L’artista come individuo
Il sistema dell’arte appare spesso restio al concetto di cooperazione. La produzione artistica, infatti, risulta apparentemente inscindibile dall’individualismo, come se la creatività collettiva fosse ancora un ossimoro stridente. Questa polarizzazione rappresenta, in un certo senso, il fondamento del liberalismo, quale sinonimo della modernità occidentale. Tuttavia, non si tratta affatto di una ritrosia contemporanea. L’affermazione dell’artista-individuo affonda le proprie radici nel passato, più nello specifico nel processo di formalizzazione del potere verificatosi durante il secolo della Controriforma. Il passaggio dall’economia collettivista dei comuni medioevali alle oligarchie individuali di signorie, regni e principati sembra coincidere con il consolidamento dell’inedito ruolo sociale dell’artista come figura intellettuale di riguardo: prendere le distanze dalle corporazioni significa non essere più un semplice esecutore. Passaggio dirimente, allora, potrebbe essere proprio quello del distacco dall’artigianato, sebbene specializzato, per assumere una specifica posizione professionalizzante. Nella bottega dell’artista quattrocentesco domina ancora lo spirito collettivo del cantiere, e l’opera non è ancora espressione di una personalità indipendente. Alcuni proprietari di bottega, pertanto, condizionano le scelte degli artisti, affermandosi come scaltri impresari. Ma il successo economico e la richiesta crescente di opere per abbellire le proprie abitazioni o per avvalorare la propria posizione contribuiscono ben presto a elevare la condizione dell’artista. Certo, si tratta di una prospettiva strettamente eurocentrica. Il ruolo sociale cambia drasticamente a seconda del contesto di riferimento. Questo processo di professionalizzazione si verifica solo in determinate società, spesso in relazione alla suddivisione del lavoro stesso. In Cina, ad esempio, i pittori passano dall’essere gente umile a svolgere importanti funzioni imperiali, mostrando la piena legittimazione della professione artistica, mentre nella Nigeria orientale gli artisti sono reclutati solo per divinazione. La consuetudine stessa di firmare il proprio operato rappresenta inoltre il punto d’arrivo di un percorso tortuoso. Durante il primo Medioevo, la firma dell’artista risulta assente in Europa occidentale, riaffermandosi solo a partire dall’VIII secolo, proprio in Italia, in particolar modo per opere scultoree o di oreficeria. La prima professionalità artistica ad assumere particolare rilievo sociale sembra essere quella dell’architetto, quasi fosse il coordinatore, il regista dell’intero processo realizzativo. L’artista, al contrario, sembra progressivamente emanciparsi dalla propria condizione di presunta inferiorità attraverso la propria dimensione testuale. Esempio significativo, a tal proposito, potrebbe essere l’insolita presenza di Giotto e Cimabue nel Purgatorio dantesco in relazione al concetto stesso di fama. Con il successivo sviluppo della letteratura artistica, culminante nell’opera di Vasari, l’anonimato cede il passo in maniera netta e decisa alla notorietà pressoché divinizzante di nomi quali Michelangelo o Raffaello, contribuendo al riposizionamento dell’artista nell’immaginario collettivo.
Questo processo di affermazione individuale segue di pari passo la progressiva laicizzazione dell’opera. Indicare il nome dell’artista, infatti, significa allontanarsi dalla presupposta funzionalità dell’oggetto realizzato, riconoscendone l’autonomia. La poiesi della rappresentazione sostituisce in questo modo la politica operazionale dell’immagine. Se da una parte, quindi, l’artista si allontana dall’anonimato, dall’altra l’opera si svincola dalla propria limitante efficienza. Il Romanticismo, da questo punto di vista, rappresenta il passo decisivo verso la rivendicazione dell’indipendenza artistica. Il concetto stesso di art pour l’art consiste proprio nell’esaltazione della natura ideale e strettamente contemplativa dell’arte, affrancatasi da condizionamenti politici esterni. Tuttavia, come sottolinea Hauser, questa rivendicazione del presunto carattere disinteressato dell’opera manifesta l’intimo dissidio dell’atteggiamento estatico. Il senso dell’arte, dopotutto, sembra muoversi costantemente in equilibrio tra l’astrazione della trascendenza e il pragmatismo della propria funzione sociale. Osservare il tutto nei termini dello scontro dualistico tra queste due posizioni sul concetto stesso di fare artistico risulterebbe decisamente riduttivo.
Allo stesso modo, il Romanticismo rappresenta la solenne celebrazione dell’individualità. L’io afferma la propria inedita rilevanza: la creatività così come la libertà del singolo appaiono irripetibili, uniche, inimitabili. L’artista rifiuta norme e convenzioni, in quanto possibili limitazioni della propria spontaneità espressiva, rischiando talvolta di scadere nell’egotismo, nell’esasperazione del soggettivismo. Sebbene possa risultare paradossale, la democratizzazione del giudizio conseguente all’egualitarismo rivoluzionario rappresenta il presupposto necessario per la consacrazione dell’individualismo di massa, introducendo il paradigma dell’affermazione sociale attraverso l’eccellenza. E anche l’identità di movimenti e coalizioni risulta spesso delineata attraverso quelle personalità che stabiliscono, in maniera più o meno diretta, i fondamenti della singola ricerca o dello stile di riferimento.
La logica di gruppo
Nell’immaginario contemporaneo, la collettività assume tratti spesso contraddittori, mostrandosi come un limite per il singolo, come un ostacolo alla notorietà, o al contrario come un mezzo da sfruttare per sopperire alla propria mancanza di talento.“…Nell’immaginario contemporaneo, la collettività assume tratti spesso contraddittori, mostrandosi come un limite per il singolo, come un ostacolo alla notorietà, o al contrario come un mezzo da sfruttare per sopperire alla propria mancanza di talento.” Il sistema dell’arte, in particolar modo, sembra nutrire una certa diffidenza di fondo nei confronti di gruppi e collettivi. Nonostante la recente assegnazione del Turner Prize all’Array Collective o la curatela – non senza polemiche – dell’ultima edizione di Documenta affidata a ruangrupa, i riconoscimenti istituzionali ottenuti da gruppi e collettivi rappresentano infatti ancora una sparuta minoranza. L’individuo, pertanto, sembra prevalere sul gruppo. Malgrado l’opinione pubblica condanni erroneamente la mancata concretizzazione materiale dell’opera da parte dell’artista, derubricandone l’ideazione a un aspetto marginale e secondario del processo creativo, il concetto stesso di cooperazione risulta sfuggente. L’assenza della terminologia necessaria al riconoscimento della possibile coesistenza di posizioni autoriali differenti, in tal senso, risulta quanto mai significativa. Schiere di collaboratori e assistenti affollano studi, atelier e gallerie, come se fosse impossibile stabilirne o ammetterne la specificità professionale, contrariamente a quanto si verifica per esempio in ambito cinematografico, teatrale o musicale. A un primo sguardo, la causa intentata ai danni di Maurizo Cattelan dallo scultore Daniel Duret, in merito all’autorialità dei lavori firmati dall’artista padovano, potrebbe apparire solamente come il fallimentare tentativo di raggiungere l’agognata notorietà. Ma nonostante tutto, questo caso mostra alcune delle numerose criticità insite nell’odierno capitalismo artistico.
Il sistema dell’arte sembra nutrire una certa diffidenza nei confronti di gruppi e collettivi
Allo stesso tempo, però, l’esaltazione del gruppo, a scapito della singolarità autoriale, risulta ormai obsoleta e riduttiva come risposta. La produzione artistica contemporanea, specie negli ultimi due decenni, se da una parte registra il primato della soggettività conseguente alla fine dell’utopia, dall’altra attesta il riaffermarsi della collettività in opposizione all’individuo, rifiutando il principio stesso dell’autorialità. Questa dicotomia prende le mosse dalle teorie operaiste sulla forza-lavoro sviluppate nella seconda metà degli anni Sessanta, sull’onda lunga del Sessantotto. In questa cornice, come sostiene Claire Bishop,11Claire Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella, Roma, 2015, p. 28.
l’artista virtuoso diventa il modello ideale per il lavoratore flessibile, precario, non specializzato, capace di adattarsi creativamente alle situazioni più disparate, attraverso la brandizzazione della propria identità. La dimensione collettiva, allora, si oppone a questo paradigma, proponendo la pratica collaborativa come modello alternativo di unità sociale, guardando all’individualismo con sospetto. In passato, l’avanguardia storica ha mantenuto il proprio legame con i partiti politici centralizzati di riferimento, mentre le pratiche collettive di oggi sono ormai prossime alla rete decentrata ed eterogenea che costituisce la cooperazione sociale post-fordista. Sebbene si attesti la presenza di alcune formazioni artistiche nella prima metà dell’Ottocento, il gruppo come diffusa modalità operativa può essere infatti considerato come prodotto delle avanguardie storiche del secolo scorso, distinguendosi tanto dalla tendenza quanto dalla corrente, poiché definito dal senso identitario di appartenenza a un’ipotesi fondativa di natura comunitaria. Il gruppo presuppone dunque, come scrive Lucilla Meloni,22Lucilla Meloni, Le ragioni del gruppo. Un percorso tra gruppi, collettivi, sigle, comunità nell’arte italiana dal 1945 al 2000, Postmedia, Milano, 2020, p. 12.
una condivisione di intenti poetici, etici o politici, ma ciò non implica necessariamente l’omogeneità formale. Il gruppo trova pertanto le sue ragioni in quella che Giulio Carlo Argan definisce33Giulio Carlo Argan, Le poetiche, «Il Messaggero», 9 novembre 1963.
come l’adeguata risposta alla massificazione dell’individuo attuata dal capitalismo avanzato. Mentre Maurizio Calvesi individua44Maurizio Calvesi, Preistoria della Scuola di Piazza del Popolo in Rossella Siligato (a cura di), Roma Anni ’60. Al di là della pittura, Carte Segrete, Roma, 1991, p. 12.
nei gruppi artistici nazionali degli anni Sessanta la ricaduta nell’ideologia, il critico torinese crede sia proprio questa l’unica possibilità di opposizione alla società di massa.
Nel decennio successivo, in Italia così come all’estero, il gruppo inizia a cedere il passo al collettivo, formazione più aperta verso l’esterno, spesso caratterizzata dalla realizzazione di opere effimere e azioni performative nello spazio pubblico. Il pubblico, in questo modo, diviene parte integrante del processo creativo, sfuggendo all’autoreferenzialità del sistema artistico. Partecipazione, utopia, rivoluzione: i progetti collaborativi nel campo sociale sembrano operare secondo un duplice atteggiamento di opposizione e miglioramento. Secondo Bruno Munari,55Bruno Munari, Fantasia, Laterza, Bari, 2008 (1977), p. 122.
per esempio, l’individuo dovrebbe contribuire alla crescita culturale della collettività, proponendo soluzioni più stimolanti e didattiche. La creatività assume così un’accezione collettiva, talvolta impersonale, avvicinandosi sempre più al concetto di educazione sociale. L’operatore culturale non è più in possesso di un bene da elargire. Al contrario, come sostiene Enrico Crispolti,66Enrico Crispolti, Arti visive e partecipazione sociale. Da Volterra 73 alla Biennale 1976, De Donato, Bari, 1977, p. 18.
diventa un sollecitatore, un provocatore di partecipazione. La diffidenza nei confronti dell’individualismo segue infatti, di pari passo, il processo di emancipazione della spettatorialità, mediante l’attivazione del pubblico, chiamato in causa nel processo realizzativo dell’opera per reagire al simulacro del mondo, della realtà circostante. La fruizione passiva dell’arte rappresenta allora l’equivalente simbolico dell’individualismo, in opposizione all’ideale binomio tra partecipazione e collettivismo.
Tuttavia, questa visione binaria della produzione artistica rischia di essere approssimativa e limitante. L’urgenza del compito sociale porta le pratiche collaborative a essere percepite come gesti artistici di pari importanza. Non sembrano esistere opere partecipative fallimentari, non riuscite, irrisolte o semplicemente noiose, poiché sono tutte ugualmente essenziali per merito della propria socialità. Inoltre, raramente questi lavori sono paragonati a progetti sociali effettivi ed esterni al campo dell’arte. Il loro punto di riferimento rientra sempre all’interno dell’orizzonte dell’arte contemporanea, sebbene siano apprezzati in realtà proprio per la presunta carica sovversiva. Per dirla – ancora – con Bishop, l’aspirazione è sempre quella di andare oltre l’arte, ma mai fino al punto da confrontarsi con progetti simili appartenenti all’ambito sociale. Questo atteggiamento risale, in un certo senso, alla strutturazione di quello che Jacques Rancière77Jacques Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, Derive Approdi, Roma, 2016, p. 45.
definisce come regime estetico dell’arte. In particolar modo, nel paradosso – promosso da Schiller e dai romantici – per cui l’arte può essere considerata tale nella misura in cui è qualcosa di diverso da essa stessa. L’arte trova dunque la propria dimensione all’esterno della politica, pur essendo sempre intimamente politica e sociale, in quanto contiene la promessa di un mondo migliore. L’estetica, tuttavia, non necessita affatto di essere sacrificata in nome del cambiamento sociale, così come la fruizione di un’opera mostra in ogni caso l’imprescindibile agentività sia dello spettatore sia dell’oggetto. Per quanto condizionata, la decisione di entrare in uno specifico museo e di osservare un’immagine piuttosto che un’altra spetta sempre al pubblico in ultima istanza, così come ogni opera cattura lo sguardo di alcuni spettatori in tempi e modi differenti. L’individuo è sempre parte della realtà circostante. L’artista e lo spettatore non possono prescindere o estraniarsi. Anche il tentativo più ostinato di isolamento, specie nell’era di Internet, potrebbe risultare rovinoso e in un certo senso ingannevole. Potrebbe apparire come un vezzo concesso solo dal proprio benessere sociale ed economico. La singolarità dell’esistenza, in fin dei conti, rappresenta il risultato composito di esperienze, interessi, passioni, frustrazioni, paure, veti, dogmi e reminiscenze del proprio vissuto. Forse, allora, sarebbe opportuno interrogare la dicotomia che si è sviluppata negli interstizi della separazione aristotelica tra materia e forma, tra passivo e attivo. E osservando nel mezzo, la natura potrebbe fornire alcune risposte interessanti.
Il paradigma strutturale della natura
Nonostante l’utilizzo del termine “rizomatico” per descrivere la produzione artistica contemporanea sia ormai prassi comune, l’attitudine reticolare del mondo vegetale risulta ancora sensibilmente distante dal sistema dell’arte. La natura, infatti, potrebbe rappresentare il paradigma strutturale consono a riconsiderare l’assolutismo del binomio incentrato sulla ferrea opposizione tra individuo e gruppo. Esempio quanto mai significativo è sicuramente quello della planaria. Appartenente alla categoria dei platelminti – vermi piatti –, si tratta di un organismo di notevole capacità riproduttiva. Essendo in grado di rigenerare circa metà del proprio corpo, se tagliata in due parti, dà vita a due distinti individui. Tale suddivisione del singolo in due entità autonome rimette fortemente in discussione l’etimologia stessa del concetto di individuo – dal latino individuus (“che non può essere diviso”, “indivisibile”). La planaria sembra infatti opporsi ontologicamente a questa restrizione dell’essere, riproducendosi, aprendosi all’esterno, prendendo in considerazione punti di vista differenti. Le cellule staminali che la costituiscono possono dividersi rapidamente, consentendo, dopo l’amputazione, la generazione di diversi tipi di cellule mancanti, come per esempio cellule muscolari, intestinali e anche cerebrali. La combinazione di geni attivi in queste cellule e tessuti rimanenti è pertanto in grado di gestire il processo di rigenerazione, affinché le nuove architetture strutturali siano corrette ed efficienti. Il risultato finale del processo è un organismo di nuovo perfettamente funzionante, capace di adattarsi alla realtà che lo circonda. Piuttosto che di un individuo isolato, si tratta dunque di una rete in divenire, plasmata sulla base della costante interazione con l’esterno.
Discorso analogo, seppur con le opportune differenze, vale anche per il mondo animale. Tanto la capacità rigenerativa, suddivisa in epimorfosi e morfallassi, quanto la sopravvivenza degli animali stessi passano inevitabilmente dal rapporto con l’ambiente. La sussistenza della specie segue necessariamente di pari passo l’istintiva sostenibilità delle azioni compiute dagli animali. L’organizzazione degli esseri viventi risulta pertanto condizionata dal contesto di riferimento e a sua volta influenza il contesto stesso. Si tratta di una relazione vicendevole, circolare. In questo scenario, la presunta narrazione dell’individuo isolato sarebbe dunque fuorviante, persino dannosa. L’esaltazione del singolo estraneo alle circostanze sembra comportare spesso la legittimazione del disinteresse, quale sinonimo di autonomia desunta dalla propria (presunta) risolutezza morale. In questo modo, il soggetto personalista si presenta come indipendente rispetto alla società. Tuttavia, tale opposizione appare ancora una volta ingannevole e, soprattutto, controproducente, tanto per la collettività quanto per l’individuo. L’interdipendenza ecosistemica rivela quindi come lo sfruttamento della natura da parte dell’essere umano implichi conseguenze sociali tutt’altro che positive. I cambiamenti climatici rappresentano così il risultato degli interessi personalistici e specisti del sistema di produzione capitalista. È per questa ragione che l’incomunicabilità irrazionale tra natura e società sembra rispecchiare in un certo senso la binaria suddivisione sociale tra individuo e gruppo. E contro tale assetto emerge, oggi più che mai, il bisogno di adottare un atteggiamento dialogico per essere in grado di riconoscere, rispettare e tentare di comprendere l’alterità della controparte, minando le fondamenta del sistema dualistico. Come afferma Jean-Luc Nancy, la comunità non rappresenta un concetto astratto o immateriale: al contrario, significa essere uno con l’altro, insieme, in comune. A tale proposito, il filosofo pone enfasi sullo spazio definito nel rapporto tra individuo e gruppo, giungendo alla considerazione per cui, essendo tutti gli organismi viventi fondati sulla diversità, si afferma con risolutezza un bisogno di pluralità, confronto e collettività. Del resto, esiste l’io soltanto se esiste un noi. Crowdfunding, forking o remixing sono termini oggi ampiamente diffusi e utilizzati per descrivere la processualità collettiva nell’era del cosiddetto web dinamico. Tuttavia, come scrive Harriet C. Brown in Lumbung Stories, pubblicato in occasione di documenta 15, è possibile rintracciare l’esperienza collettiva in numerosi termini usati in tutto il mondo per offrire la possibilità di immaginare o rinsaldare, attraverso il linguaggio, l’imprescindibile spirito comunitario della società stessa. Tequio in Messico, lumbung in Indonesia, auzolan nei Paesi Baschi, mutirão in Brasile, guanxi in Cina o naffir in numerosi paesi Arabi: queste parole definiscono l’operato collettivo secondo le rispettive sfumature e accezioni culturali. Eppure descrivono una pratica quotidiana, un modo di pensare e agire, piuttosto che un concetto arbitrario, all’apparenza sfuggente.
Karen Barad, in merito alla percezione collettiva del linguaggio utilizzato nella natura, promuove un processo di alfabetizzazione agenziale tramite un inedito approccio pedagogico, affinché la scienza (e quindi il funzionamento della natura stessa) sia insegnata, discussa e recepita in modo transdisciplinare e, soprattutto, responsabile. Adottando la diffrazione – fenomeno fisico associato alla propagazione delle onde, i cui effetti sono rilevanti quando un’onda incontra un ostacolo o una fenditura le cui dimensioni sono comparabili o minori rispetto alla propria lunghezza d’onda – come apertura del singolare verso il molteplice e fondamento del proprio metodo di ricerca, Barad sottolinea come sia la scienza che la società si costituiscano l’un l’altra. La realtà circostante, infatti, si inscrive dinamicamente nella dimensione generativa e nella relazione delle cosiddette intra-azioni: il cambiamento e l’azione della materia per mezzo dell’inseparabilità ontologica di parole e cose. Come scrive Liana Borghi nella premessa all’edizione italiana di Performatività della natura (2017), si tratta di operazioni che rendono la collettività parte integrante della mutevolezza differenziale del mondo, concretizzando il reale e il possibile. Secondo Barad, il potenziale performativo della natura passa allora dalla citazionalità interattiva dei corpi alla intra-attività reiterata della materia. Il tempo appare costantemente in divenire e, proprio per questo, diviene necessario ripensare il nostro entanglement nella rete del mondo per ridefinire il modello sociale vigente, rimettendo quindi in discussione il rapporto tra natura e cultura, pratica e teoria, spazio e tempo, soggetto e oggetto, individuo e gruppo. Il termine, neologismo in ambito filosofico e sociale, indica infatti uno stato di correlazione, di interdipendenza. Come afferma Elena Bougleux,99Elena Bougleux, Stati di sovrapposizione e di in/coerenza tra azione, politica e materia in Karen Barad, Performatività della natura. Quanto e queer, ETS, Pisa, 2017, p. 13.
individua il coinvolgimento tra due o più situazioni, contesti, soggetti lontani nel tempo e nello spazio. Azione a distanza, ma istantanea, immediata, come se i due agenti coinvolti fossero lo stesso termine, parti differenti di una sola e complessa entità. I nostri corpi, le nostre paure, i nostri desideri, i nostri bisogni sono entangled. Si tratta, dunque, del principio basilare di interrelazione e di reciprocità, imprescindibile termine costitutivo ed elemento generativo del mondo stesso.
La produzione artistica contemporanea guarda spesso alla natura come esempio. “Ecologismo”, “bio”, “sostenibilità” e “ambientale” sono termini quotidianamente ricorrenti nello scenario artistico internazionale. Tuttavia, il sistema dell’arte continua a opporre resistenza nei confronti dell’interdipendenza, spesso derubricata al rango di utopia o ipotesi irrealizzabile, e per questo di poco conto. Il concetto stesso di reciprocità appare, il più delle volte, inadeguato, quasi fosse l’obsoleto, alterato e vaneggiante residuato della controcultura sviluppata negli anni Sessanta e Settanta. La performatività della natura potrebbe essere dunque il paradigma strutturale da prendere come esempio, nell’intento di mettersi alle spalle la stringente opposizione tra collettivo e individuo, rappresentando una terza via da percorrere.
L’approccio laboratoriale
I Lab sembrano rappresentare un’alternativa tangibile sia al personalismo capitalistico che al rifiuto collettivo dell’autorialità. Queste entità, infatti, sono punti d’incontro e di confronto tra esperienze differenti. I Lab sono, per l’appunto, veri e propri laboratori di ricerca e produzione artistica, spesso attenti alle recenti innovazioni tecnologiche e scientifiche. Sono organismi eterogenei, compositi, caratterizzati dalla propria ibrida mutevolezza. All’interno di questi centri, artisti, designer, architetti, scienziati, programmatori e altre figure professionali attuano pratiche di condivisione interdisciplinare. Come scrive Marco Mancuso,1010Marco Mancuso, Arte, tecnologia e scienza: le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea, Mimesis, Milano, 2018, p. 13.
questi soggetti adottano un approccio bottom-up aperto a collaborazioni e contaminazioni, caratterizzate da processi laboratoriali DIY, di autoformazione e autoapprendimento. L’esperienza dei Lab non rappresenta certo una novità nello scenario internazionale. A partire dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti si consolida infatti il rapporto tra aziende e artisti, avviando progetti di sperimentazione incentrati sul potenziale spesso inespresso delle tecnologie messe a punto dall’industria, quasi fossero l’ideale continuazione della “terza cultura” teorizzata da Charles Percy Snow in quegli stessi anni1111Charles Percy Snow, The Two Cultures, Cambridge University Press, Cambridge, 2012 (1959).
– la necessità di colmare una volta per tutte la distanza che separa la ricerca scientifica dalla riflessione umanistica. Primo tra tutti, il programma di residenze dedicato al graphic design e, nello specifico, all’utilizzo del software di animazione Belflix avviato nel 1962 dal Bell Telephone Laboratories Incorporated. Tuttavia, negli ultimi anni, alcuni Lab sembrano attuare un processo di emancipazione, diventando vere e proprie firme artistiche indipendenti rispetto all’istituzione di afferenza. Si tratta di organizzazioni diverse rispetto ai MediaLab o ai FabLab in quanto, oltre a vantare macchinari e attrezzature tecniche specialistiche, operano in veste di entità autoriali autonome. Queste rappresentano oggi una sorta di unicum, dal momento che sfuggono sia al personalismo capitalistico, firmando collettivamente i lavori realizzati, che al rischio dell’appiattimento egualitarista della cooperazione anonima, riconoscendo e valorizzando le singole specificità professionali coinvolte nel processo creativo. Spesso, le sedi operative di queste firme sono inoltre adibite, oltre che a luogo di ricerca e creazione artistica, a spazio espositivo. C-Lab, TeamLab, Tranxxeno Lab, Barabasi Lab e The Tissue & Culture Art Project sono solo alcuni esempi. Percorsi formativi differenti e ambiti professionali apparentemente distanti tra loro confluiscono nella realizzazione di opere spesso considerabili intra-attive. Tutti questi organismi condividono infatti una particolare attenzione per il rapporto, costantemente in divenire, tra scienza, natura e tecnologia. In questo articolato sistema relazionale si inserisce, a sua volta, l’essere umano, attivando un processo dinamico agenziale volto a riconoscere ed evidenziare differenze, analogie, contraddizioni.
L’interdipendenza della natura sembra pertanto trovare parzialmente riscontro nel modus operandi del laboratorio. Certo, la strada da percorrere è lunga e tortuosa. In fondo, si tratta di esempi certamente virtuosi ma ancora sporadici, che mostrano la reticenza, spesso nemmeno così latente, dell’arte contemporanea nei confronti della possibilità di generare cambiamento, rimettendo in discussione il paradigma strutturale del sistema stesso. Forse, come suggerisce il titolo dell’ultima fatica James Bridle,1212James Bridle, Modi di essere. Animali, piante e computer. Al di là dell’intelligenza umana, Rizzoli, Milano, 2022.
dovremmo sforzarci di comprendere, di prendere in considerazione altre forme di esistenza possibili, altri modi di essere. Osservare con attenzione la natura potrebbe allora aiutarci a riconsiderare la nostra percezione della realtà, mettendoci alle spalle l’ormai obsoleto dualismo tra singolo e gruppo.
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Jacopo De Blasio (Roma, 1993) si laurea in storia dell’arte presso l’Università degli studi La Sapienza. Attualmente dottorando in cultura visuale presso l'Università di Palermo e assistente bibliotecario presso la Fondazione MAXXI, collabora con Nero Magazine, Doppiozero, Antinomie, D Zine e Arshake. Si occupa di postcolonialismo, nuovi media, attivismo, linguaggi sonori e autodistruzione nell'arte contemporanea.
Karen Barad, Performatività della natura. Quanto e queer, ETS, Pisa, 2017.
Claire Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella, Roma, 2015.
Ferdinando Bologna, Dalle arti minori all’industrial design. Storia di una ideologia, Laterza, Bari, 1972
James Bridle, Modi di essere. Animali, piante e computer. Al di là dell’intelligenza umana, Rizzoli, Milano, 2022.
Harriet C. Brown (a cura di), Lumbung Stories, Documenta, Cassava Republic, Abuja, 2022.
Enrico Crispolti, Arti visive e partecipazione sociale. Da Volterra 73 alla Biennale 1976, De Donato, Bari, 1977.
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Vol. 4: Arte moderna e contemporanea, Einaudi, Torino, 2003.
Marco Mancuso, Arte, tecnologia e scienza: le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea, Mimesis, Milano, 2018.
Lucilla Meloni, Le ragioni del gruppo: un percorso tra gruppi, collettivi, sigle, comunità nell’arte in Italia dal 1945 al 2000, Postmedia, Milano, 2020.
Jean-Luc Nancy, The Inoperative Community, University of Minnesota Press, Minneapolis-Oxford, 1991.
Charles Percy Snow, The Two Cultures, Cambridge University Press, Cambridge, 2012 (1959).
Ugo Perone (a cura di), Intorno a Jean-Luc Nancy, Rosemberg & Sellier, Torino, 2012.
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