Martine Syms, Notes on Gesture, 2015, still video.
Nata a Los Angeles nel 1988, Martine Syms è una delle artiste più interessanti tra quelli che oggi discutono la “rappresentazione della negritudine”. Lavorando principalmente con le immagini in movimento e la performance, crea film e installazioni in cui le vite, i gesti e le possibilità delle donne di colore sono analizzate attraverso l’uso dell’umorismo e della cultura popolare. Nell’intervista, Syms discute il privilegio dei bianchi e la loro interpretazione del suo autodefinirsi “imprenditrice culturale”, la sua relazione con il pubblico negli spazi espositivi e il suo uso del display, della narrazione e della performatività. Si sofferma poi su uno dei suoi lavori più recenti, un threat model interattivo, presentato da Sadie Coles alla fine del 2018, in cui un avatar rispondeva agli sms del pubblico con frasi che rimandavano alla cultura afroamericana e a conversazioni realmente avvenute. Le sue opere sono state esposte, tra gli altri, al MoMA (NY), da Sadie Coles (Londra) e più recentemente all’Institute of Contemporary Art della Virginia Commonwealth University (Richmond VA), e da Secession (Vienna).
Elena D’Angelo, Caterina Molteni: In diverse interviste che hai rilasciato, abbiamo letto che per molto tempo ti sei definita come “imprenditrice creativa”. Dal punto di vista del nostro contesto europeo, e più specificamente italiano, l’associazione di una pratica artistica e di un termine legato all’imprenditoria può essere facilmente vista come una sorta di atteggiamento permissivo nei confronti di un modello economico neoliberale. Guardando il tuo Lesson I, tuttavia, sembra vi sia una struttura molto più ampia dietro questo concetto. Come ti relazioni con tale ambivalenza? In che modo possiamo concepire l’idea di business come un mezzo di emancipazione dal modello stesso? Hai mai paura che, alla fine, anche il tuo business possa venire assorbito?
Martine Syms: Il fatto che questa domanda mi venga ancora posta dopo dodici anni è incredibile! Ho smesso di utilizzare questo termine qualche tempo fa, ma non riesco a liberarmene. Perché accade? È facile per le persone che nascono privilegiate vedere il guadagno economico come una cosa sporca. Se non vieni da quel tipo di background, l’idea che si possa creare un’infrastruttura autosufficiente, sostenibile e generativa guidata dalla pratica artistica è un bisogno urgente. Sono molto influenzata dagli scritti dei Black Panther sull’autonomia economica, negozi di madri e padri che offrono funzioni multiple per comunità mal servite, e le culture autonome del punk e dell’hardcore. Se ti mancano le risorse, i fondi pubblici, la ricchezza familiare e sei anche senza un modello di business ti ritrovi nella merda. Questa, per me, non è una posizione teorica. Sono un’artista. Forse l’errore l’ho fatto anni fa, quando ho parlato di soldi con persone ricche. Non voglio essere liberata. Partecipo al sistema dell’arte da complice, come lo fate voi. Dobbiamo tutti negoziare per noi stessi. Mi piacerebbe continuare a fare arte il più a lungo possibile, ed è da questo che viene il mio bisogno di denaro.
Elena D’Angelo, Caterina Molteni: Il tuo lavoro si relaziona con diverse tipologie di performatività. Hai lavorato su singoli gesti e sul modo in cui vengono applicati alla vita reale (Notes on Gesture, 2015). Sembri anche pensare molto allo spazio tra finzione e realtà, quando ti metti nella posizione del “narratore inaffidabile” (A Pilot for a Show About Nowhere, 2015). Tutto ciò si posiziona sempre in uno spazio concepito con grande attenzione, che spesso si rifà a un palco o a un set, distanziandosi dall’uso canonico del white cube e invitando il pubblico ad avere un’attitudine performativa e a interagire con il lavoro. Anche il colore diventa uno strumento per impiantare un’impressione molto precisa. Pensi che il momento della mostra possa essere un’occasione per muovere una critica a un certo modo di concepire lo spazio museale?
Martine Syms: Sono più interessata ai visitatori del museo che allo spazio museale. Voglio che abbiano un’immediata reazione viscerale ed emotiva. Vengo dal cinema e ho sempre avuto questa fantasia di controllo. Un po’ come nel film di John Smith, The Girl with Chewing Gum. Penso a tutto quello che potrebbe accadere nel mio spazio. È parte del lavoro. Ovviamente resto sempre sorpresa dalle persone quando sono effettivamente all’interno dello spazio. Di recente qualcuno ha rubato un pezzo del mio lavoro da un museo. L’ho visto come un grandissimo complimento.
Martine Syms, A Pilot For A Show About Nowhere, 2015.
Elena D’Angelo, Caterina Molteni: Per la tua mostra da Sadie Coles hai deciso di usare il tuo avatar come un threat model che rispondeva agli sms inviati dal pubblico. Come sei arrivata alla scelta di utilizzare un threat model, un sistema puramente tecnologico e digitale, per difendere quello che sembra essere il lato più fragile e autentico di una persona?
Installation view, Martine Syms, Grande Calme, Sadie Coles HQ, London, 06 September – 20 October 2018 Copyright Martine Syms, courtesy Sadie Coles HQ.
Martine Syms: Il threat modeling è un processo utilizzato da chi lavora sulla sicurezza delle informazioni per determinare le minacce/vulnerabilità del tuo sistema. Il processo inizia con una serie di domande sul valore che mi hanno ricordato la terapia cognitivo-comportamentale. Mi interessava questa cosa come metafora della psicanalisi. Due modi per relazionarsi con un’ansia culturale profonda. Ciò che mi incuriosisce delle AI è che mettono in discussione la categoria di “umano” e di “coscienza”. Questi termini sono densi, e nella storia hanno escluso i neri, le donne e altri gruppi oppressi. Sto creando una connessione tra le due.
Elena D’Angelo, Caterina Molteni: Nel tuo lavoro si legge un particolare uso dell’ironia. In contrasto con i classici meme che sembrano promuovere una comunicazione fatta di maschere pronte all’uso con slogan ironici e conformanti, riporti l’ironia a un livello di comunicazione spontanea, spesso grazie all’utilizzo di un linguaggio vernacolare e viscerale. Questa ironia sembra diventare anche il threat model di cui parlavamo poco fa, uno strumento che protegga la fragilità e l’emotività del singolo, che tuttavia traspare in modo ancor più efficace. Pensi che mostrare le proprie fragilità e la propria emotività abbia un valore oggi? È possibile che si stia tornando alla ricerca di condizioni di autenticità e sincerità.
Installation view, Martine Syms, Grande Calme, Sadie Coles HQ, London, 06 September – 20 October 2018 Copyright Martine Syms, courtesy Sadie Coles HQ.
Martine Syms: Mi piace pensare di utilizzare l’umorismo più che l’ironia, ma sono una sorta di troll, quindi touché. Sono sempre sincera al 100%. Tutto ciò che si trova su quella parete esce direttamente dal mio diario. Mythiccbeing è stato un modo per ragionare sulle macchine inefficienti. Ho amato il libro di Jennifer K. Alexander, The Mantra of Efficiency: From Waterwheel to Social Control, in cui descrive l’atto del rendere la macchina “spessa abbastanza da essere visibile”. La bozza del titolo era “make it thicc”, che voleva dire renderlo visibile, ma anche renderlo nero.
Elena D’Angelo, Caterina Molteni: Non abbiamo mai avuto l’occasione di vedere il tuo lavoro dal vivo, ma ci siamo appassionate perché stavamo facendo ricerca sull’afrofuturismo, e siamo inciampate nel tuo Mundane Afrofuturist Manifesto pubblicato nel 2013 su «Rhizome». La cosa che più ci ha interessato è la visione molto realistica, e altrettanto spaventosa, in cui “abbiamo solo noi stessi e il nostro pianeta”, senza nessuna via di fuga. Il futuro che descrivi è però tutto fuorché distopico: è reale e tangibile, e ha in se stesso la possibilità di un effettivo, e non magico, cambiamento. In sei anni è cambiato il tuo pensiero su quello che dovremmo fare di questo pianeta? Dovremmo continuare a giocare secondo le regole del tuo manifesto o dovremmo bruciarlo e andare avanti?
Martine Syms: Bruciatelo!
Installation view, Martine Syms, Grande Calme, Sadie Coles HQ, London, 06 September – 20 October 2018 Copyright Martine Syms, courtesy Sadie Coles HQ.