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Come si dice in arabo “fare coming out”?
Digital Library, October 2019
Tempo di lettura: 13 min
Jason Ritchie

Come si dice in arabo “fare coming out”?

Il "pinkwashing" israeliano al servizio delle politiche vessatorie antipalestinesi.

Queer muslim, Mohammed Fayaz.

 

La nascita e lo sviluppo della comunità queer nonché le sue innumerevoli espressioni teoriche, artistiche e culturali hanno messo in crisi i persistenti dualismi su cui si fonda tradizionalmente la nostra società e a partire dai quali vengono messi in atto i processi di alterizzazione (othering) e conseguente discriminazione. Il primo passo per sfuggire al binarismo oppositivo da cui scaturiscono forme di dominio e pratiche di esclusione sociale consiste nel diffondere possibili scenari alternativi a quello finora assunto. Definire e circoscrivere univocamente un’«identità queer», mediante l’approfondimento di un aspetto teorico o di una specifica manifestazione culturale, rischierebbe di ricondurre la complessità e la ricchezza di significati insite in questo termine a quelle medesime categorie che esso rifugge.
In questo saggio11Si traduce qui l’espressione idiomatica inglese “to come out of the closet”, che significa “uscire allo scoperto” e che indica in particolare l’atto di dichiararsi pubblicamente omosessuale. Per questo motivo si è preferito rendere la precisa sfumatura semantica di questa espressione ricorrendo, nella traduzione italiana, all’espressione “fare coming out”. [N.d.T.]
Come si dice in arabo “fare coming out”?, l’antropologo statunitense Jason Ritchie parla delle politiche israeliane apparentemente a sostegno della comunità locale LGBTQIA+ ma che in realtà si manifestano come fortemente ostili e vessatorie nei confronti dei vicini palestinesi attraverso una precisa strategia politica di “pinkwashing”. Nella sua visione, mettere in discussione il linguaggio e l’attivismo queer ufficiale, ovvero quello israeliano, che paradossalmente non ammette minoranze di altro tipo, si rivela un valido sostegno per costruire un’alternativa in grado di ergersi come politica di cambiamento sociale e rifiuto della narrazione connessa a un “non luogo” simbolo: il check-point.

Il testo è stato tradotto in occasione dell’evento Dancing is what make of falling (13 settembre-19 ottobre, OGR, Officine Grandi Riparazioni Torino) e figura all’interno della raccolta Queerdo. Antologia di studi di genere, edita da KABUL magazine nel 2018.


Striscione relativo alla campagna contro il pinkwashng israeliano.

Durante il mio soggiorno di ricerca in Israele-Palestina, una notte mi recai insieme a un amico palestinese a una festa gay, in uno dei famosi locali di Tel Aviv. Prima di uscire di casa per andare al locale, il mio amico – un “residente permanente” di Gerusalemme che ogni tanto si identifica come gay – mi chiese di prestargli una canottiera e un po’ di gel per capelli. Dopo la sua trasformazione, gli feci notare scherzosamente che aveva un’aria “molto gay”. “Bene”, disse lui, “magari mi faranno entrare”.

Alla fine non lo fecero entrare. Probabilmente perché, mentre ci avvicinavamo alla porta, mi dimenticai di evitare di parlare in arabo. O forse perché i suoi documenti tradivano il fatto che fosse arabo, nonostante il suo sforzo di compensare attraverso un’omosessualità ostentata. O forse, contrariamente alle nostre supposizioni, fu per tutt’altra ragione. Quale che sia il motivo, questo episodio mette in grande rilievo il quadro discorsivo che governa la sessualità e la razza in Israele-Palestina: l’entrata nel locale rappresentò una sorta di checkpoint, simile a molti altri con cui si confrontano regolarmente i palestinesi queer, nei locali, nelle saune, nei parchi, sui siti internet e in altri spazi gay “egualitari”; [il locale] era presidiato da un agente queer del nazionalismo israeliano, il cui incarico era quello di determinare chi appartenesse allo spazio gay/israeliano e chi no.

Ho quindi interpretato il checkpoint non solo letteralmente come un luogo di confine in cui gli agenti di Stato “ispezionano… che cosa entra e cosa esce” dalla nazione, ma come un processo soggettivo onnipresente, in base a cui i cittadini e i non cittadini controllano se stessi – e gli altri – in relazione al “campo di segni e di pratiche” in cui lo Stato-nazione è rappresentato.22Alejandro Lugo, Theorizing Border Inspections, «Cultural Dynamics», 12, 2000: 355; John Comaroff e Jean Comaroff, Ethnography and the Historical Imagination, Boulder, CO: Westview, 1992, 27.
Portando l’attenzione – anziché distoglierla – sulle pratiche di esclusione dello Stato e sui discorsi razzisti della nazione, la metafora del checkpoint rappresenta l’esperienza dei palestinesi più efficacemente rispetto alla più consueta metafora dell’armadio.33Nel testo originale “closet”, il cui primo significato è “armadio” e che, in senso figurato, assume il significato di “segreto”. Si è ritenuto necessario tradurre letteralmente il termine “closet” con “armadio”, per spiegarne il valore metaforico nell’espressione “to come out of the closet”. Si veda nota 1. [N.d.T.]
Inoltre, dal momento che [la politica del checkpoint] imprime così crudelmente la violenza di Stato sui corpi dei suoi nazional-razziali altri, qualsiasi critica del checkpoint implica necessariamente una critica dello Stato e della sua violenza. D’altra parte la metafora dell’armadio è una sottile e “tipicamente postmoderna [tecnica] di potere”, e la lotta contro di essa – e a favore del diritto di “fare coming out” come rispettabili cittadini queer – protegge lo Stato da qualsiasi critica, poiché è presentato come “[arbitro] neutrale dell’ingiustizia” ed è invocato per porre rimedio e proteggere, anziché… attribuir[si] la facoltà di ingiuria”.44Wendy Brown, States of Injury: Power and Freedom in Late Modernity, Princeton: Princeton University Press, 1995, 18, 27.

Facendo riferimento a interviste etnografiche con attivisti che hanno rivestito un ruolo particolarmente importante nel definire i contorni dell’attivismo queer israeliano e palestinese, sostengo che la dipendenza dell’attivismo gay israeliano ufficiale dalle politiche di visibilità e riconoscimento sia integrata – e di sostegno – allo sforzo sempre maggiore del nazionalismo israeliano nell’incorporare e normalizzare le “minoranze” ebraiche, pur mantenendo la subordinazione politica, economica e sociale dei palestinesi.55Nel 2007 e 2008, nel corso dei diciotto mesi della mia ricerca sul campo in Israele-Palestina, ho intervistato – in interviste libere della durata di circa due ore – Mike Hamel, presidente di HaAguda, e Shaul Ganon, direttore del Palestinian Rescue Project; Sa’ar Netanel, un attivista di spicco, apertamente gay e membro del consiglio comunale di Gerusalemme; Rauda Marcos, ex presidente di Aswat, un’organizzazione lesbica palestinese con base a Haida. A Haneen Maikey, presidente di Al-Qaws, un’organizzazione queer palestinese con base a Gerusalemme, ho sottoposto due interviste formali e, in quanto volontario per Al-Qaws e partecipante regolare ai loro incontri ed eventi, ho avuto innumerevoli conversazioni di tipo informale che hanno ispirato la presente trattazione. Queste interviste sono solo alcune delle molte che ho raccolto per la mia ricerca di tesi, con un gran numero di attivisti queer palestinesi e con persone “comuni” in Israele, Gerusalemme e Cisgiordania (inclusa la partecipazione di un numero più ridotto di ebrei queer israeliani).
Se il sogno di “fare coming out”, restando cittadini a tutti gli effetti, e di appartenere alla nazione è alla base dell’attivismo di molti israeliani queer, la violenza del checkpoint – e gli altri innumerevoli promemoria dell’impossibilità di inclusione (per non parlare della “cittadinanza”) – definisce le strategie degli attivisti queer palestinesi. Rifiutando il linguaggio e le tattiche dell’attivismo gay ufficiale (israeliano), i queer palestinesi esprimono una politica di cambiamento sociale che offre un’alternativa potenzialmente sovversiva al progetto di normalizzazione della visibilità queer. Inoltre, l’attivismo queer palestinese mette in questione i presupposti di entrambe le organizzazioni “dominate dall’uomo bianco occidentale” che si battono a favore dei queer arabi “perseguitati” e delle loro aspre critiche, che uniformemente e sciovinisticamente – nel loro zelo di criticare le tendenze scioviniste dell’“International Gay” – respingono gli attivisti queer arabi come una “minuscola minoranza” di “élite occidentalizzate” che hanno adottato ciecamente la politica e le identità delle loro controparti occidentali.66Joseph Massad, Desiring Arabs, Chicago: University of Chicago Press, 2007, 161; Massad, Re-Orienting Desire: The Gay International and the Arab World, «Public Culture», 14, 2002: 361-85.

Una donna con un cartello che recita: “Queer, Muslim and Proud” marcia durante la sfilata del Gay Pride a Toronto il 1° luglio 2012.

 

L’attivismo queer, le sue critiche e i loro impulsi missionari

Il discorso ufficiale dell’attivismo queer israeliano sostiene la superiorità dei modelli israeliani dell’omosessualità, fondati principalmente sulla narrazione del coming out. La presunta assenza di palestinesi apertamente gay – la presunta tirannia del segreto77Ci si riferisce ancora una volta al termine “closet”, che qui è stato tradotto con il suo significato figurato di “segreto”, poiché richiesto dal contesto. [N.d.T.]
nella società palestinese – è assunta come prova di inferiorità di una cultura araba ridotta alla sua essenza, ferma a un lontano passato. All’interno di questo scenario, la narrazione delle vittime queer palestinesi è al tempo stesso un meccanismo che giustifica la violenza israeliana contro i palestinesi, corroborando le tensioni razziste e consolidando un’omosessualità depoliticizzata che incorpora nella nazione queer ebrei (appropriati), mentre tiene a bada i suoi non ebrei altri (e non appropriati).

il loro non è un rifiuto a “fare coming out”, ma è il rifiuto del linguaggio dell’“armadio”.

Proprio come il “Gay International” descritto da Joseph Massad, molti attivisti queer israeliani manifestano un atteggiamento di tipo missionario nei confronti degli altri queer (palestinesi). Rifacendosi a un corpus di rappresentazioni orientalistiche della sessualità araba e a uno sciovinismo miope che sostiene la superiorità delle configurazioni occidentali della sessualità, [gli attivisti queer israeliani] ambiscono a “liberare ‘i gay e le lesbiche’ arabi e i musulmani dall’oppressione in cui presumibilmente vivono, trasformandoli, da ‘persone che praticano il contatto tra persone dello stesso sesso’, in soggetti che si identificano come omosessuali e gay”. Secondo Massad, tale progetto riesce a imporre una struttura occidentale della sessualità all’interno di contesti arabi e musulmani non occidentali, nonché a distruggere “configurazioni sociali e sessuali del desiderio” che sembrerebbero più autentiche.88Massad, Gay International, 362, 383, 385.

Il collettivo Mashpritzot, appartenente alla famiglia Anarcho-queer, durante una protesta “die-in” contro il pinkwashing israeliano del centro di supporto LGBT di Tel Aviv.

La critica di Massad alle tendenze orientalistiche degli attivisti queer, giornalisti e accademici occidentali che ambiscono a “liberare” gli arabi (e i musulmani) oppressi è irreprensibile, ma la sua analisi del successo di questo progetto nel “Mondo arabo” enfatizza troppo il potere del Gay International e interpreta in maniera erronea le sue reali implicazioni. I consumatori delle rappresentazioni israeliane e occidentali dei queer palestinesi non sono palestinesi – queer o altro –, ma israeliani e occidentali. Se Massad fornisce prove aneddotiche della nascita di discussioni pubbliche sull’omosessualità tra alcuni giornalisti e politici arabi, tuttavia trascura il reale contributo del Gay International nel concentrarsi unicamente sul presunto impatto che questo discorso ha sulle attività sessuali (arabe). Un elemento ancora più importante trascurato dalla sua analisi è la sostituzione figurata di “queer” con “arabo”. Dal momento che l’arabo razzializzato appare come il più significativo e pericoloso altro, attualmente l’omosessuale – un tempo l’Altro sessuale della nazione – è sempre più accettato. In questo regime sconnesso, i progetti attivistici internazionali diretti ai queer arabi sono possibili perché si servono dei termini di una politica della visibilità conciliante, che posiziona lo Stato come garante dell’uguaglianza, anziché come fonte di disuguaglianza; e rendono tutto ciò auspicabile poiché “[forniscono] argomenti per rinforzare i progetti nazionalistici” attraverso “l’invocazione orientalistica del ‘terrorista’” – una strategia che allo stesso tempo distingue i queer occidentali e israeliani da quelli arabi e palestinesi e che li recluta – per quanto provvisoriamente e in modo incompleto – al servizio della nazione.99Jasbir K. Puar, Mapping US Homonormativities, «Gender, Place, and Culture», 13, 2006: 68.
Qui il queer arabo/palestinese è poco più di un espediente narrativo per far apparire lo spettro del suo oppressore, il nemico dello Stato liberale e dei queer liberali: il pericoloso e anti-liberale arabo (terrorista).1010Il celebre film The Bubble (Israel, 2006), del regista israelo-statunitense Eytan Fox, trae la logica conclusione di questa equazione: il palestinese queer da vittima diventa terrorista.

Il collettivo Mashpritzot, appartenente alla famiglia Anarcho-queer, durante una protesta “die-in” contro il pinkwashing israeliano del centro di supporto LGBT di Tel Aviv.

Se Massad non riesce ad apprezzare gli sforzi del Gay International nei e sui paesi occidentali, sopravvaluta di gran lunga i suoi effetti nel mondo arabo, attribuendo al Gay International il potere di “eterosessualizzare” le società arabe, subordinando con efficacia gli arabi alle estranee “categorie e identità sessuali” occidentali.1111Massad, Gay International, 381, 385.
I palestinesi in Israele – e, del resto, nei territori palestinesi – hanno incontri e interazioni con gli occidentali (e ovviamente con gli israeliani), con un’intensità e una regolarità maggiori che nella maggior parte degli arabi negli Stati a maggioranza araba. Ma persino lo sforzo nel sottolineare questa distinzione svela due errori di comprensione essenziali alla base delle affermazioni di Massad a proposito di coloro che si identificano come “arabi gay” (che descrive come un’“élite occidentalizzata” minoritaria): anzitutto un’interpretazione errata della cultura, concepita come qualcosa di circoscritto e avulso, che si modifica con una lentezza inaudita e che è legata a un ambiente geografico specifico; in secondo luogo, una lettura erronea della globalizzazione, un processo che nel resoconto di Massad appare come una fantasia orientalistica dell’“autentica” sessualità araba – un atto di penetrazione non consensuale da parte di un attore più potente. L’idea che l’affermazione di arabi queer che si identificano come tali sia un chiaro risultato dell’imposizione colonialista di valori occidentali è quantomeno ingenua; se non offensiva, specialmente per quei queer arabi che Massad rappresenta come grezzi creduloni, vittime degli ideologi occidentali. La globalizzazione è un processo gerarchicamente strutturato in cui alcune idee e discorsi portano con una maggior forza verso alcune direzioni. Tuttavia, gli antropologi in particolare hanno segnalato a lungo le falle nelle argomentazioni che sostengono che le formazioni identitarie occidentali stiano soppiantando ovunque forme di sessualità alternative, mostrando allo stesso tempo la creatività tramite cui i queer “non occidentali” interagiscono con le costruzioni “occidentali” della sessualità e la resilienza delle costruzioni “locali”. Rifiutando coloro che si identificano come queer arabi, come copie sostanzialmente non autentiche delle loro controparti occidentali, Massad sottovaluta la loro capacità di agire come attori consapevoli e rischia di “circoscrivere i tipi di azioni difensive e offensive che possono essere intraprese” – e che sono di fatto intraprese – contro il progetto missionario del Gay International.1212J. K. Gibson-Graham, Querying Globalization, in Post-Colonial, Queer: Theoretical Intersections, ed. John C. Hawley, Albany: State University of New York Press, 2001, 244.

KABUL magazine, QUEERDO. Antologia di studi di genere, K-STUDIES #1, 2018.

Come ho sostenuto, il punto di contatto tra i queer palestinesi e gli attivisti queer israeliani – inteso in un senso più ampio, che include i discorsi missionari e le organizzazioni che li rappresentano – può essere interpretato come una sorta di checkpoint. Gli ebrei queer israeliani sono dotati del potere di indagare e quindi di concedere o negare ai palestinesi queer l’ingresso all’interno dello spazio gay (israeliano). Quando Ganon introduce le sue vittime gay palestinesi, molti reagiscono con condiscendenza – a volte ciecamente, a volte con una consapevolezza strategica, quasi beffarda, delle più vaste forze in gioco. Ma molti, soprattutto gli attivisti queer palestinesi, rifiutano all’unisono l’incontro – il checkpoint. Ciò non significa che i palestinesi queer evitino il contatto con gli ebrei queer israeliani; piuttosto, quando vengono salutati, si rifiutano di rispondere. Si rifiutano di sottomettersi allo sguardo normativo del governo di Israele e agli agenti queer del nazionalismo. Anziché intraprendere un altrettanto problematico progetto di “fare coming out” e di definirsi come parti visibili, integranti, del “tessuto” nazionale, rifiutano il linguaggio della visibilità che domina l’attivismo queer occidentale e israeliano, spesso in nome della nazione. Il loro progetto non è privo di contraddizioni, e il mio obiettivo non è di darne una versione romantica che funga da antidoto utopistico ai modelli egemonici dell’attivismo, che normalizzano alcuni queer e ne marginalizzano altri. Tuttavia, nel discorso degli attivisti queer palestinesi sono presenti alcune lezioni utili agli attivisti queer occidentali e israeliani, che farebbero bene a riconsiderare l’utilità delle “identità e degli interessi”, la politica dei diritti gay e la narrazione dell’“armadio”, a favore di “affinità alternative, diversi valori e interessi rinnovati”.1313Janet R. Jakobsen, “Sex + Freedom = Regulation: Why?” Social Text, no. 84 – 85 (2005): 304.
Anziché combattere per la tolleranza sociale o l’accettazione, molti attivisti queer palestinesi puntano a sondare il movimento in vista di un radicale mutamento sociale, guidato da una coalizione di vari attori – dalle organizzazioni della società civile palestinese alle femministe lesbiche radicali – e guidati da una comprensione della “solidarietà” come impegno collettivo nella lotta per la giustizia e l’uguaglianza, valori reinterpretati in modo da rifiutare le consuete suddivisioni della politica identitaria.1414Una critica simile alla politica dell’identità è espressa nella trattazione di Ziv dedicata alla “politica dell’identificazione” del gruppo Black Laundry, rappresentante dell’attivismo queer radicale israeliano. Si veda il suo saggio a questo proposito.

 

Conclusione

Sullo sfondo dei loro continui incontri ai checkpoint della cultura gay israeliana (e occidentale) – che, come suggerisce la parola, dipendono dallo Stato e dal suo potere disciplinare –, gli attivisti queer palestinesi stanno costituendo un movimento che, rifiutando di sottomettersi alla struttura narrativa del checkpoint, mette in questione la logica a essa soggiacente: l’impulso, da parte dello Stato, di vedere, ossia di classificare e contenere coloro che costituiscono una potenziale minaccia all’interno di categorie intelligibili che possono essere facilmente regolate.1515James C. Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, New Haven: Yale University Press, 1998.
Contrariamente a quanto ritengono i queer israeliani, il loro non è un rifiuto a “fare coming out”, ma è il rifiuto del linguaggio dell’“armadio” nel suo insieme; una fiducia non nella proiezione di soggetti visibili e intelligibili, ma nel sovvertimento del bisogno, da parte dello Stato, di vedere innanzitutto. La mia enfasi sul potenziale sovversivo dell’attivismo queer palestinese – a dispetto dei paradigmi attivistici che ricorrono alla politica della visibilità e ai discorsi razzisti dell’Altro per ristabilire un sé-cittadino privilegiato – non intende minimizzare la violenza di quell’incontro o le limitazioni che esso impone. Ho attraversato parecchi checkpoint per sapere che quel rifiuto – del potere militare di Stato al confine o del potere sociale del buttafuori al locale – porta a volte con sé conseguenze dolorose, e che il desiderio di mobilità spinge spesso a una manifestazione precisa e strategica di sé. Il mio obiettivo è piuttosto quello di proporre un riorientamento da un attivismo basato su una solidarietà immaginaria tra “gay e lesbiche” a una solidarietà fondata nel sogno democratico radicale di un mondo in cui “il coraggioso anonimato delle soggettività in gioco” sia l’imperativo – anziché la negazione – della cittadinanza (queer) e dell’appartenenza.1616Silviano Santiago, The Wily Homosexual (First – and Necessarily Hasty – Notes), in Queer Globalizations: Citizenship and the Afterlife of Colonialism, ed. Arnaldo Cruz-Malavé e Martin F. Manalansan IV, New York: New York University Press, 2002, 18.
L’obiettivo di questo genere di attivismo non sarà quindi quello di fare collettivamente coming out all’interno dello spazio della nazione, ma di creare uno spazio, al fuori dello sguardo normativo dello Stato e oltre il raggio d’azione dei checkpoint, in cui i corpi, i desideri e le identificazioni – queer e non – possano proliferare, in tutta la loro gloria deviata e incoerente.

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Jason Ritchie
  • Jason Ritchie insegna Antropologia al Dipartimento di studi globali e socioculturali presso la Florida International University. Si occupa in particolar modo del Queer Theory e Cultural Theory.