Anatoly Belov (Kiev, 1977) è un artista, musicista e scrittore che vive e lavora a Kiev. In occasione della rassegna dedicata alla controcultura ucraina tenutasi allo Sputnik di Ginevra nell’ottobre 2018, ho avuto modo di intervistare l’artista, figura di spicco della scena culturale underground in Ucraina. I suoi lavori sono stati esposti nella mostra personale In the Darkness alla galleria Hudgraf (Kiev), e in mostre collettive al Feminist Queer Festival (Vienna), al PinchukArt Centre e al Centre for Visual Culture (Kiev), all’Arsenał Gallery (Białystok), al MOCAK (Cracovia), oltre che in altre istituzioni ed eventi. Tra il 2004 e il 2005 ha co-fondato il gruppo R.E.P. (Revolutionary Experimental Space).
La sua produzione artistica spazia dai cortometraggi alle installazioni video, dai disegni e dipinti alle canzoni di cui è autore e interprete insieme al suo gruppo musicale Ljudskaja Podoba (“somiglianza umana”). Il medium artistico è per Belov uno strumento di espressione della sua lotta personale in una società spesso caratterizzata da atteggiamenti marcatamente omofobi. L’artista lascia tuttavia intravedere una speranza per il futuro della comunità LGBTQIA+ in Ucraina, che si sta gradualmente aprendo al movimento di liberazione gay. Intanto, un punto di riferimento resta la scena del clubbing e della musica sperimentale, la cui estetica surrealista è spesso impiegata da Belov per rendere il senso di alienazione che si prova ad appartenere a una subcultura. Al centro della ricerca artistica di Belov si trovano i limiti dell’identità, l’estetica queer e la cultura underground – in particolare la scena musicale elettronica locale –, arricchiti però da una forte consapevolezza emotiva e politica.
Queste sono le tematiche alla base delle sue opere, come il cortometraggio musicale Sex, medicated, rock’n’roll, caratterizzato da un’atmosfera onirica e un’estetica esplicitamente queer, ma anche da forte ironia e leggerezza. Altri lavori recenti vertono sulla figura di Cibele, personaggio mitologico intersessuale e antipatriarcale, che Belov innalza a divinità queer. L’appropriazione personale di immagini ed espressioni canoniche è una cifra stilistica dell’artista, che per esempio rivisita in chiave urbana la corona turrita caratteristica di Cibele, conferendole un’identità totalmente aggiornata e orientata alla contemporaneità; oppure rilegge l’iconico slogan “Sex, drug and rock’n’roll”, cambiando di accezione il termine “droga”, con il senso di “medicina”. Queste operazioni, che a detta sua denuncerebbero errori e associazioni involontarie, rendono il suo linguaggio potente e particolarmente efficace nel perturbare l’automatismo che caratterizza il linguaggio ufficiale.
Marta Somazzi: Il tuo primo lavoro da regista è il film Sex, medicated, rock’n’roll (Секс, лекарственное, рок-н-ролл); finora è stato realizzato solo un episodio del film, Breaking the sacral can be criminal (Преступить сакральное), un cortometraggio musicale il cui titolo si riferisce all’omonima canzone, che è anche colonna sonora del film. La canzone è stata creata dal tuo gruppo musicale, Ljudskaja Podoba (Людськая Подоба). In questo senso possiamo dire che il cortometraggio riflette la tua doppia natura di artista e musicista. Tuttavia il tema del video e il testo della canzone sono interdipendenti tra loro, perché trattano la questione dell’omosessualità in una società omofoba, per mezzo sia del testo sia delle immagini. La canzone infatti veicola un messaggio politico, ossia la condizione della comunità omosessuale contro la discriminazione e i pregiudizi sociali. Il testo dice: “Il mio amante non mi bacia / Ha una ragazza e dei princìpi”. Come influisce la narrativa ufficiale sulla percezione dell’omosessualità nella società ucraina di oggi? Le nuove voci arrivano solo dalla scena underground o esiste un movimento corale che rappresenta le persone queer?
Anatoly Belov: Sex, medicated, rock’n’roll è nato inizialmente come episodio di un film inesistente, a cui ho lavorato con l’aiuto di Oksana Kaz’mina; per me si trattava del primo lavoro di questo genere. Abbiamo lavorato così bene insieme che in seguito abbiamo collaborato ad altri film, oltre che al nostro progetto Pratiche del corpo (Практики тела). Sì, è stato il mio primo gesto politico, che rifletteva il desiderio di parlare pubblicamente della visibilità della comunità gay/LGBT, che in parte rappresento. Penso che grazie all’attivismo queer la rappresentazione che la società ha dell’omosessualità stia cambiando. Sono diventate visibili nuove alternative. Periodicamente, nel mondo della cultura pop compaiono giovani personalità pubbliche che non si vergognano di dichiarare apertamente la loro omosessualità. Così, poco tempo fa, è comparsa una serata, Veselka, dove fanno buona musica elettronica e in cui buona parte del pubblico è gay/LGBT. La nuova generazione LGBT non si vergogna di apparire in pubblico in serate simili. Di tanto in tanto si tengono sporadiche serate queer, in occasione del festival di cinema Molodost’, oppure in serate pride o queer-anarchiche organizzate per l’8 marzo; o ancora ci sono serate queer indipendenti, ma comunque feste di questo tipo rimangono una rarità. Per quanto riguarda l’arte visiva, si sono fatti avanti artisti le cui pratiche performative le definirei queer e che mi piacciono molto. Parlo delle performance musicali di Bogdan Moroz, del progetto Celoe, delle performance di teatro Orchidea di Michail Koptev, dei porno-horror di Antigone o ancora dei film e video di Oksana Kaz’mina.
Marta Somazzi: Il tuo cortometraggio propone stili di vita alternativi ed è un’espressione poetica della cultura underground. La canzone del video è stata presentata come un esempio di musica pop sperimentale queer ucraina. Possiamo parlare di una “nuova ondata” della cultura underground ucraina?
Anatoly Belov: Attualmente in Ucraina si sta sviluppando molto velocemente una nuova cultura musicale, che sta diventando famosa oltre i confini nazionali grazie a grandi serate rave come SCHEMA. Ma questa è solo una delle feste più in vista e celebri nel grande vortice di eventi musicali in Ucraina. Purtroppo ha chiuso il club underground Efir, grazie a cui ci sono stati degli eventi memorabili e dove da incontri occasionali nascevano collaborazioni creative; il club Plivka è andato via dal centro Doazhenka, mentre a causa di un intervento della polizia ha chiuso il club Jugenhab. Per fortuna, però, è comparso il nuovo club Metakul’tura, mentre il club Otel’ continua a rappresentare regolarmente tutta la varietà della musica ucraina contemporanea. Le città principali per la musica elettronica in Ucraina sono Kiev, Odessa, Tepnopol’, Dnepr. Non si può certo dimenticare il club Closer, i festival Brave Factory, Strička, Next Sound, Gamselit’, Kyiv Noisefest, Atom, le serate del Ritm Bureau e Ucho – eventi dove insieme ai personaggi di fama internazionale si esibiscono artisti/e ucraini/e molto bravi/e; tutto ciò contribuisce a rendere famosa l’Ucraina. Oltre a questo vorrei ricordare l’etichetta ШЩЦ, che di recente ha pubblicato la prima raccolta di musica elettronica d’avanguardia ucraina, così come l’etichetta franco-ucraina Sistema, che è specializzata in musica elettronica sperimentale e che non si limita ai soli artisti/e ucraini/e, con i quali collaboro anch’io da un anno.
Marta Somazzi: Il titolo gioca sul doppio significato del termine “droga”, che indica allo stesso tempo una medicina e una sostanza narcotica illegale. Una delle differenze principali tra una sostanza narcotica e una medicina è la legalità e la legittimità di quest’ultima, che rende l’affermazione “Sex, medicated, rock’n’roll” strana, a causa della combinazione di un termine legale e percepito positivamente (la medicina) con due elementi “trasgressivi” come il sesso e la musica rock’n’roll (almeno negli anni Settanta, quando lo slogan è stato coniato). Immagino che questo gioco di parole sia soprattutto ironico, ma mi fa anche pensare al controllo sociale e all’arbitrarietà dei giudizi morali. Che cosa intendi con la distorsione del famosissimo slogan “Sesso, droga, rock’n’roll”?
Anatoly Belov: Ho visto questo slogan, con l’errore casuale, a Graz, durante la mia prima residenza all’estero presso Rotor. Nell’appartamento di amici ho visto un cartello fatto a mano, con diversi gruppi musicali e la scritta in russo che mi ha ispirato; infatti sono un fan dell’“errore”, o meglio non ho paura di farne uno. Cosciente di questo, a un certo punto (nel 2004) ho iniziato a fare arte, e questa frase sul cartello è diventata il punto di partenza per raccogliere tutti i miei pensieri, emozioni e impressioni fresche per il mio lavoro. Grazie alle mie prime residenze austriache al Rotor e al KulturKontakt sono venuto a conoscenza del movimento queer, ho incontrato degli/delle attivisti/e LGBT, e per la prima volta sono stato in un gay club. Per me è stata un’esperienza incredibile e un’ispirazione verso il raggiungimento della libertà e dell’apertura all’interno della società. Prima di questo viaggio mi sono sentito molto isolato e ho intuitivamente fatto i primi passi nella conoscenza di me stesso; per me questa storia del cartellone e della residenza ha un importante significato personale e simbolico, di formazione e di sviluppo, di ricerche artistiche, di errori ed esperimenti.
Marta Somazzi: Il titolo Break the sacral can be criminal si riferisce a un ordine superiore del mondo, all’ordine dell’amore come forza naturale. Sostieni quindi la superiorità e la sacralità dell’ordine naturale su quello sociale?
Anatoly Belov: Si tratta di una frase triste e ironica allo stesso tempo, che si riferisce alla condizione della gente rinchiusa in condizioni patriarcali, nelle quali possiamo osservare gay, bisessuali e lesbiche – le trappole-costruzioni-regole costruite segretamente dalla società e le scappatoie per evitarle e giustificarsi. Queste sono le situazioni che ho riscontrato nella mia vita.
Marta Somazzi: Nel cortometraggio mischi liberamente finzione e autobiografia. Nel film Mio padre è il fratello di mia madre (Тато мамин брат), un documentario che entra nelle dinamiche della tua vita familiare, reciti il ruolo principale. Qui possiamo vedere come nella realtà la tua vita privata e artistica siano davvero mischiate. In alcune scene ti vediamo alle prese con la tua band e allo stesso tempo ti occupi di tua nipote. Possiamo dire che il tuo esempio parla di una realtà sociale più complicata, in cui tu sei in pratica sia la madre che il padre della bambina, senza essere nessuno dei due biologicamente? In un certo senso potremmo dire che spingi al limite estremo il modello di famiglia non normativa, in cui i genitori sono dello stesso sesso o dove uno dei genitori è assente. Potrebbe rappresentare un nuovo modello di società, in cui i confini tra famiglie normative/biologiche e non normative/biologiche non esiste più?
Attraverso il mito di Cibele ho potuto elaborare i miei propri “miti”.
Anatoly Belov: Sì, nelle mie canzoni molto viene dalla mia esperienza personale e dai miei sentimenti più intimi; tuttavia un film documentario su di me non è la stessa cosa. Innanzitutto non bisogna dimenticare che il cinema documentario è autoriale e soggettivo, e spesso mostra uno sguardo speculativo sulla situazione. Nelle mie canzoni e storie parlo della mia esperienza attraverso il prisma della mia visione del mondo; in quel caso sono responsabile della mia posizione. Nel film, la situazione è un’altra: diventi personaggio della storia, che costruisce il regista, e il suo sguardo può non avere nulla a che vedere con la tua posizione; è la posizione del regista. E io non percepisco come vicino lo sguardo che il regista ha sulla nostra situazione familiare. Mi sembra che in qualche modo idealizzi la mia figura, mentre mia sorella viene mostrata sotto una cattiva luce, e per me questa esperienza è stata traumatica. Perché mi sento responsabile per la mia famiglia indifesa. Sono diventato padre casualmente, non ero pronto per la paternità; quando è nata mia nipote, all’inizio per me era solo mia nipote; la consapevolezza che dovevo prendermi cura di lei e assumere il ruolo di padre è arrivata col tempo. Non credo che la mia storia sia unica, e in Ucraina davvero molte madri sole crescono i loro figli in famiglie “dello stesso sesso”, ossia insieme alle proprie madri e nonne. Anche io e mia sorella siamo stati cresciuti da nostra madre soltanto, e con noi viveva anche nostra nonna. Penso che non esista un criterio di quello che deve essere una famiglia; non è importante il sesso o qualsiasi altra identità di genitore/genitori; ciò che importa è l’amore e la cura per il bambino.
Marta Somazzi: A questo proposito, ricordo la tua performance audiovisiva a Ginevra dello scorso ottobre, dove la musica e le immagini erano ancora una volta unite e si sostenevano vicendevolmente. Per la tua performance hai scelto il personaggio mitologico di Cibele, che è profondamente antipatriarcale e rappresenta l’aspetto “animale” dell’essere umano. Inoltre, secondo alcune versioni del mito, Cibele avrebbe dato alla luce un ermafrodita. Potremmo parlare di Cibele come di una “protettrice” per la comunità queer? O come nuovo mito queer?
Anatoly Belov: Sì, il mito di Cibele, così come la storia del suo culto, mi ha colpito e ispirato per la creazione di un nuovo personaggio mitologico, a cui ho aggiunto delle funzioni e ampliato quelle già tipiche dell’antica divinità. Avendola resa protettrice di tutto ciò che è queer, la sua natura non è stata contraddetta, dal momento che lei stessa ha vissuto una trasformazione da Agdistis, demone-ermafrodita, a divinità terrena, Cibele appunto. La duplicità della sua figura – divina-immortale e terrena-umana – non rappresenta la precisione della forma ma la sua trasformazione. Non mi sento vicino alla religiosità, ma allo stesso tempo volevo creare una mia “religione-non religione”, in cui vi fosse una divinità con la sua storia e con i cui miti fosse possibile lavorare, lasciandoli passare attraverso di sé, attraverso la propria vita e le proprie esperienze. Attraverso il mito di Cibele ho potuto elaborare i miei propri “miti”. Certamente anche la natura animale dell’Uomo è presente in questo mito, ma è solo una parte, soltanto una delle sue numerose sfaccettature.
Marta Somazzi: Nella tua performance visiva l’immagine del leone è il simbolo di Cibele, che tradizionalmente indossa una corona turrita. Nella tua versione la corona sembra un edificio sovietico. È una mia impressione o hai pensato davvero a questo tipo di interpretazione? In quanto parte dell’immaginario collettivo (consapevole o meno) e della storia nazionale ucraina, potremmo dire che in Ucraina il passato sovietico lavora ancora come una narrazione per il presente?
Anatoly Belov: Hai visto bene nella corona la silhouette di un edificio costituito dа pannelli prefabbricati. Tuttavia non ho collegato tali costruzioni all’eredità sovietica, ma piuttosto ho trasformato la corona-colonna dell’immagine classica della divinità in un’interpretazione urbana contemporanea di quest’ultima, prendendo come esempio la silhouette delle case a più piani a Troješčina [un sobborgo di Kyiv], in cui vivo. Ovviamente il passato sovietico dell’Ucraina è ancora molto presente. Fa parte del barbaro processo di decomunizzazione dei monumenti culturali e della lotta per la conservazione dell’eredità architettonica modernista in Ucraina. Cibele è la divinità urbana delle città.“…Cibele è la divinità urbana delle città.” La sua nuova natura è costituita dagli elementi delle giungle di pietra; le sue nuove storie diventano leggende urbane.
Marta Somazzi: Tu sei artista, regista, musicista e scrittore. Sebbene i tuoi lavori non siano esplicitamente politici, ci sono spesso riferimenti all’attuale situazione sociopolitica ucraina. Infatti, a proposito del tuo cortometraggio, in un’intervista al Pinchuk Art Center hai detto che inizi «da una storia vera e la porti all’assurdo, in modo da mostrare cosa sta succedendo nel [tuo] Paese». In che modo la politica influenza la tua arte? Quali pensi siano le caratteristiche della pratica artistica ucraina rispetto a quella europea?
Anatoly Belov: L’arte ucraina si trova nel contesto artistico contemporaneo internazionale. Non è né più né meno politica che in Europa. Nel mondo contemporaneo è impossibile limitarsi alla sola politica: qualsiasi gesto o l’assenza di esso sono un’espressione politica.
Marta Somazzi: Il tuo lavoro di regista mostra l’influenza del cinema francese. Infatti, nell’intervista a cui prima ho fatto riferimento, sostieni che il cinema francese, e in particolare Serge Bozon, sia il punto di partenza per la tua pratica artistica. A quali altri artisti – francesi e non – ti senti vicino? Quanto guardi al cinema europeo e quanto all’arte locale ucraina?
Anatoly Belov: Sì, Serge Bozon e i registi della nuova “nouvelle vague” francese, di cui fa parte anche Bozon, hanno lasciato in me un’impronta indelebile, mi hanno ispirato a fare cinema. Quando ho visto Mods o France, ho pensato che si trattava di film realizzati da un artista; mi sono detto che mi interessava come questo artista lavorasse con la forma e con le idee. Sognavo di incontrare Serge Bozon, e ci siamo anche scritti per vederci durante la mia residenza berlinese, ma ahimè non ci siamo incontrati. Serge ha ricevuto un finanziamento per il suo progetto ed è rimasto a lavorarci. Mi sono molto ispirato (e lo faccio ancora) a diversi tipi di arte, sia globale che ucraina. Mi ispirano le idee e i comportamenti anticonformistici. Mi ispirano molto gli artisti, registi e musicisti ucraini, molti dei quali sono anche miei cari amici. Devo in parte la mia formazione come artista e come persona anche a loro.
Anatoly Belov è un artista, musicista e scrittore che vive e lavora a Kiev. I suoi lavori sono stati esposti nella mostra personale In the Darkness alla galleria Hudgraf (Kiev), e in mostre collettive al Feminist Queer Festival (Vienna), al PinchukArt Centre e al Centre for Visual Culture (Kiev), all’Arsenał Gallery (Białystok), al MOCAK (Cracovia), oltre che in altre istituzioni ed eventi. Tra il 2004 e il 2005 ha co-fondato il gruppo R.E.P. (Revolutionary Experimental Space).
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Marta Somazzi è laureata alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Milano, dove studia francese e russo. Nell'ambito dei programmi di scambio universitari europei, ha trascorso parte dei miei studi in Belgio, presso l'Università di Louvain. Attualmente studia a Parigi. Ha collaborato con KABUL magazine come traduttrice e come assistente editoriale tra il 2018 e il 2020.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.