lavori analizzano il dibattito sul suicidio assistito attraverso il punto di vista di ricerche e movimenti anti-oppressivi. Ha pubblicato articoli per diversi giornali e riviste accademiche internazionali.
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