«Performance as splitting oneself in two, with oneself taking action relative to the tendencies of the other. […] Performance as exhaustion: breakdown of specific channels of adaptation, the reaction spreading over different areas. […] Performance as camouflage (performer can change shape coloration, in order to fit the background). […] Performance as alibi, resulting in a presented piece of biography at all. […] Performance as confrontation of a thing that is present on the condition that it recedes from its given aspects».
(V. Acconci, Vito Acconci: Notebook Excerpts, 1971)
In occasione della collaborazione tra KABUL magazine e LIVE WORKS (Centrale Fies), traduciamo e divulghiamo per la prima volta in italiano un estratto degli atti del convegno tenutosi nel 1979 a Palazzo Grassi (Venezia), in occasione della mostra11Artisti in mostra: Vincenzo Agnetti, Juan Clareboudt, Giuseppe Chiari, Hervé Fischer, Jochen Gerz, David Haxton, Bernard Joubert, Michel Journiac, Wolf Kahlen, Allan Kaprow, Richard Kriesche, Christian Kubish, Alan Lazarus, Leopoldo Maler, Bruce McLean, Gerald Minkoff, Federica Marangoni, Hermann Nitsch, Muriel Olesen, Orlan, Jean Otth, Gina Pane, Gianni Pettena, Fabrizio Plessi, Helmut Schober, Ha Schult, Bill Viola. The Art of Performance è stata organizzata da New York University (Art and Education Department) e dal centro di arte e comunicazione di Buenos Aires.
intitolata THE ART OF PERFORMANCE, a cui presero parte Gregory Battcock, René Berger, Florent Bex, Achille Bonito Oliva, Cee S. Brown, Angiola Churchill, Pontus Hulten, Christos Joachimides, Pierre Restany, Jean Pierre Van Tieghem, Francesc Vicens. Il convegno, coordinato da Jorge Glusberg, fu organizzato allo scopo di definire una cornice critica e teorica sulla performance art. Il testo, ritrovato nel fondo bibliotecario Ermanno Migliorini custodito presso il CID/Arti Visive del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci e mai ripubblicato sino a oggi (nemmeno in lingua originale), è da considerarsi fondamentale per lo studio della performance art. Basti pensare che nel 1984 Gregory Battcock, per la sua celebre antologia, scelse un titolo che ricalcava appunto quello della mostra veneziana:22«The final epigraph comes from The Art of Performance, the catalogue to an exhibition of performances held in Venice in the summer of 1979, from which the title of this book was chosen. The exhibition was only one of many international festivals and symposia presented between 1977 and 1980 in New York, Montreal, and primarily, in Europe. In addition to providing an official acknowledgment of the form, these events clearly identified performance as the art form most characteristic of the 1970s» (G. Battcock, The Art of Performance, 1984).
Art of Performance: A Critical Anthology.
Rileggerlo oggi, a cinquant’anni dal 1968 – anno riconosciuto dalla critica come coincidente con la nascita della performance art –, in un periodo di crisi culturale in cui la comunicazione di massa e il linguaggio politico sono esasperati da un pensiero populista nutrito da nuove istanze di matrice colonialista e razzista, rimette in discussione le modalità e le urgenze affrontate e portate in scena nelle performance che si sono susseguite durante le giornate di LIVE WORKS.
Di seguito chiariremo quanto affermato con una breve e concisa cronologia che si sofferma su tre specifici anni che riteniamo utili per argomentare la nostra tesi: 1968, 1979 e 2018.
1968: La nascita della performance. L’importanza della documentazione video e il ricorso all’interdisciplinarietà
«The year 1968 prematurely marked the beginning of the decade of the seventies. In that year political events severely unsettled cultural and social life throughout Europe and the United States. […] Performance in the last two years of sixties and of the early seventies reflected conceptual art’s rejection of traditional material of canvas, brush or chisel, with performers turning to their own bodies as art material, just as Klein and Manzoni had done some years previously».
(RoseLee Goldberg, Performance art: From Futurism to the Present, 1979)
La performance art, come chiarisce già nel titolo Goldberg nel suo libro del 1979, affonda le sue radici nelle avanguardie storiche europee e fa riferimento al verbo inglese to perform che racchiude in sé molti significati, tra cui “operare”, “svolgere”, “compiere”, “adempiere”, “portare a conclusione” e può essere applicato in diversi contesti: da quello amatorio, a quello sportivo, sino a quello dello spettacolo in ambito musicale e/o teatrale. Possiamo dunque affermare che l’atto della performance sia sempre esistito ed è insito nel comportamento quotidiano di ogni essere umano.
Ma come entra la performance nelle arti visive tanto da diventare un’etichetta? Critici tra loro molto distanti per metodologie di lavoro e punti di vista, come Renato Barilli, Alberto Boatto e RoseLee Goldberg, sono giunti alla conclusione che la nascita della performance art risalga al 1968,33Il 1968 è considerato l’anno di avvio alla performance art perché il 30 ottobre Simone Forti si esibì alla galleria di Piazza di Spagna su invito di Fabio Sargentini importando le ricerche che si stavano diffondendo negli Stati Uniti. Dai critici è considerata come la prima performance realizzata in Europa. L’interesse di Sargentini per il genere performativo verrà poi rafforzato nel mese successivo con l’inaugurazione del garage: «Il garage si rivelò il contenitore perfetto per la nuova forma d’arte degli anni ’70. Non ricordo adesso la prima volta che venne fuori il conio, l’etichetta “performance”. Ecco l’unica cosa di cui mi rammarico è di non essere un coniatore di etichette, perché nel ’69 se avessi chiamato il primo festival di musica e danza… […] quella parola, sai, l’etichetta, ecco lì non sono stato bravo, Celant è stato bravissimo in questo» (R. Siligato, Intervista a Fabio Sargentini, in Roma anni ’60: Al di là della pittura, (Roma, Palazzo delle esposizioni, 20 dicembre-15 febbraio 1991), a cura di M. Calvesi, R. Siligato, Roma, Carte Segrete, 1990, p. 372). Gerry Schum nel testo Videonastri, pubblicato nel catalogo della Biennale di Franco Arcangeli, riprende l’etichetta senza avanzare spiegazioni critiche, al solo scopo di spiegare al meglio la sua rassegna video ospitata nella roulotte parcheggiata ai Giardini della Biennale: «I video-oggetti realizzati in questo laboratorio durante la Biennale varranno particolarmente a evidenziare il contrasto ovvero il dualismo tra le tradizionali opere d’arte risultanti da attività e tecniche ‘artistiche’ da una parte, e l’arte intesa come processo o performance dall’altra» (G. Schum, Videonastri, in 36 Esposizione internazionale d’arte, Venezia, 11 giugno-1 ottobre, 1972, a cura dell’Archivio storico dell’arte contemporanea, p. 30). L’etichetta “performance art” pare essere stata utilizzata per la prima volta in maniera consapevole nel contesto delle arti visive da Vito Acconci, nella sua pubblicazione del 1971. In Italia, fino al 1977, anno della prima edizione di La settimana della performance art di Bologna, si privilegia la categoria nominata «comportamento», coniata da Barilli in occasione di Gennaio ’70.
[5] anno simbolo della rivoluzione intellettuale. I due esponenti italiani affiancano questo nuovo genere e medium alle teorie di studiosi come Herbert Marcuse, Marshall McLuhan ed Edgar Morin,44Cf. R. Barilli, Il ’68 nelle arti visive, apparso in «Qui arte contemporanea», 15 settembre 1975, in R. Barilli, Informale oggetto, comportamento; F. Vegliani, La prima intervista di Marcuse a un settimanale d’Europa, «TEMPO», 27, 2 luglio 1968, pp. 16-23; S. Milani, Una rilettura di Edgar Morin, in «SocietàMutamentoPolitica», Firenze University Press, vol. 1, 2, 2000.
le cui idee convergono in tre punti fondamentali per gli sviluppi delle arti performative: l’abbandono del sistema gutenberghiano a favore della comunicazione massmediatica,il riconoscimento dell’equilibrio delle energie psichiche tra i poli freudiani del piacere e della realtà raggiunto grazie al periodo di crisi sessantottino.
In Discorso personale indiretto, pubblicato sulla rivista «Che fare» nella primavera del 1969, Boatto precisa che l’origine della performance art coincide con i moti del ‘maggio francese’, quando, riprendendo la tesi del sociologo Morin, all’interno di un contesto di crisi sociale si è iniziato a «utilizzare le pulsioni e le perturbazioni affettive al servizio della ricerca, vale a dire servirsi delle proprie allergie, dei propri entusiasmi, delle proprie perplessità, ciò può essere fatto solo a condizione di controbilanciare l’allergia e l’entusiasmo con il dubbio e di trasmutare la perplessità in interrogazione attiva».55A. Boatto, Discorso personale indiretto, «Che fare», 6-7, Milano, primavera 1969.
Il ’68 stimola pertanto il risveglio collettivo e la performance diviene così il campo di ricerca in cui manifestare il proprio dissenso. L’apertura alla partecipazione del pubblico della performance trova infatti riscontro nel concetto stesso di “contestazione”, spesso implicito al progresso artistico, attraverso meccanismi di affermazione e negazione critica di concetti. L’attività di ricerca, a sua volta, differisce dalla mera contestazione politica, e per poterlo fare è necessario che questa venga come “fissata”, divenendo documentazione di un’urgenza dettata da uno specifico periodo storico. La tecnologia inizia pertanto a essere presa in considerazione per registrare e «cristallizzare» (termine utilizzato dall’autore del testo qui tradotto) l’azione, affinché questa possa poi costituire la sintesi del rapporto che si instaura tra artista e pubblico, memoria privata e memoria collettiva, e al tempo stesso non restare immutata.66Grazie alla possibilità data dalla performance, che può al tempo stesso essere registrata ma anche non ripetersi mai più in maniera identica in quanto ogni volta che viene messa in scena è co-prodotta insieme alla partecipazione del pubblico, veniva superata la questione, fatta emergere da Walter Benjamin, dell’opera ai tempi della sua riproducibilità tecnica. Il testo di Benjamin è arrivato in Italia solo nel 1966, per i tipi di Einaudi, alle soglie della grande rivoluzione.
Come sostiene Goldberg, a partire dal ’68 la performance art si diversifica e rinnega i media tradizionali. Non solo perché li rifiuta ma soprattutto perché, nel momento della sua messa in atto, le fasi di produzione, realizzazione, fruizione e valutazione coincidono in un unico momento condiviso di partecipazione simultanea che investe l’artista e il pubblico. Così lo spiega Erika Fischer-Lichte in L’Estetica del performativo: «Per quanto riguarda i processi di produzione del significato negli spettacoli si può generalmente affermare che il singolo spettatore non li compia a partire da una distanza, ma in quanto partecipante coinvolto in essi. […] Anche quando prende “interiormente” le distanze dallo spettacolo, siede annoiato sulla poltrona a occhi chiusi, manifesta il proprio distacco con osservazioni critiche ad alta voce, egli continua comunque a prendere parte allo spettacolo, interviene cioè l’autopoiesi del loop di feedback. Finché rimane all’interno di quello spazio, egli non può non partecipare: la distanza che si può ancora mantenere durante l’osservazione di un quadro o la lettura di una poesia gli è, in questo caso, preclusa».77E. Fischer-Lichte, L’Estetica del performativo (2004), Carocci Editore, Roma 2014, p. 267.
Ciò comporta che i canoni solitamente adottati per la valutazione di un’opera d’arte si rivelino inadeguati e sia necessario trovare quindi un supporto in apparati teorici e concettuali appartenenti a discipline che, sino a questo momento storico, esulano dal campo strettamente artistico riferendosi piuttosto alle scienze sociali e all’antropologia.
Il ’68 ha dunque posto le basi affinché la performance potesse rientrare nel campo di studi delle arti visive, sia per le ricerche tecnologiche in ambito di tesaurizzazione di azioni effimere, sia per la legittimazione della rappresentazione di un messaggio attraverso il solo ausilio del corpo. La performance è pertanto da considerarsi come una risposta, una reazione a un momento di crisi della società e al tempo stesso di evoluzione tecnologica e intellettuale. Con il ’68 l’uomo inizia a percepire se stesso, guardandosi intorno con la voglia e l’obiettivo di reinventare e reinventarsi, dando nuovo valore a ciò che può apparire scontato nella quotidianità di una società dello spettacolo e dei consumi, agevolato in questa missione dalla tecnologia che non è più nemica ma supporto. Nel 1972, in occasione della rassegna curata da Fabio Sargentini e intitolata Festival Music and Dance, Luciano Giaccari, autore delle riprese, commentava in questo modo il ruolo della documentazione video: «Il punto infatti era proprio quello di registrare gli spettacoli nelle condizioni naturali degli stessi e senza che gli operatori e le macchine costituissero delle entità interferenti, sia per l’ingombro fisico sia per esigenze speciali di luce, di audio ecc. Nascevano così i primi fenomeni di documentazione video ‘in tempo reale’ di spettacoli e performances, fortemente legati alle circostanze contingenti, ma che comunque costituivano un esperimento, nel bene e nel male, non omologato alla banalità dello stile televisivo consueto».88L. Giaccari, C’era una volta un garage, la musica, la danza e un video, apparso su L’Attico, 1957-1987: 30 anni di pittura, scultura, musica, danza, performance, video, Spoleto, Chiesa di San Niccolò. 1 luglio-30 agosto 1987, 1987, a cura di F. Sargentini, R. Lambarelli, L. Masina, Mondadori (Milano) / De Luca Editore (Roma), pp. 76-77.
La critica che appartiene al campo delle arti visive alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta non possiede ancora gli strumenti necessari per poter teorizzare la propria natura effimera e time specific, slegata inizialmente da ogni contesto commerciale. Lo dimostra il fatto che l’etichetta di “performance art” viene coniata ad anni di distanza rispetto a quando gli artisti cominciano a utilizzarla nella propria pratica.
1979: Il consolidamento teorico: dal comportamento (behavior/attitude) alla performance art
«By 1979, the move of performance towards popular culture was reflected in the art world in general, so that by the beginning of the new decade the proverbial swing of the pendulum was complete».
(R. Goldberg)
«Performance became accepted as a medium of artistic expression in its own right in the 1970s. […] Art spaces devoted to performance sprang up in the major international art centres, museums sponsored festivals, art colleges introduced performance courses, and specialist magazines appeared.
(RoseLee Goldberg, Performance art: From Futurism to the Present)
Il 1979 segna l’inizio di un impegno critico e rappresenta una nuova fase della performance art, ormai distante dalla rivoluzione sessantottina e che mostra di adattarsi ai nuovi cambiamenti della società degli anni ’80. Nel 1976 viene pubblicato il volume intitolato Elements of performance art, una sorta di guida alla performance redatto da Fiona Templeton, un vero e proprio manuale di esercizi creato per i performer della new dance. Nonostante l’etichetta di “performance art” sia ormai riconosciuta, essa non ha ancora un corredo critico tale da giustificare la sua nascita in relazione agli altri studi dell’epoca in ambito antropologico, semiologico, politico e delle arti visive. Nel ’79, invece, assistiamo a una vera e propria profusione editoriale dedicata al tema. Peggy Gale pubblica Performance by Artists, una raccolta dei più noti artisti del campo ma che ancora una volta non riesce tuttavia a delineare una specifica teoria critica. Tale lacuna è colmata nel medesimo anno dal più noto testo di RoseLee Goldberg, Performance art: from Futurism to the Present. È in questo clima che si inserisce The Art of Performance, una mostra e una serie di interventi critici che hanno delineato in maniera lucida questo genere artistico, inserendo la produzione delle arti visive in armonia con gli studi di ambito semiotico e riuscendo a differenziare e allo stesso tempo unire le esigenze espresse dalla body art e dalla performance art.
Ma com’è stato recepito dalla critica italiana il risultato dei lavori compiuti nel corso delle giornate di studi di Palazzo Grassi? Come si evince dal testo tradotto, nel 1979 il termine ‘performance’ è ancora affiancato a quello di «comportamento» (behavior). In Italia, tale concetto è stato a lungo utilizzato come etichetta temporanea della performance art. Il termine è usato per la prima volta nel 1968 da Achille Bonito Oliva, in occasione della recensione del libro Happening del critico Michael Kirby appena pubblicato in lingua italiana. Lo scritto appare sulle pagine della rivista militante di Fabio Sargentini, «Carta Bianca»: «Linguaggio unico a mezza strada tra gesto e pensiero […], l’attore smette il decoro della verosimiglianza psicologica per inserirsi attraverso il proprio comportamento (come oggetto) nella situazione […], esibizione iterata di sé nell’accumulazione separata dei gesti, la cui trasparenza ideologica è costituita da un’attitudine alla libertà. E la libertà non è un reperto archeologico da riesumare ma un processo politico da attivare».99A. Bonito Oliva, Azione diretta, in «Cartabianca», Roma, 2, maggio 1968, pp. 29-32.
Il termine «comportamento» viene però teorizzato da Barilli in Gennaio ’70 probabilmente come traduzione della parola attitudes della mostra del 1969 che ha segnato uno spartiacque negli studi della storia curatoriale: When Attitudes Become Form. Riscontrando così delle affinità tra la natura processuale delle azioni viste a Berna e quelle che si vedevano nelle gallerie, nei garage e nei depositi italiani. Nel 1972, con la mostra Opera o comportamento, allestita in un’ala del padiglione centrale della Biennale di Venezia, continua i suoi studi teorici e pone l’attenzione sulla processualità e la temporaneità delle produzioni artistiche contemporanee a seguito dei cambiamenti e dei movimenti sessantottini. Il passaggio da behavior/attitude a ‘performance’ si realizza nell’intenzionalità, nella volontà e nella strutturata consapevolezza della propria azione da parte dell’artista-performer che assume su di sé una responsabilità nei confronti del pubblico: la performance non può esaurirsi nel compimento dell’azione ma nel potenziale di lettura che offre, nell’apparato simbolico da cui attinge e che ne definisce il significato. Già a partire dagli anni ’60 il carattere temporale, momentaneo della performance art, ovvero la sua durata, nonché la forza espressiva della gestualità ripetuta, pongono l’atto performativo in una zona intermedia tra il comportamento quotidiano e l’azione drammaturgica. La ricerca semiotica collegata alla performance art evidenzia ancora una volta come il concetto di performance sia difficilmente collocabile in un ambito univoco dell’arte ma come invece si ponga in uno spazio ibrido, incredibilmente liquido e precario, capace di mettere in discussione categorie, ruoli e il rapporto tra oggetto e soggetto.
Il 1977 è l’anno della prima rassegna dedicata interamente alla performance art, e finalmente nel catalogo leggiamo una prima linea di demarcazione tra il concetto di performance art e quello di comportamento: «In fondo, vedremo che l’attività che approda alla performance non è molto diversa, nei suoi aspetti teorici, nella sua filosofia, da ciò che in Italia si è detto ‘comportamento’; anzi tra i due al limite non c’è alcuna differenza concettuale; ma appunto ce n’è una di uso linguistico in quanto il nostro ‘comportamento’ soffre di un’ambiguità che può essere risolta, ma non molto bene, dal differente uso dell’articolo determinativo: c’è infatti ‘il’ comportamento, che diviene una categoria generale (di una persona o di un gruppo) […] c’è invece ‘un’ singolo comportamento, che ha un principio e una fine, e si distingue dai molti altri di quella stessa persona»1010R. Barilli, La ‘performance’ oggi: tentativi di definizione e di classificazione, apparso nel catalogo I Settimana internazionale della performance (Galleria comunale d’arte moderna di Bologna, Bologna, 1-6 giugno 1977), a cura di R. Barilli, F. Alinovi, R. Daolio, M. Pasquali, Nuova Foglio, Macerata, 1978. in R. Barilli, Informale Oggetto Comportamento, pp. 158-159.
(R. Barilli, Settimana internazionale della performance, 1977).
Facendo tesoro delle parole di Barilli, nel testo tradotto, Glusberg si pone la seguente domanda: in quali condizioni un comportamento può essere considerato portatore di significato? Egli assume il comportamento come parte di una discorsività legata al corpo e alla costruzione di un’estetica della performance. A questo proposito, pochi anni più tardi, sarà Richard Schechner, docente di Performance Studies, a rimarcare come la natura del processo performativo si esprima attraverso il restored behavior (‘comportamento ritrovato’), un fenomeno che rievoca sequenze smarrite, nascoste dal mito, dalla tradizione e, potremmo dire oggi, dalla comunicazione di massa. L’abilità del performer sta nel riuscire a costruire la struttura scenica, passando anche attraverso la decostruzione di se stesso, e gli elementi cosiddetti convenzionali rappresentano un punto di partenza da cui la performance trae spunto per ridefinirli ulteriormente, sia da un punto di vista formale che semantico. Questo è il risultato di un lungo percorso di allenamento che può attuarsi in qualsiasi ambito dell’esperienza sociale: «Restored behavior is the key process of every kind of performing, in everyday life, in healing, in ritual, in play, and in the arts […] Restored behavior includes a vast range of actions. In fact, all behavior is restored behavior – all behavior consists of recombining bits of previously behaved behaviors».1111R. Schechner, Restoration of behavior, in Between theatre and anthropology, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1985.
Le affermazioni di Schechner acquistano maggior valore ai giorni nostri, per esempio analizzando un caso specifico come quello delle performance che si sono da poco svolte a Fies, in cui i performer in più occasioni hanno puntato alla decostruzione degli stereotipi mediatici, sessisti e colonialisti e a una generale ridefinizione dei nuovi nazionalismi.
2018: LIVE WORKS: «Black and yellow bitches all around me»
«[…] Performance-Body Art is not glorifying. Nor is it personal, in the sense that the artist’s personality becomes an issue. As expression these works express nothing whatsover of the artist as individual, as person, as emotion, if anything the reverse is true for these works seem very much to be anti-ego statements and as such run counter of the bulk of preclimate-controlled art. As the artists get closer to basic human facts, beyond culture, nationalism or individualism, they begin at place that as not yet been discovered».
(G. Battcock, 1979)
Messa a fuoco la genesi della performance art a partire dagli anni Sessanta, come si sta ampliando oggi il concetto di performance? Quali direzioni sta prendendo o può ancora prendere il linguaggio performativo? Così come nel ’68 e nel ’79, oggi la performance art continua a rinnovarsi nei contenuti rispondendo alle problematiche della società in relazione alle evoluzioni tecnologiche e le complessità del linguaggio mediatico, e instaurando sempre un dialogo attivo tra i performer e il pubblico, una relazione orizzontale e non gerarchica tra memoria collettiva e individuale.
Viviamo negli anni della post-verità in cui i messaggi politici e i fatti di cronaca estera e interna sono veicolati e opacizzati dalle agenzie di comunicazione. All’interno di tale contesto, i performer rispondono arrivando in Europa da ogni parte del mondo e sfruttando realtà e istituzioni artistiche in cui incubare la propria ricerca affinché la verità maturata dalle esperienze personali possa essere divulgata e trasmessa a terzi senza filtri. Come sottolinea anche Battcock, è in quel preciso momento che tali esperienze smettono di essere meramente personali ed entrano all’interno di uno spazio che porta alla loro vera scoperta. Durante le giornate di LIVE WORKS, stereotipi mediatici e pensieri di origine colonialista che per anni hanno oppresso l’identità di intere popolazioni sono stati utilizzati da artisti come Rodrigo Batista, Christian Botale, Cinthia De Levie, Nyakallo Maleke, Phumulani Ntuli e Beto Shwafaty, che li hanno riattualizzati, reinterpretati, riabilitati e rimessi in discussione per divulgare storie di cronaca argentina, brasiliana, messicana e congolese troppo a lungo taciute. La samba e il twerking senza freni di Batista invitano alla conoscenza disillusa degli scontri e dei drammatici eventi che da anni si svolgono per le strade di San Paolo; i rituali e le invocazioni di origine africana di Botale vengono ricontestualizzati in epoca contemporanea per rivolgere preghiere agli spiriti affinché gli episodi di violenza sulle donne congolesi abbiano fine; uomini imbrigliati con lacci emostatici come bestie in una stalla indossano maschere e protesi nella performance di De Levie denunciando lo sfruttamento dei lavoratori e dell’immagine esotica del popolo messicano; Shwafaty riprende lo studio del movimento cinematografico della «Pornomiseria» per disilludere il pubblico riguardo alle immagini di ricchezza e spensieratezza erroneamente affiancate all’America Latina. Lo spettatore viene messo dinanzi alla verità senza che questa possa essere in alcun modo fraintesa.
Tentando di creare traiettorie di intimità con il pubblico, che in prima battuta si sente escluso dalla sua performance, Michele Rizzo indaga l’esperienza del clubbing e delle coreografie a essa collegate: la musica ovattata, i movimenti ripetitivi ricordano la condizione di solitudine e incomunicabilità di una generazione, ma allo stesso sono espressione di una liturgia, una ritualità che attrae lo sguardo dello spettatore e lo coinvolge gradualmente come parte dello spettacolo. Reza Mirabi si concentra invece sul rapporto sempre più distorto e contraddittorio tra natura, cultura e mercato: crea una brand, uno showroom per il pubblico che viene accolto e circondato da elementi ipercommerciali riconoscibili, propri della cultura popolare contemporanea, facendo leva sul culto del materialismo attuale che rende il pubblico complice di tale sistema per affiliazione e assuefazione.
Lo storytelling è invece il mezzo utilizzato per ridefinire i confini dell’identità personale e dei nuovi nazionalismi, raccontati con un approccio squisitamente ludico e naif dall’artista libanese Ely Daou, che attualmente vive tra Berlino e Barcellona, dopo aver trascorso l’infanzia a Beirut durante la guerra civile, e dal duo composto da Anne-Lise Le Gac e Arthur Chambry. Questi ultimi, rimasti folgorati dalle letture del sociologo Tim Ingold, come si evince dalla sceneggiatura proiettata in scena, ridisegnano una nuova cartografia immaginifica e sonora caratterizzata da gallette di riso fuori scala, fontane e confini di zucchero raffinato. Ursula Mayer immagina l’evoluzione delle specie partendo dall’analisi dei DNA di alcuni soggetti contemporanei, nella lecture multimediale in collaborazione con lo scrittore Chris McCormack e Jade Montserrat, mentre Judith Raum, nella sua lecture-performance, presenta su grandi schermi l’inedito lavoro fotografico intrapreso dalla storica e diplomatica britannica Gertrude Bell (1884-1926) in Mesopotamia, luogo al centro di numerosi interessi coloniali.
I curatori dell’iniziativa – Barbara Boninsegna, Simone Frangi e Daniel Blanga Gubbay – hanno più volte chiarito che i progetti presentati non sono da considerare come percorsi chiusi, opere finite. Al contrario, LIVE WORKS è da intendersi come una «free school» basata sul rapporto orizzontale tra tutti i partecipanti, in cui ogni artista ha sia l’opportunità sia la responsabilità di presentare il proprio lavoro agli altri ed esporlo al processo autopoietico del loop di feedback. Infine, sebbene il progetto a livello formale sia trattato e comunicato più come un vero e proprio festival con tanto di acquisto di biglietto, la struttura pensata per LIVE WORKS si pone in coerente continuità con la metodologia creativa e partecipativa della performance, rappresentandone allo stesso tempo le contraddizioni e le potenzialità.
Rif. bibl.: J. Glusberg, in The Art of Performance: Palazzo Grassi, Venice, 8-12 august 1979, New York University Art Department, New York, Cayc – Centre of Art and Comunication, Buenos Aires 1979.
L’arte della performance. I risultati semiotici delle performance
Oggi l’uso del corpo come mezzo di espressione tra gli artisti tende a costruire il percorso artistico in modo diverso, sulla base di un’urgenza umana primordiale, vale a dire verso un ritorno a pratiche antecedenti alla storia dell’arte, a ciò che ha posto le basi per la nascita stessa dell’arte. Tale fatto delinea un percorso a ritroso rispetto a quello storico: dall’opera d’arte concepita a livello simbolico, composta da segni convenzionali e arbitrari, all’opera naturale e motivata, sulla base della quale la storia dell’arte cade ripiegata su se stessa, come in un percorso a spirale.
Cerimonie senza Dio, rituali senza fede: è impossibile presenziare a questi riti senza [provare] la sensazione di [assistere a] un certo inganno. Questo non è riconducibile a un sacrilegio ma a una pantomima, a un’azione che comprende diverse modalità di espressione. Superati i problemi di forme e materiali, i creatori espongono il loro stesso corpo in un atteggiamento di incontro rinnovato con se stessi. Con il loro essere assenti da una religione capace di dare un significato alle azioni, tutto avviene come se al posto del sacro si creasse un’attività orientata verso il segreto: gesti clandestini, sotterranei, sviluppati di fronte a un piccolo gruppo di iniziati. Tutto accade come se in un’epoca privata della trascendenza e spogliata di forme e strutture – feste, rituali, sacrifici, orge cannibali – sorgesse il bisogno di incontrarsi di nuovo, nell’immanenza del gesto – posto al livello elementare del corpo – con un ritorno al cerimoniale. Queste cerimonie ci portano direttamente a scoprire il valore semiologico delle performance: secondo Ferdinand de Saussure,1212Cf. PDF, Università di Roma, Ndr.
soltanto i rituali convenzionali e il linguaggio meritano l’appellativo di semiologici. Il linguista ginevrino dubitava, in ogni caso, che le azioni apparentemente spontanee della realtà del soggetto, come la mimica, appartenessero al campo della semiologia. Tuttavia, considerando che tutte le attività umane, e in particolare quelle corporee sono determinate da convenzioni – non dimentichiamoci che oggi esiste una semiologia che investiga azioni come la defecazione, il coito ecc., nel loro [aspetto] culturale e sociale, vale a dire convenzionale –, le performance possono forse essere viste come eventi semiotici per eccellenza. Questo perché il corpo umano è il più plastico e duttile nella questione dei significanti. Esistono tentativi di indagini semiotiche sul corpo umano e l’approccio a quest’ultimo è l’oggetto di discipline come la teoria dei gesti, la cinetica corporea e la prossemica, cioè discipline che hanno a che fare con i movimenti, comportamenti, gesti e distanze tra le persone. L’interesse per questo tipo di argomenti è stato innanzitutto antropologico (Margaret Mead); in seguito, diversi specialisti hanno analizzato i rituali comportamentali (Greimas, Birdwistell, Bateson). Un precursore di tali studi fu indubbiamente Sigmund Freud nel Mosè di Michelangelo, in cui mostrò una sensibilità semiotica non comune quando descrisse la postura di Mosè nei minimi dettagli, deducendo i movimenti precedenti e successivi dell’opera, come se fosse stato osservato con il fotogramma del processo dinamico immaginato da quell’artista di genio. In Per una semiotica del mondo naturale, Greimas analizza i linguaggi gesticolari naturali e culturali, le coordinate del “volume umano”, la mobilità e l’attività motoria: i problemi delle “unità gesticolari”1313Cf. P. Bertetti, Lo schermo dell’apparire: La teoria della figuratività nella semiotica generativa, Esculapio, Bologna 2013, Ndr.
e della pratica gesticolare, basati sulle categorie della semantica strutturale di cui è pioniere. Analizza inoltre la gestualità mitica e la comunicazione gesticolare, la mimica, l’abilità nel gioco e lo stato simbolico del linguaggio gestuale.
A oggi la semiosi gesticolare indaga i programmi gesticolari, per quanto riguarda i significati che essi acquisiscono in diversi ambienti e culture: «La semiosi di un programma gesticolare sarà, quindi, la relazione tra le figure gesticolari, presa come significante, e il progetto gesticolare, inteso come significato […]». Julia Kristeva, riferendosi alla gestualità, la pensa allo stesso modo: parla della natura anaforica della gestualità – vale a dire che le figure gesticolari ci rimandano a un significato più inclusivo, che le comprende. (L’anafora è un meccanismo linguistico mediante il quale alcune parole rimandano l’una all’altra all’interno dello stesso enunciato, una sorta di segnale interno al discorso).
I programmi gesticolari quotidiani a cui siamo costantemente sottoposti sono comuni; ci vestiamo, puliamo, uriniamo ecc. Ma esistono programmi complessi, come gli scambi comunicativi attraverso i movimenti corporei e i gesti tra i membri di una famiglia o di un altro gruppo istituzionalizzato. Da questo punto di vista, l’arte del corpo sviluppa veri programmi creativi, sia individuali, sia collettivi. Come oggetti culturali, i programmi gesticolari richiedono la loro definizione genetica. Il programma conduce al suo stesso risultato, come un algoritmo procreativo. Così, un abito – una cosa – può essere definito attraverso il programma che porta alla sua realizzazione e che può essere chiamato programma di confezionamento del vestito.
Ciò che viene messo in gioco in una performance è il processo del suo stesso sviluppo e di costituzione, in relazione al prodotto artistico: entrambi gli eventi si fondono in una manifestazione finale. La cultura ci porta a considerare le sequenze di azioni e comportamenti che siamo abituati a percepire come naturali, ma la semiotica indaga le loro modalità di produzione, le loro determinazioni produttive.
La decodifica di movimenti, gestualità, comportamenti, distanze, significa porre simultaneamente lo spettatore nello stesso tempo dell’artista. Dennis Oppenheim afferma: «…La mia pratica artistica non costituisce un sistema tangibile, cristallizzato… Attorno al 1969 ho iniziato a occuparmi di me stesso attraverso l’esplorazione della dimensione fisica del corpo; ho iniziato a occuparmi di me stesso attraverso il mio corpo, me stesso…». Un misticismo del corpo domina la sua incursione all’interno della body art, come un elemento incontrovertibile della sua creazione. Questa assenza di cristallizzazione a cui l’artista allude, senza altro strumento se non le sue possibilità comportamentali, non produce un altro tipo di oggetto, come un dipinto o una scultura.
Il corpo nudo, il corpo vestito, le trasformazioni che possono essere operate in esso, sono esempi delle innumerevoli possibilità offerte dal semplice, dall’imprevedibile lavoro con il corpo. Ma le performance e la body art annullano il corpo, come un architetto annulla lo spazio naturale e lo trasforma nello spazio umano. In questa tendenza (fashion), i vari elementi del corpo che sono offerti come contenitori di proposte artistiche sono la testa, i piedi, le mani o le braccia. Le espressioni del viso, i gesti compiuti con le braccia o le gambe, acquistano un’importanza speciale e l’osservatore tende a valorizzare le differenti relazioni tra le estremità e i loro movimenti. Commenti riguardanti le performance mettono l’accento solitamente su segni equivoci: le fotografie alludono a un lavoro, presentando solo aspetti parziali. Indipendentemente dal fatto che l’attenzione si concentri su alcuni aspetti del corpo, [lì] esiste nella performance un’infrastruttura totalizzante che li genera e li articola, ovvero un’unità corporea bio-fisiologica. Ma solo la cultura impone le sue codificazioni su certe parti del corpo: il viso è la parte maggiormente soggetta a ritualizzazioni. La saggezza popolare dice che ogni persona ha il viso che si merita. Ciò si riferisce, naturalmente, alle espressioni, che convenzionalmente modellano la forma del volto.
Nelle performance o nella body art, quegli elementi che indicano ciò che è pertinente, come un gioco di luci o le focalizzazioni della scena, non hanno importanza. Ciò che assume rilevanza è l’osservazione dell’interno in relazione all’esterno, del piccolo in relazione al monumentale, di ciò che è suggerito in relazione a ciò che è inequivocabilmente evidente. Una sorta di perspicacia dell’osservazione è necessaria da parte dello spettatore – il quale non conosce tutti gli artifici convenzionali del teatro –, ma è limitata all’occultamento di realtà corporee semplici e differenziate.
Le performance o la body art sono cristallizzate nel loro stesso dispiegarsi, ma questa materializzazione non è immutabile: una scena può essere ripetuta ossessivamente o costituire un collegamento nella traiettoria discorsiva del corpo. Programmi comportamentali o gestuali non rispondono, tranne che in alcuni casi, a convenzioni standardizzate, ma piuttosto impongono i loro nuovi significati, totalizzando l’unione di campi semantici, dinamici e flessibili.
In sostanza – e crediamo che ciò sia fondamentale – le performance e la body art non lavorano con il corpo ma con una discorsività legata al corpo. Tuttavia la codificazione a cui tale discorso è assoggettato è contraria alle convenzioni tradizionali: parte da linguaggi convenzionali per poi entrare in conflitto con loro. Per questa ragione l’artista ha bisogno di un esercizio fisico e allo stesso tempo mentale che lo prepari al risultato finale, nello stesso modo in cui lo spettatore necessita di una certa abitudine al nuovo. Un’accozzaglia di immagini è offerta agli spettatori che vivono la finzione del proprio stesso corpo, ovvero una regola imposta dai rituali socialmente accettati. In opposizione a questa definizione, l’artista presenta un corpo che drammatizza la realtà recitata, ne fa la parodia, la enfatizza o la trasgredisce. Di fatto il discorso sul corpo è forse il più complesso tra quelli che derivano dalla molteplicità di sistemi semiotici che si dispiegano nella vita sociale. Da qui, perciò, le difficoltà nell’afferrarlo nelle sue dinamiche caratteristiche e nel suo sviluppo.
Messi a confronto con il linguaggio del corpo, sorge il problema della legittimità di un’analisi il cui oggetto sia quello di collegare questa ricerca con il soggetto del corpo in arte.
Se, seguendo F. Rastier,1414Cf. F. Rastier, Idéologie et théorie des signes. Analyse structurale des «Éléments d’idéologie» d’Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy, La Haye, Mouton, 1972; F. Rastier, Essais de sémiotique discursive, Tours, Mam, 1974, Ndr.
diamo la definizione di “comportamento” all’insieme di tutti i gesti e gli atteggiamenti osservati o rappresentati sulla base del corpo umano, il primo e il secondo implicano entrambi, nell’ambito delle performance, un metalinguaggio che di loro si fa carico e che li ridefinisce, ovvero che aggiunge nuovi significati. Ora, quindi, in quali condizioni un comportamento può essere considerato portatore di significato? La questione è priva di rilevanza finché riguarda la body art e la performance, dato che quei comportamenti che mancano di significato non sono pertinenti all’arte. In ambito artistico tutto deve avere un significato, un senso, o si corre il rischio di non costruire un oggetto estetico.
Sin dagli albori della civiltà vi sono state persone che hanno fatto del proprio corpo una sostanza semioticamente malleabile al fine di provocare risate o lacrime, o di impressionare gli altri. Molti soggetti narrativi tradizionali – scritti, filmici o televisivi – sono basati sull’esibizione del corpo, sui suoi movimenti o sul potere di alcune sue estremità. Allo stesso modo, la body art e le performance appaiono connesse a una risemantizzazione dei valori contenuti nel processo delle dinamiche corporee all’interno dell’arte. Questo processo inizia con movimenti significativi e “naturali” (stage 1); continua con l’appropriazione di questi da parte dell’arte tradizionale o gli stereotipi del teatro, della danza, del cinema, della televisione e delle mode sociali (2); si conclude con la ri-significazione di tutto questo vasto insieme nelle performance (3). In verità, esistono due tipi differenti di ri-significazione: quella che ha luogo nella fase 2 e che riguarda i comportamenti di base, e quella che ha luogo nella fase 3 in relazione alla precedente. Da questa prospettiva la body art e le performance implicano un metalinguaggio del secondo tipo, mentre la risemantizzazione operata dall’uso del corpo negli spettacoli tradizionali è del primo tipo. Questo sviluppo è dovuto all’interesse di indagare l’insieme di norme comportamentali nel sistema dell’arte, che operano con elementi che sono già naturalizzati e integrati nella cultura sociale. Ma nel cambiare contesto questi comportamenti alterano il loro significato: è qui che risiede la novità delle performance e dell’arte in generale, ovvero nell’incorporare ciò che dovrebbe essere naturale all’interno di un medium che riesce a denaturalizzarlo, che lo introduce nel preciso spazio culturale a cui corrisponde.
La body art e le performance mettono in discussione il mondo naturale e nello stesso tempo rappresentano una proposta artistica. Ciò non dovrebbe sorprenderci: mettere in crisi le verità dogmatiche è intrinseco al processo artistico in una condizione di crisi, in questo caso dogmi comportamentali, sia attraverso la loro semplice manifestazione, sia attraverso l’ironia e la memoria sarcastica.
Introduzione di Carolina Gestri e Francesca Vason
Carolina Gestri è storica dell’arte, docente e curatrice. Dal 2015 è coordinatrice di VISIO – European Programme on Artists’ Moving Images, progetto di ricerca promosso dallo Schermo dell’arte strutturato in una mostra e una serie di seminari. È co-fondatrice di KABUL magazine. È docente di Fenomenologia delle arti contemporanee e di Exhibition Planning rispettivamente nei corsi di Design della comunicazione visiva di IED Firenze e di Multimedia Arts di Istituto Marangoni Firenze.
Francesca Vason è curatrice e storica dell’arte. Lavora con M+B Studio a Venezia come curatrice e project coordinator di progetti espositivi internazionali. Collabora con TBA21-Academy e Ocean Space, La Biennale di Venezia, Danish Art Foundation, OCA – Office for Contemporary Art Norway, Singapore Design Council, oltre a sviluppare progetti indipendenti. Prende parte a Campo – programma per curatori italiani della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e, dopo aver scritto per magazine come Juliet e InsideArt, è tra i fondatori di KABUL magazine, dove attualmente opera come autrice e referente per le sezioni Project ed Editions.
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Jorge Glusberg è stato un autore, editore, curatore, professore e artista concettuale argentino. Nel 1968, insieme a Víctor Grippo, Jacques Bedel, Luis Fernando Benedit e altri, fondò il Centro de Estudios de Arte y Comunicación (CEAC) (rinominato in seguito Centro de Arte y Comunicación (CAyC) ) del quale fu direttore. Nel 1985 Glusberg ha fondato la Biennale Internazionale di Architettura di Buenos Aires e dal 1994 al 2003 è stato direttore del Museo Nacional de Bellas Artes (MNBA) di Buenos Aires. Nel 1995 ha creato il Dipartimento di Fotografia al MNBA.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.