Aprendo il sito di Joshua Schwebel, artista canadese con base a Berlino, ci si chiede se non si stia effettivamente leggendo l’indice di un libro di critica istituzionale. Nella barra laterale scorrono tutti i soggetti principali del mondo dell’arte, affiancati a sostantivi che indicano atti di privazione o spostamento. Il lavoro dell’artista si concentra infatti sulla continua messa in crisi della macchina istituzionale che vive nascosta dietro le opere, attraverso azioni che giocano con le relazioni di potere, con le dinamiche burocratiche e con i soggetti invisibili dell’arte.
In Popularity, 2012, ogni giorno, per un mese, 35 persone sempre diverse sono state pagate per entrare nello stesso spazio espositivo. Al termine dell’operazione tutti gli spazi espositivi del Canada, stato in cui i finanziamenti alle istituzioni artistiche si basano sull’affluenza di pubblico, hanno ricevuto una cartolina che spiega il progetto senza rivelare quale fosse lo spazio prescelto per questa azione. Per Subsidy, 2015, gli stagisti non pagati della Künstlerhaus Bethanien di Berlino hanno ricevuto uno stipendio per continuare a fare semplicemente quello che stavano facendo. Evictions, 2018, ha costretto gli impiegati della residenza Laznia CCA di Gdansk a spostare i loro uffici in un centro per l’integrazione, mentre le loro scrivanie venivano occupate da un gruppo che supporta i giovani del quartiere periferico di Nowy Port.
Questi sono solo tre esempi delle dislocazioni operate da Schwebel nelle istituzioni che lo hanno ospitato. L’artista ragiona infatti sulle problematiche del luogo in cui opera e, nello spostare risorse, oggetti e persone, tenta di minare le fondamenta della struttura istituzionale, per poterla affrontare ed eventualmente ridiscutere. Gli strumenti utilizzati da Schwebel sono quelli della burocrazia, come lettere, ricevute, contratti, denaro e impiegati. Ciò che viene messo da parte è invece l’oggetto-opera con cui il pubblico è solitamente abituato a relazionarsi. La sparizione degli oggetti, spiega Schwebel nell’intervista, non fa altro che mettere in luce le relazioni basate su di essi, e porta sia il pubblico sia coloro che sono coinvolti nell’azione a confrontarsi con la parte del sistema che non vuole essere vista. L’artista affronta così il dualismo del mondo dell’arte che, seppur costretto a ricalcare i modelli neoliberali e capitalisti delle strutture burocratiche, politiche ed economiche, spera di poter conservare la sua anima anti-istituzionale.
Sabato 6 aprile, Joshua Schwebel presenterà presso la spazio indipendente Standards (Milano) la performance live Second Summons (Seconda Convocazione), a cura di Michele Lori e Sara Castiglioni, in cui l’artista proverà a mettere in scena le criticità e finzionalità del sistema burocratico a cui una realtà no profit deve sottostare per poter operare all’interno del contesto artistico italiano, in una sorta di confessione al pubblico che coinvolgerà gli organizzatori nel rivelare ciò che consuetamente resta celato. Alla performance seguirà Sonniloquio per restare, progetto a cura di Michele Lori, Silvia Costa, Joshua Schwebel e Sara Castiglioni, durante il quale verranno presentate alcune letture in grado di ampliare gli argomenti affrontati da Schwebel, accompagnate dalle composizioni sonore dell’artista Valerio Maiolo.
Elena D’Angelo: Ho trovato il tuo rapporto con gli oggetti particolarmente interessante: non ne produci quasi mai di nuovi, se non in forma di lettere o display, o più raramente come copie disegnate di altri oggetti. Eppure sono molto presenti nel tuo lavoro come cose da poter spostare o prendere. In che modo selezioni gli oggetti che vuoi spostare? Quale pensi possa essere il ruolo di un oggetto nel ridefinire il concetto di autorità storica?
Joshua Schwebel: Lo dico senza troppi giri di parole. Non sono interessato agli oggetti in sé. Mi interessano piuttosto le relazioni e il modo in cui esse sono organizzate. Si tratta più di una preoccupazione politica che non estetica. Mi concentro spesso sulle relazioni interne alle istituzioni artistiche, poiché tali relazioni sono ufficializzate e, come tali, rappresentano esse stesse un prodotto culturale. Dal momento che l’incontro con l’arte è spesso mediato da strutture istituzionalizzate che pongono le condizioni di come immaginiamo e riconosciamo ciò che l’arte può essere, tali strutture andrebbero esaminate e messe in discussione, e non dovremmo prenderle come date. L’autorità, il potere e il valore si esprimono e si rafforzano attraverso le relazioni gerarchiche delle istituzioni, che sono sempre normalizzate al punto da raggiungere l’invisibilità sociale. Tramite il mio lavoro, tento insomma di osservare le strutture del potere istituzionalizzato, e di esaminare, laddove necessario e se possibile, gli squilibri di cui mi accorgo. Se un oggetto in particolare esprime o cristallizza relazioni di autorità, potere o valore in un determinato ambito del mio progetto, esso diviene interessante. Esploro le condizioni che hanno portato quell’oggetto a essere in un certo punto o a diventare una certa cosa, e poi mi domando: se rimuovo quell’oggetto dalla struttura o dal campo semantico in cui opera, che cosa accade? E se invece lo raddoppiassi? O ne facessi un falso? Conduco questi esperimenti con l’oggetto o intorno a esso. Ciononostante, ciò che davvero mi interessa non è l’oggetto in sé ma le reazioni che tali cambiamenti potrebbero generare.
Elena D’Angelo: La maggior parte dei tuoi lavori sembra operare uno spostamento di oggetti o corpi, di forza lavoro o di intenzioni. Se queste azioni avevano, nella prima fase della tua produzione, una vena ironica e umoristica, nel tempo questa operazione ha assunto un valore più critico e destabilizzante. Quale pensi sia l’effetto di tali decontestualizzazioni? Scorgi una valenza politica nell’atto di rimuovere o riposizionare qualcosa o qualcuno?
Joshua Schwebel: Nel contesto di una mostra, l’oggetto è tendenzialmente l’unica cosa che il pubblico vede. Come ho detto, per me non è interessante l’oggetto in sé, ma l’oggetto che viene esposto e che occupa la posizione dell’“arte” ci distrae da una rete di aspettative radicate, relazioni di potere e ambizioni. Eliminando l’oggetto intendo mostrare tutto ciò che si muove intorno e dietro a esso“…Eliminando l’oggetto intendo mostrare tutto ciò che si muove intorno e dietro a esso”. Dal momento che il mio interesse sta nel rivelare le relazioni e il groviglio di interessi politici che esse contengono, mi focalizzo sull’istituzione stessa, su ciò che sta già all’interno di una qualsiasi struttura organizzata. In tali strutture i ruoli degli individui rientrano all’interno di gerarchie, e le persone hanno più o meno valore, autorità, legittimazione ecc. (tutto ciò non è neutrale). In altre parole, le strutture istituzionali trattano già gli individui come se fossero oggetti. Faccio uso di tecniche artistiche di riconfigurazione materiale, che includono ridistribuzioni, dislocazioni, infiltrazioni, estrazioni e inserzioni. La mia pratica artistica è essenzialmente fatta di queste azioni, anche se sono a malapena visibili al pubblico, dal momento che hanno un effetto sul motore amministrativo dell’istituzione imponendo a quest’ultimo una funzione, o disfunzione, artistica supplementare, sovrapposta al compito amministrativo di gestione dell’istituzione. I miei interventi risultano spesso in un conflitto politico interno che espone l’istituzione a se stessa. Le istituzioni artistiche sono per me particolarmente interessanti perché dichiarano la propria lealtà all’arte. Si tratta, alla base, di un mandato impossibile e pertanto disonesto, poiché l’arte è fondamentalmente anti-istituzionale, o per lo meno i valori neoliberali e capitalisti che le istituzioni sono costrette a incorporare per essere in grado di sostenersi (nella maggior parte dei sistemi di finanziamento pubblici o privati) sono antitetici ai valori dell’arte. Tramite il mio lavoro, cerco di dividere questi schemi di lealtà e di rendere visibili le loro contraddizioni intrinseche. Chiunque abbia un ruolo amministrativo nel settore artistico, di fronte a un mio lavoro, si trova a dover affrontare la natura duplice della sua lealtà, divisa tra l’eccezionalità dell’arte e l’ordine istituzionale. I dissensi, i rifiuti o le accettazioni delle mie proposte d’intervento rivelano le strutture (di potere) dell’arte istituzionalizzata e la specifica configurazione dell’istituzione in questione. Registro la corrispondenza e le negoziazioni necessarie alla produzione del lavoro, che diventano così la materia principale di ciò che espongo al pubblico.
Elena D’Angelo: Vi sono state almeno due occasioni in cui i tuoi progetti, da ciò che ho potuto comprendere, sono stati interpretati come un attacco personale dai dipendenti delle istituzioni. Se nel caso della tua residenza al Künstlerhaus Bethanien di Berlino la minaccia era infine stata compresa, in quanto critica al sistema in generale, la tua proposta per il Museum Reinickendorf è stata invece bocciata dalla direzione del museo. Perché secondo te le persone interne alle istituzioni si sentono personalmente attaccate quando incontrano un progetto che critica non loro, ma l’istituzione stessa per cui lavorano? Com’è possibile che il sistema dell’arte, che ormai dovrebbe sentirsi a proprio agio con la critica istituzionale, continua a essere incapace di osservarsi con occhio critico?
Il potere non è evidente. È nascosto e distribuito.
Joshua Schwebel: Il potere non è evidente. È nascosto e distribuito. Il potere si impegna anche a mantenere immobilità e invisibilità. Le strutture di potere nascondono la violenza o la forza che è stata usata per garantire la loro acquisizione. Qualsiasi tentativo di mostrare o cambiare le strutture di potere è percepito come un attacco. Il progetto che ho elaborato durante la mia residenza al Künstlerhaus Bethanien consisteva nell’utilizzare i fondi ricevuti dalla provincia Canadese del Québec per pagare gli stagisti che lavoravano negli uffici della residenza stessa, il cui lavoro non veniva economicamente riconosciuto. Tale compenso è stato distribuito agli stagisti che hanno lavorato nel corso del mio anno di residenza. È piuttosto deludente pensare che il direttore della residenza lo abbia visto come un motivo per sentirsi minacciato. Ho denunciato un abuso di potere che avviene all’interno dell’istituzione che dirige. Ho mostrato la sua volontà di sostenere le disuguaglianze di potere stagnanti e pervasive in tutto il mondo dell’arte. Ciononostante non ho mai fatto nulla per attaccarlo personalmente o per farlo sentire minacciato. Foucault ha dichiarato:
«Il vero compito politico in una società come la nostra è quello di criticare il lavoro delle istituzioni che sembrano essere sia neutrali che indipendenti; occorre criticarle e attaccarle in modo da smascherare tutta la violenza politica che, in maniera oscura, ha sempre esercitato se stessa attraverso loro».11Foucault-Chomsky debate.
Le persone sono spesso così coinvolte nelle strutture del potere istituzionale che, quando rendo visibili le inadeguatezze o le ipocrisie intrinseche a questa società, provoco quasi una difesa dell’istituzione. Mi rattrista pensare che le persone corrano in difesa di una situazione sistemica malsana piuttosto che riconoscere che essa debba essere cambiata, e lavorare insieme per fare in modo che le cose migliorino. Cinque anni dopo la mia residenza al Künstlerhaus Bethanien vi sono ancora stagisti non pagati che continuano a lavorare nei loro uffici.
Elena D’Angelo: Il lavoro che presenterai a Standards (Milano) il 6 aprile 2019 inizia con un’analisi delle necessità e delle problematiche legate a un’organizzazione culturale no-profit e finisce con una lettura di testi teorici. Considerando che la maggior parte delle tue opere sono profondamente connesse alle problematiche del luogo in cui vengono presentate, qual è la ragione che ti ha spinto a scegliere questo progetto per Milano in generale e Standards in particolare? Puoi anticiparci alcuni dei tuoi riferimenti e delle ragioni che secondo te sono connessi in particolare a questo ambiente?
Joshua Schwebel: Quando ho incontrato i fondatori di Standards, mi è stata presentata una giovane associazione culturale alle prese con diverse questioni legate alla precarietà, all’istituzionalizzazione e agli espedienti burocratici e amministrativi con cui devono negoziare per organizzare i loro eventi. Per poter esistere come associazione e ricevere fondi pubblici per gli eventi che organizza, Standards deve adottare una struttura che sia riconoscibile in senso istituzionale. Ciononostante, per evitare le insidie dell’istituzionalizzazione – vale a dire rigide gerarchie interne, mostre predeterminate o cicli di eventi ecc. – sembra importante discutere in modo esteso e con grande cautela fino a che punto tali forme vengano adottate, e con quali vantaggi o svantaggi. La prima parte del progetto consisterà in una discussione che prende in considerazione queste domande, mentre riflette formalmente la struttura istituzionale e i confini tra spazio privato e pubblico che essa rappresenta. La seconda parte della serata è stata invece sviluppata in collaborazione con gli organizzatori di Standards e consisterà in una sorta di reading collettivo di alcuni testi che mi hanno influenzato – e a cui contribuiranno anche alcuni membri dello spazio. In questo caso si tratterà di testi più profondamente connessi con la gestione amministrativa dell’arte, gli effetti dell’ordinamento burocratico e l’impossibile regno della falsificazione.
Joshua Schwebel è artista concettuale canadese con sede a Berlino. Attraverso interventi artistici, il suo lavoro de-centra l’autorità istituzionale e rende visibili le strutture di potere e le gerarchie che risiedono nel sistema dell’arte.
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Elena D’Angelo (1990) è producer e editor freelance. Dopo la laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali presso la Statale di Milano ha frequentato il biennio specialistico in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha lavorato come producer presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, seguendo progetti di numerosi artisti internazionali come Anri Sala, Hito Steyerl, Nalini Malani e Cécile B. Evans. Al momento collabora con Mattatoio, Roma, ed è partner dell’archivio video online instudio.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.