Rumah11I titoli delle sezioni sono termini in bahasa indonesia. I primi due significano “Casa” (“Rumah”) e “Città” (“Kota”).
Tempeh, tofu, uova, riso, zuppa, sambal. Come ogni giorno nella cucina di Jatiwangi art Factory, una persona del vicinato sta preparando il pranzo da offrire a chiunque, residente o di passaggio a Jatiwangi – nel distretto di Majalengka a West Java –, abbia voglia di fermarsi a consumarlo.
Jatiwangi art Factory (spesso abbreviata JaF) è stata concepita dai suoi fondatori Arief Yudi Rahman, Ginggi Syarief Hasyim e Loranita Theo, come un luogo fortemente ancorato alla sua dimensione locale, ma anche in grado di aprirsi al di fuori di essa, senza perdere la propria identità. Si tratta infatti di una comunità dedicata alle arti e alla cultura, una casa sempre aperta ad accogliere e ospitare concerti, rassegne e incontri, costituita da persone nate e residenti a Majalengka, riunitesi con l’intenzione di creare qualcosa di importante per il distretto, in particolare per migliorare le condizioni di vita delle future generazioni del luogo.
Tutto nasce nel 2004, quando Arief, di ritorno dagli studi e da alcuni progetti realizzati a Bandung, riceve il sostegno da parte di sua madre per poter utilizzare la casa di famiglia come spazio in cui ospitare amici e diverse attività. Con il fratello Ginggi e la moglie Loranita inizia così a organizzare mostre, workshop e programmi di residenza, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione e attività per gli abitanti e le comunità locali, in quella che è un’area rurale priva di infrastrutture, scuole, gallerie e attività culturali, che il governo indonesiano intende trasformare in zona industriale.
I membri di JaF non ritengono di far parte di un collettivo artistico, ma preferiscono definirsi come una comunità-famiglia che comprende il vicinato, gli abitanti locali e l’intero ecosistema della zona, identificando nei concetti di “famiglia” e di “casa” (“Rumah11I titoli delle sezioni sono termini in bahasa indonesia. I primi due significano “Casa” (“Rumah”) e “Città” (“Kota”).
”) i propri valori di riferimento e il proprio ruolo: secondo JaF, infatti, la casa è il luogo in cui avvengono il maggior numero di “collaborazioni inconsapevoli”, ogni giorno. Chi abita lo spazio della casa? E come ci si divide i compiti? Il gruppo ha identificato principalmente quattro “ambienti” sui quali costruire la propria casa e la propria identità: la cucina, il luogo più importante, in cui condividere cibo, pensare e parlare insieme; la camera degli ospiti; la camera da letto e la stanza da bagno. Si parte dal presupposto che, affinché una famiglia funzioni, ciascun membro debba farsi carico di alcune mansioni, prendendosi cura delle varie stanze, cosicché si possa vivere bene e non prevalgano l’indifferenza e il disordine, in un’atmosfera di mutuo aiuto e collaborazione. L’importanza della cooperazione ha le sue radici nel “Gotong royong”, ovvero la pratica, considerata fondamentale nella cultura tradizionale indonesiana, di lavorare insieme per raggiungere degli obiettivi, grazie alla quale, per esempio, le persone hanno costruito, insieme ai vicini, le proprie abitazioni, condividendo il cibo e le risorse per far fronte alle difficoltà economiche.
Questa visione della dimensione casalinga come spazio protetto e di cooperazione è stata tradotta nell’articolazione della struttura del gruppo, suddiviso in diversi dipartimenti, intesi metaforicamente come membri di una famiglia: ciascuno con una sua specifica funzione, ma sempre a disposizione per collaborare, aiutare e fornire sostegno agli altri.
Al momento il gruppo conta cinquanta membri all’attivo: alcuni vivono nella Factory, una ex fabbrica di tegole, la casa comunitaria e il centro in cui avviene la maggior parte delle attività, numerosissime e di vario tipo, che seguono una precisa scansione temporale: appuntamenti quotidiani e settimanali, eventi mensili, annuali, biennali e triennali, al fine di costruire attraverso una presenza costante un senso di fiducia reciproca con gli abitanti del luogo e garantire la possibilità di momenti di condivisione e convivialità, in cui proporre e restituire progetti, dove godere del tempo insieme: uno degli aspetti più importanti di JaF è, infatti, la forte volontà di creare buone condizioni di vita per la propria comunità locale, per sottrarla al processo di industrializzazione in corso e per non costringere i giovani ad andarsene per mancanza di infrastrutture. Tutto ciò significa appartenere a un luogo e rispettarlo, riconoscendo la propria responsabilità e possibilità d’azione, impegnandosi a prendersene cura e imparando a negoziare con le istituzioni per sostenere proposte, diritti e desideri, mantenendo la propria integrità e dignità.
La comunità di JaF è impegnata quotidianamente a ospitare visitatori, membri del vicinato e collaboratori: ogni giorno una persona appartenente al distretto e retribuita settimanalmente da JaF prepara il pranzo che, in forma gratuita, viene offerto alla comunità. L’ospitalità gioca infatti un ruolo chiave nelle dinamiche del gruppo: significa aprire la propria casa agli altri, rendendola uno spazio poroso e vivo, un ambiente confortevole e permeabile alla presenza altrui, che prospera nel continuo confronto tra modi di vivere e pensare.
Per questa ragione JaF ha realizzato da tempo diversi programmi e formati di residenza: il primo, più informale, è dedicato ad artisti noti all’interno del network di JaF e invitati a partecipare; il secondo, il Village Video Festival, è un festival annuale, organizzato con Sundayscreen, durante il quale persone interessate al linguaggio video possono collaborare con gli artisti in residenza, approfondendo il discorso sui new media. Vengono tenuti workshop da professionisti (videoartisti, ricercatori, registi ed esperti di comunicazione visiva) per formulare un re-mapping del distretto in forma video; il terzo modello di residenza è il Jatiwangi Residency Festival, a cadenza biennale, più formale e articolato, che si realizza attraverso una open call e mira a indagare il concetto di relazione tra ospite e ospitato. Qui i partecipanti hanno l’occasione di fare esperienza dei modi di vivere, delle tradizioni e della cultura delle persone di Jatiwangi e, in cambio, viene chiesto loro di condividere le proprie pratiche, tradizioni culturali e prospettive artistiche. Durante il programma di residenza, gli artisti collaborano con i propri ospiti, con gli abitanti del luogo e insieme ad altri artisti per realizzare nuovi lavori attraverso materiali reperibili localmente.
Ogni attività organizzata da JaF ha la funzione di migliorare e arricchire ambiti specifici di interesse: per esempio, ogni 27 del mese, si tiene un forum aperto per la libera condivisione di idee e pensieri tra artisti, agricoltori, lavoratrici e lavoratori delle fabbriche, politici, insegnanti, imprenditori e imprenditrici, e altri membri della società. Ulteriori eventi mensili sono l’Apamarkt, un mercato con produttori locali, e il Ruang Kosmik, un concerto inteso come spazio sperimentale per le pratiche sonore, dove si confrontano tra loro musicisti, soundartists e gruppi musicali.
Kota
Uno dei progetti più importanti, Kota Terrakota (“Città di Terracotta”), ha segnato uno snodo culturale per Jatiwangi, con l’obiettivo di rimodellare la città sui desideri delle persone e considerando la “terra” non solo come come elemento, ma anche come terreno, territorio e idea.
Dal 1905 e per diversi decenni, infatti, Jatiwangi è stata la maggiore produttrice di tegole in terracotta di tutto il Sud-est asiatico, e JaF ha deciso di ripartire proprio dall’argilla e dalla terra per ripensare l’identità locale, cercando di portare cultura e arte in un luogo destinato a rimanere marginale, e lavorando attivamente per rendere gli abitanti orgogliosi e felici di farne parte.
Nel 2019, in seguito all’organizzazione della Indonesian Contemporary Ceramic Biennial, è stato raggiunto un accordo con l’autorità politica locale per questo progetto di ripensamento della città a partire dalla terracotta, elemento che l’ha contraddistinta per almeno un secolo, trasformando la produzione di tegole in una tradizione da attualizzare e confrontare con i cambiamenti che l’area sta attraversando: multinazionali come Nike e Adidas hanno stabilito lì alcune fabbriche, così come diverse compagnie tessili provenienti da Taiwan e dalla Cina, innescando una trasformazione del paesaggio, della cultura locale e delle stesse persone del luogo.
Da quel momento, per JaF è stato fondamentale chiedersi quale futuro si possa costruire per le generazioni a venire, affinché abbiano una vita migliore e non perdano la propria identità. Ragionare sui modelli di produzione significa anche mettere a confronto le ripercussioni nella vita quotidiana che i cambiamenti in atto comportano: per esempio, nelle vecchie fabbriche di tegole era concesso che i figli delle lavoratrici potessero stare con le proprie madri durante l’orario di lavoro, mentre, al contrario, nelle nuove compagnie questo non è più possibile, così i bambini devono restare a casa da soli o essere affidati a parenti, creando una rottura tra le madri e i loro figli.
A partire da discorsi come questo, comprensibili sia alle autorità che alla popolazione locale, è stato possibile trovare un accordo per il ripensamento dell’identità della città con il governatore provinciale, che ha successivamente affidato a JaF l’incarico per la progettazione di una nuova piazza cittadina nel centro di Majalengka. In seguito a questo accordo, il governo locale ha proposto al gruppo di espandere la riprogettazione all’intera area urbana: JaF ha elaborato così un nuovo criterio secondo cui ogni edificio costruito in zona deve essere per il 30% in terracotta, anche se si tratta di una nuova fabbrica. Usare la terracotta significa tracciare la prospettiva per un progetto di sviluppo che rispetti la dignità delle comunità locali, riconoscendone l’identità e l’importanza. Come sostenuto da Cecilie Sachs Olsen in “Radical Sympathy”22Brandon LaBelle, Radical Sympathy, Errant Bodies Press, Berlin, 2022, p. 107, traduzione a cura dell’autrice, come nei passi successivi. Dal testo originale: «Being attentive to the “second material ground” (how Yves Citton defines master plans of cities and architectural drawings that underpin them) that underpins the urban spaces we dwell in, requires that we be actively attentive to the concrete relational fabric which assures the consistency of representations and functions that we project onto the built environment. A building or a square, as the material and spatial grounds of our urban experience, are part of a system that is simultaneously productive and destructive, and whose fabrication cannot be separated from the weaving of concrete demands of our lives».
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«Essere attenti al “secondo terreno materiale” (come Yves Citton definisce i piani generali delle città e i disegni architettonici che li presuppongono) che sottende gli spazi urbani in cui abitiamo richiede di essere attivamente attenti al tessuto relazionale concreto che assicura la consistenza di rappresentazioni e funzioni che proiettiamo sull’ambiente costruito. Un edificio o una piazza, in quanto fondamenti materiali e spaziali della nostra esperienza urbana, fanno parte di un sistema che è insieme produttivo e distruttivo, e la cui fabbricazione non può prescindere dalla tessitura delle esigenze concrete della nostra vita».
È questo il senso che il progetto assume a livello politico, culturale, sociale, economico e ambientale.
Un altro evento che utilizza la terracotta come elemento di partenza, questa volta in termini performativi, è il Ceramic Music Festival (CMF), una dichiarazione collettiva della comunità locale per dar voce alla regione di Jatiwangi, posizionandola come proprietaria della cultura della terra, e che, in realtà, è stata punto di partenza per arrivare al percorso di ripensamento della città e all’accordo collettivo con le autorità ottenuto in Kota Terrakota.
Si tratta di un concerto organizzato ogni tre anni, in cui la musica viene suonata su strumenti a percussione realizzati in ceramica. Alla cerimonia ufficiale di apertura nel 2012 hanno partecipato 1.500 persone, che hanno suonato le tegole nel Rampak 1001 Perkusi Genteng (Orkestra Perkusi Genteng 1001). Coinvolgendo le comunità di 16 villaggi del distretto di Jatiwangi, l’orchestra si è trasformata in un movimento collettivo.
Nel 2018, insieme a JaF e ai funzionari del governo distrettuale (capi della polizia, capi villaggio e altri), più di 11.000 persone hanno pronunciato il “Jatiwangi Pledge” e cantato insieme “Nyanyian Jatiwangi”, per suggellare l’impegno a sostenere la cultura Jatiwangi. Il Ceramic Music Festival è giunto alla sua quinta edizione nel 2022, che ha avuto luogo durante documenta 15, a cui JaF ha partecipato come collettivo invitato.
Beyond Kota
Sebbene uno degli aspetti principali delle pratiche di JaF ruoti intorno al ricco calendario di attività che hanno luogo nella casa comunitaria, è importante notare come la prospettiva del gruppo sia orientata, già da molto tempo, alla costruzione di una fitta rete di amicizie e collaborazioni transnazionali, con molti progetti all’attivo.
Oltre al programma di residenze già menzionato, si ricorda Terracotta Embassy, un network per le relazioni diplomatiche non “tra governo e governo”, bensì “tra le persone e per le persone”, avviato con l’intento di creare opportunità di cooperazione internazionale con istituzioni e iniziative provenienti da diversi contesti geopolitici e interessate a impegnarsi e a sostenere il progetto Kota Terrakota. Designati come rappresentanti del proprio Paese di provenienza, questi “ambasciatori” si dedicano a un programma con un focus e una metodologia specifici – per esempio, sono attualmente attive le “ambasciate” di Svizzera e Taiwan, incentrate su macrotemi quali l’educazione e l’ecologia – che intendono sviluppare attraverso uno scambio reciproco tra la propria comunità e quella di Jatiwangi: ogni Paese è presente con una sua ambasciata fisica, costruita in terracotta e inserita all’interno del piano di ripensamento della città, attivata attraverso residenze, workshop, mostre e altre iniziative. Il senso di questo progetto è la costruzione di una rete transnazionale che possa proteggere e stimolare la comunità di JaF, lavorando su aree di interesse comuni e aprendo a un proficuo confronto tra approcci, linguaggi e portati culturali differenti.
Si tratta di costruire una rete di amicizie con persone, iniziative, istituzioni e associazioni che, pur provenendo da contesti differenti, sono unite da un sentimento di cura reciproca, una “simpatia radicale”, per utilizzare un concetto elaborato da Brandon LaBelle in Radical Sympathy, attraverso la quale «iniziative e attività di amici, peers e operatori culturali, nonché istituzioni, negli ultimi anni si sono progressivamente focalizzate sui temi della cura e del commoning, articolando forme di pedagogia empatica e di decolonizzazione attraverso una molteplicità di contesti e ambienti».33LaBelle, cit., p. 9. Dal testo originale: «[…] initiatives and activities of friends, peers and cultural workers, as well as institutions, who, over the recent years, have progressively focused on issues of care and commoning, articulating forms of empathetic pedagogies and decolonization across a range of contexts and environments».
Questa “simpatia radicale” si posiziona come «una più generale comprensione e una ricerca su una connessione planetaria, così come un vocabolario per esperienze e coinvolgimenti situati, incarnati e radicati storicamente»,44Ibid.
che muovono da «una compassione personale, dalla condivisione di relazioni immediate, alla messa in azione di sentimenti di cura e giustizia»,55Ibid.
che possano nutrire “culture di solidarietà”.66Ibid.
LaBelle, che si rifà alle ricerche di Francisco Varela, Stephen Darwall e Jane Bennett, tra gli altri, indica la simpatia come profonda comprensione per le difficoltà che altre persone stanno attraversando e come atteggiamento responsivo di base necessario per un’azione pratica.
A differenza dell’empatia, che conduce a provare le stesse emozioni della persona con cui si entra in relazione, la simpatia porta il soggetto a una comprensione della condizione altrui, in una dimensione di porosità e interdipendenza in cui soggetti anche appartenenti a situazioni diverse decidono di prendersi cura gli uni degli altri, uscendo da retoriche e narrative “in prima persona” per aprirsi a una dimensione “cosmica”: «Presto la mia voce alle storie degli altri, o in modo da permettere alla voce degli altri di parlare attraverso di me. E agisco in modo da giovare agli altri, per il loro bene».77Ivi, p. 12. Dal testo originale: «I give my voice to the stories of others, or so as to enable the voice of others to speak through me. And I act in such a way as to benefit others, for their sake».
La simpatia porta il soggetto a una comprensione della condizione altrui
«La simpatia permette di comprendere la prospettiva degli altri, anche di quelli con cui possiamo essere in disaccordo; può passare dall’identificazione personale a quella impersonale, dall’aiutare un amico al sostenere movimenti sociali di giustizia che richiedono il cuore oltre che la testa»:88Ivi, p. 13. Dal testo originale: «Sympathy allows for understanding the perspective of others, even those we may disagree with; it can move from personal to impersonal identification, from aiding a friend to supporting social movements of justice which require the heart as well as the head».
si tratta infatti di un posizionamento che non muove dal dovere e dalla disciplina tipici di un sentimento di obbligo morale, ma include posizioni di incanto, meraviglia e gioia, suggerendo che «la reattività etica e gli obblighi morali sono anche affettuosi, modellati dal fascino, dall’attrazione così come dalla paura, persino dallo smarrimento»,99Ibid. Dal testo originale: «Ethical responsiveness and moral obligations are also affectionate, shaped by fascination, attraction as well as fear, even bewilderment».
e:
«Dà il nome a un rilevamento affettivo, emotivo e materiale di reti di interconnessione più ampie, da quelle dirette a quelle indirette, da quelle personali a quelle impersonali. Come tale, la simpatia richiede pratiche critiche per interrogare meglio i termini con cui è articolata e messa in moto. La simpatia radicale come progetto intende contribuire a tali pratiche; ha riconosciuto una gamma dinamica di attività culturali, politiche, scientifiche e sociali in corso oggi che mirano ad affrontare e migliorare le condizioni di sofferenza altrui, portando avanti vocabolari dinamici, così come posizioni e articolazioni di impegno collaborativo e planetario che fanno molto per assicurare un’attenzione più profonda a ciò che è la simpatia. Così mentre la simpatia, l’empatia e la compassione continueranno a essere strumentalizzate per qualsiasi tipo di guadagno finanziario e politico, potranno ugualmente essere concepite come forze che rendono possibile una sfida a tale processo di strumentalizzazione».1010Ivi, p. 16. Dal testo originale: «Sympathy names an affective, emotional and material sensing of greater webs of interconnectedness, from direct to indirect, personal to impersonal relatedness. As such, sympathy requires critical practices so as to better interrogate the terms by which it is articulated and set in motion. Radical sympathy as a project aims to contribute to such practices; it recognized a dynamic range of cultural, political, scientific and social activities taking place today which aim at addressing and ameliorating the suffering of others, while also bringing forward extreme dynamic vocabularies, positions and articulations of collaborative, planetary engagement that do much to warrant deeper attention to what sympathy is. While sympathy, empathy and compassion may continue to be instrumentalized for any number of financial and political gains, they may be equally conceived as forces that make challenging such instrumentalization possible».
Un modello di simpatia radicale diventa dunque la modalità attraverso cui «promuovere modalità di solidarietà informate dall’interdipendenza, dall’affetto, da un’etica dell’ospitalità e della cura, e dal riconoscere che i problemi dei “caduti” sono i problemi del mondo».1111Ivi, p. 19. Dal testo originale: «Fostering modes of solidarity informed by interdependency, affection, an ethics of hospitality and care, and by recognizing that the problems of the fallen are the world’s problems».
Si tratta di una forza profondamente creatrice, che spinge a fare uno sforzo in più per il bene comune, fondendo il pensiero critico a una conoscenza che nasce dall’esperienza diretta, definendo una condizione di responsabilità, responsività e reattività, una disposizione a tenere in considerazione e preoccuparsi per le condizioni altrui. In questo senso LaBelle si rifà al concetto di “simpoiesi” elaborato da Donna Haraway, «una co-creazione che passa attraverso corpi e cose, soggetti e oggetti».1212Ibid.
Un “fare-con”, un fare legato all’essere in compagnia delle altre forme di esistenza, che LaBelle definisce una «corrente gravitazionale di co-fare» («a gravitational current of co-making»), che esorta a esplorare, agire, improvvisare una reazione, per costruire una sensibilità etica che sia in grado di espandere i limiti di ciò che viene considerato come “proprio”:
«La simpatia radicale si pone allora come un modello di simpatia che passa attraverso il consonante e il dissonante, il vicino e il lontano, uno spingere e tirare che è fondativo dell’essere un soggetto nel mondo con gli altri – e che rappresenta la comunità non tanto come un’enclave basata sull’identità, ma piuttosto come un canale per la cooperazione».1313Ivi, p. 22. Dal testo originale: «Radical sympathy is posed then as a model of sympathy that passes across the consonant and the dissonant, the near and the far, a pushing and pulling that is foundational to being a subject in the world with others – and that figures community less as an enclave of identity and more as a conduit of cooperation».
Kosmik
Questa capacità di accogliere e ospitare, collaborare e mettere in atto pratiche di mutuo aiuto, rispetto e sostegno reciproco, sono il modus operandi e le strategie che JaF utilizza per lavorare sul concetto di identità, e per far sentire la propria voce e quella delle comunità locali alle autorità politiche, così da poter influenzare i piani di sviluppo che prevedono di trasformare l’area in una zona industriale, con conseguenze gravissime per l’ecosistema, il paesaggio e la qualità della vita, compresa quella psichica, delle popolazioni locali.
Una prospettiva così fondata sul rispetto e la collaborazione è ovviamente consapevole e attenta all’interdipendenza e all’agency delle forme e dei modi di esistenza non-umani. Infatti, JaF ha recuperato la terracotta come elemento identificativo di Jatiwangi perché, come abbiamo visto, rappresenta la terra, non solo in quanto elemento, ma anche come “terreno”, “territorio” e “idea”. Una parola che contiene già in sé tutte le complessità e gli entanglement delle variabili possibili, e rappresenta praticamente la possibilità di co-divenire tra l’essere umano e le molteplici forme di esistenza che abitano il pianeta. Concepire il ripensamento di una città a partire dalla terra, per uno sviluppo che sia rispettoso dell’ecosistema in cui si trova a livello culturale, politico, economico, sociale ed ecologico, è la messa in pratica di molti snodi concettuali presenti nei dibattiti filosofici e teorici in corso.
Occuparsi delle forme di esistenza non-umane può significare anche mettere in discussione i modelli di lavoro neoliberale fondati sull’autosfruttamento, sul merito e sulla competizione, ed elaborare, al contrario, strategie fondate sulla collaborazione e sul “lavorare insieme per un obiettivo comune”: uno degli esempi più interessanti in questo senso è Perhutana, un esperimento pratico di co-gestione e cooperazione per preservare un’area a rischio, al fine di costruire collettivamente una foresta. Come già accennato, negli ultimi dieci anni Jatiwangi è stata parte di un progetto del governo indonesiano denominato “Segitiga Rebana”, che intende convertire l’intera zona a un uso industriale. L’accelerazione del processo di sviluppo si compie attraverso almeno tre grandi progetti infrastrutturali che sono già stati costruiti e circondano l’area: l’aeroporto internazionale di Kertajati, il porto di Patimban e il porto di Cirebon. Questa ondata di industrializzazione ha portato molti cambiamenti, non solo per quanto riguarda il paesaggio geografico e la sua sempre crescente densità di popolazione, ma anche il paesaggio culturale e sociale, e l’economia. Il distretto settentrionale di Majalengka dovrebbe ospitare 6.500 stabilimenti industriali e 13 nuovi settori in grado di produrre una quantità allarmante di emissioni di carbonio, che rappresentano un danno incommensurabile per la salute delle persone che vivono nella regione. Perhutana è l’acronimo di “Perusahaan Hutan Tanaraya” (compagnia forestale di Tanaraya) ed è concepito come un’estensione di Kota Terakota: si tratta anche in questo caso di re-immaginare e ripensare l’identità di un luogo, proponendo un’alternativa davvero sostenibile e utile per le comunità locali. Otto ettari di terreno sono acquistati collettivamente, attraverso un processo di crowdfunding aperto a persone provenienti da ogni parte del mondo, per diventare una “terra sacra”, un santuario per la flora locale, ovvero una foresta non destinata a uso agricolo. Ogni persona può acquistare un lotto di 4x4m² di terra, e partecipare così alla co-gestione del bosco, costituito collaborativamente per preservare la qualità dell’aria e l’ecosiste
ma locale, e per ricordare l’importanza fondamentale di uno dei bisogni più basilari, l’ossigeno. Anche questo progetto è stato presentato a documenta 15 allestendo un ufficio adibito alla vendita per i visitatori interessati, accompagnato da un modello in scala reale di lotto acquistabile e da materiali video che illustravano i dettagli del progetto. Al momento della vendita ogni persona riceveva un “certificato artistico”, un mattone in argilla avvolto in un tessuto locale, a suggellare l’accordo stipulato per proteggere collettivamente la terra e sottrarla ai processi di estrazione e sfruttamento di stampo capitalista. Come scrive Silvia Federici in “Re-enchanting the world: Feminism and the Politics of the Commons”:1414Silvia Federici, Re-enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons, PM Press/Kairos, Oakland, 2018, p. 190. Dal testo originale: «[…] the capitalist application of science and technology to production has proven so costly in terms of its effects on human lives and our ecological systems that if it were generalized it would destroy the earth. As it has often been argued its generalization would only be possible if another planet were available for more plunder and pollution. There is, however, another form of impoverishment, less visible yet equally devastating, that the Marxist tradition has largely ignored. This is the loss produced by the long history of capitalist assault on our autonomous powers. I refer here to the complex of needs, desires, and capacities that millions of years of evolutionary development in close relation with nature have sedimented in us, which constitutes one of the main sources of our resistance to exploitation. I refer to our need for the sun, the wind, the sky, the need for touching, smelling, sleeping, making love, and being in the open air».
«[…] L’applicazione capitalistica della scienza e della tecnologia alla produzione si è dimostrata così costosa in termini di effetti sulle vite umane e sui nostri sistemi ecologici che, se fosse generalizzata, distruggerebbe la Terra. Come è stato spesso sostenuto, la sua generalizzazione sarebbe possibile solo se fosse disponibile un altro pianeta da saccheggiare e inquinare. Esiste tuttavia un’altra forma di impoverimento, meno visibile ma altrettanto devastante, che la tradizione marxista ha ampiamente ignorato. Si tratta della perdita prodotta dalla lunga storia dell’assalto capitalista ai nostri poteri autonomi. Mi riferisco al complesso di bisogni, desideri e capacità che milioni di anni di sviluppo evolutivo in stretta relazione con la natura hanno sedimentato in noi e che costituisce una delle principali fonti della nostra resistenza allo sfruttamento. Mi riferisco al nostro bisogno di sole, di vento, di cielo, al bisogno di toccare, odorare, dormire, fare l’amore, stare all’aria aperta».
Le forme di capitalismo e neoliberismo espropriano i corpi della loro interazione costitutiva con l’ambiente circostante che, come sostiene Silvia Federici, «è stata immensamente produttiva di capacità e visioni collettive e di immaginazione, anche se ovviamente mediata dall’interazione sociale/culturale. Tutte le culture della regione dell’Asia meridionale – ha ricordato Vandana Shiva – hanno avuto origine da società che vivevano a stretto contatto con le foreste».1515Ivi, p. 190. Dal testo originale: «[…] has been immensely productive of capacities and collective visions and imagination, though obviously mediated through social/cultural interaction. All the cultures of South Asian region – Vandana Shiva has reminded us – have originated from societies living in close contact with the forests».
In questa prospettiva, Perhutana è una forma di resistenza strategica in grado di unire persone provenienti da contesti geopolitici differenti attorno alla consapevolezza che ciò che viene definito talvolta come “cosmo”, “natura” e “ambiente” è stato per millenni fonte di conoscenza e sapere per quelle forme autonome che lo sviluppo del capitalismo tecnologico ha distrutto in maniera capillare e, spesso, definitiva. Come ricorda Federici, anche in movimenti come Occupy ciò che muoveva le persone a un’azione trasformativa collettiva non era un messaggio fatto fluire attraverso il web e i social media, ma il riunire insieme persone già mobilizzate, per generare momenti di condivisione profonda: «Campeggiare nello stesso spazio, risolvere i problemi insieme, cucinare insieme, organizzare una squadra di pulizia»,1616 Ivi, p. 193. Dal testo originale: «Camping in the same space, solving problems together, cooking together, organizing a cleaning team».
pratiche che Jatiwangi mette in atto quotidianamente, e con la precisa volontà di coinvolgere tutti i segmenti e gli attori della propria comunità, incluse le autorità politiche e gli agenti di polizia, in una costante attività di ospitalità, ascolto e negoziazione.
Un altro progetto fondamentale in questo senso è New Rural Agenda, un summit organizzato in risposta alla New Urban Agenda proposta dall’Unesco, e presentato a documenta 15, invitando politici, autorità ed esponenti dell’Unesco a prendere parte come ospiti alla conferenza, senza però poter parlare o intervenire, ma con la sola possibilità di ascoltare i temi e gli intenti proposti da JaF. Il summit intendeva far crescere la consapevolezza rispetto all’importanza delle aree rurali del pianeta, stimolando quegli aspetti percettivi che vengono volontariamente separati dai discorsi considerati logici, ovvero i nostri cinque sensi: il gusto, la vista, l’olfatto, il tatto, l’udito. I partecipanti venivano infatti sollecitati e coinvolti a livello percettivo per riaccendere la scintilla del legame con la terra e avviare un dialogo non basato soltanto sulla ragione e sul linguaggio (scritto o parlato). L’obiettivo del summit era raggiungere un accordo e una firma collettiva attorno alla “Carta della dignità degli abitanti della Terra”, il cui intento era presentare una nuova agenda rurale, appunto, con obiettivi trasformativi a livello politico, culturale e sociale. La Carta portava l’attenzione sull’importanza dei saperi e delle conoscenze delle popolazioni locali nel lavorare con le risorse per generare un capitale culturale in grado di risolvere i problemi che minacciano i loro ecosistemi, sottolineando anche come la composizione della conoscenza delle comunità grassroot e other-than-human, incluse la terra, il mondo spirituale e i sensi, al di là delle generazioni e dei generi, rappresentino un potere collettivo in grado di affrontare questioni sociali ed ecologiche complesse. Le aree rurali hanno dimostrato di essere spazi ideali per iniziare a lavorare su un futuro condiviso, specificando che per JaF “rurale” non è un termine relativo a un territorio fisso e immutabile, ma piuttosto un luogo che deve essere ancora realizzato, compreso e creato.
Uno dei punti della Carta affermava l’importanza della collettività come sistema in cui percorsi di sviluppo circolari e rigenerativi vengono sperimentati per contrastare e dimostrare un’alternativa al pensiero lineare e ai modelli focalizzati sulla crescita presenti nelle società neoliberiste, che hanno dimostrato di essere troppo estrattive per la terra e le sue comunità.
Questa Carta, concepita come un mandato per i suoi firmatari, sancisce che questi si impegnino a posizionare il rurale in prima linea e a praticare la dimensione culturale come un importante paradigma del vivere sostenibile nel mondo, ad amministrare risorse basate sui commons, includendo gli “stakeholder” provenienti dal mondo umano e non, come via d’uscita dalla crisi neoliberista e, infine, a mettere in atto la collettività come rete attraverso cui condividere pratiche e saperi, per proteggere e rispettare le risorse e la cultura, in maniera davvero sostenibile. A ogni firmatario, come avvenuto con Perhutana, è stato consegnato il pezzo di un puzzle della Carta realizzato in argilla come certificazione dell’accordo avvenuto. L’evento si è concluso con una nuova edizione di Rampak Genteng (Roof Tile Orchestra), per suonare insieme alla cittadinanza di Kassel e ai partecipanti del New Rural Agenda Summit le tegole in terracotta provenienti da Jatiwangi.
Assicurare condizioni di vita migliori per le future generazioni umane e non-umane è un aspetto di fondamentale importanza, come abbiamo visto, in tutte le attività di JaF, fornendo in qualche modo una propria risposta all’interrogativo che Ailton Krenak pone in “Ideas to postpone the end of the world”:1717Ailton Krenak, Ideas to postpone the end of the world, House of Anansi Press, Canada, 2020, pp. 66-67. Dal testo originale: «What sort of world are you boxing and wrapping for future generations? You keep talking about another world, but have you asked the generations of tomorrow if the world you’re building is the world they want? Most of us won’t be here when the package arrives. It’s your great-grandchildren and grandchildren, your elderly sons and daughters, who will have to sign for it. If each of us were to imagine a world, there’d be billions of worlds and they’d be delivered to specification in billions of places. But that world, and what mode of delivery, are you asking for?».
«Che tipo di mondo state costruendo e confezionando per le generazioni future? Continuate a parlare di un altro mondo, ma avete chiesto alle generazioni di domani se il mondo che state costruendo è quello che vogliono? La maggior parte di noi non sarà qui quando arriverà il pacco. Saranno i vostri pronipoti e nipoti, i vostri figli e figlie anziani, a dover firmare per la sua consegna. Se ognuno di noi immaginasse un mondo, ci sarebbero miliardi di mondi e verrebbero consegnati secondo le specifiche in miliardi di luoghi. Ma quale mondo, e quale modalità di consegna, state chiedendo?».
Gli effetti del cambiamento climatico sono già evidenti nel contesto indonesiano, come mostra la scelta di trasferire la capitale da Jakarta a Nusantara, nella costa orientale dell’isola del Borneo, attualmente in costruzione. La decisione è stata presa nel 2019 dal governo e dal presidente Joko Widoko, in seguito alle inondazioni e agli tsunami sempre più ricorrenti.
Jakarta sta affondando, e gli studi prevedono che nel 2050 circa il 95% della parte nord della città sarà sommersa, mentre al momento il 40% della sua superficie si trova già sotto il livello del mare. Sovrappopolamento, industrializzazione ed estrazione di risorse, materie e forza-lavoro per mano di grandi compagnie e multinazionali, carenze infrastrutturali, inquinamento e cambiamento climatico, eccessiva erosione del suolo causata da implementazioni delle strutture urbane e una cattiva gestione delle risorse concorrono a creare una situazione allarmante, che necessita di un ripensamento profondo e della messa in atto di azioni collettive di cura, per non consegnare alle future generazioni una sentenza di morte. Come sostengono Déborah Danowski e Eduardo Viveiros De Castro in The ends of the world:
«[…] Altra cosa, ben diversa, è immaginare la situazione prevista dalle attuali conoscenze scientifiche nel nostro campo di possibilità imminenti: che le prossime generazioni (generazioni vicine a noi) dovranno sopravvivere in un ambiente impoverito e sordido; un deserto ecologico, un inferno sociologico. In altre parole, una cosa è sapere teoricamente che moriremo, un’altra è ricevere dal nostro medico, con i risultati degli esami in mano, la notizia che siamo affetti da una malattia terminale».1818Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, The Ends of the World, Polity Press, Cambridge, 2017, p. 17. Dal testo originale: «[…] It is another, rather different thing to imagine the situation posited by present scientific knowledge within our field of imminent possibilities: that the next generations (the generations next to us) will have to survive in an impoverished, sordid environment; an ecological desert, a sociological hell. In other words, it is one thing to theoretically know that we will die; it is another to receive news from our doctor, test results in hand, that we are suffering from terminal disease».
Le pratiche di JaF sono orientate a offrire condizioni di vita migliori per le generazioni a venire, «perché le persone vivono in altre persone, con altre persone, per altre persone»,1919Ivi, p. 104.
per citare ancora le parole di Danowski e Viveiros De Castro. Jatiwangi art Factory pone la questione di «quale sia il mondo in cui vogliamo vivere»:2020Ivi, p. 92.
quale mondo (o quali mondi), quali modi, con quali prospettive. E si tratta di domande aperte a chiunque le voglia ascoltare.
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Ade Ahmad SujaiAde Ahmad Sujai è un professionista dell'arte e della cultura, membro di Jatiwangi Art Factory, un'organizzazione community-based che sperimenta modalità in cui l'arte contemporanea e le pratiche culturali possano essere inserite nelle aree rurali, a livello formale e concettuale. Crede che la pratica artistica sia uno stile di vita che permette di raggiungere la felicità e accordi reciproci tra diverse parti.
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Paola PietronavePaola Pietronave è una curatrice, mediatrice e ricercatrice indipendente, con un focus su iniziative collaborative e collettive, processi di cura e commoning secondo una prospettiva intersezionale. Co-fondatrice dei progetti an office, Critical Studies Department e dell'artist-run space Kunsthalle Chiavari, concepisce le sue pratiche come variabili intervenienti all'interno di sistemi, in grado di attivare processi inaspettati. Ha lavorato come art mediator a documenta fifteen nel 2022 e ha pubblicato La condizione italiana contemporanea. I Lavoratori dell'Arte 2009-2011 (?) nel 2019.
Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, The Ends of the World, Polity Press, Cambridge, 2017.
Silvia Federici, Re-enchanting the World: Feminism and the Politics of the Commons, PM Press/Kairos, Oakland, 2018.
Donna Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham and London, 2016.
Ailton Krenak, Ideas to postpone the end of the world, House of Anansi Press, Canada, 2020.
Brandon LaBelle, Radical Sympathy, Errant Bodies Press, Berlin, 2022.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.