«La colpa… Non è delle stelle, ma nostra».
(William Shakespeare, Giulio Cesare)
C’era una volta l’ingiustizia epistemica
Nel film Spellbound di Alfred Hitchcock,11A. Hitchcock, Spellbound, Selznick International, USA, 1945.
conosciuto in italiano come Io ti salverò, Constance Petersen, una giovane psicanalista, interpretata da Ingrid Bergman, indaga su quale sia l’origine della psicosi di John Ballantyne, di cui è innamorata. Vuole guarirlo e scagionarlo. Il personaggio, interpretato da Gregory Peck, non solo soffre di una singolare forma di amnesia, ma è anche sospettato di aver ucciso il dottor Edwards, rubando la sua identità. Quando la dottoressa Petersen chiede aiuto e consiglio in merito al collega Burlov, il suo anziano professore rifiuta di discuterne con lei, apostrofandola con queste parole: «Come se non sapessi che una donna innamorata occupa l’ultimo posto nella scala dei valori intellettuali!».
To Kill a Mockingbird, tradotto in italiano come Il buio oltre la siepe, è ambientato in Alabama negli anni Trenta.22H. Lee, Il buio oltre la siepe, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013.
Tom Robinson viene accusato di violenza sessuale nei confronti di Mayella Ewell. Nonostante la sua innocenza venga dimostrata con perizia dal suo avvocato Atticus Finch, Tom viene condannato a morte dalla giuria popolare. Non solo la testimonianza di Tom non vale tanto quanto quella dell’uomo bianco che lo accusa, ma il lavoro del suo avvocato Atticus non è considerato legittimo in quel contesto, perché è un “negrofilo” o “amico dei neri”.
Alice lavora in un’azienda.33Il caso di Alice è tratto da M. Fricker, Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing, Oxford Press, Oxford, 2007.
Il suo lavoro è stimato, ma le sue proposte frequenti, pur essendo espresse con chiarezza, vengono sistematicamente ignorate. A un certo punto intuisce che il suo essere propositiva potrebbe non essere apprezzato a causa del suo essere donna. Per verificare la fondatezza della sua intuizione, si accorda con un collega uomo di pari grado, non particolarmente riconosciuto in quell’ambiente. Il patto prevede che i due si siedano vicini durante le riunioni. Quando Alice vuole proporre qualcosa, la scrive su un foglio. Il collega legge e propone quanto lei ha scritto. Ecco che le idee di Alice cominciano ad affermarsi con vigore all’interno dell’azienda, proprio con il ritmo che aveva sempre seguito nel proporle.
Eugenia Phelan intende pubblicare un libro di testimonianze delle “cameriere di colore” del Mississippi negli anni Sessanta, mossa dall’intento di denunciare le ingiustizie che esse subiscono all’interno di quel sistema di oppressione. Un recente romanzo, diventato il celebre film The Help, racconta proprio come la comunità di Jackson si opponga al suo progetto, negando persistentemente la capacità di queste donne di essere portatrici di una conoscenza relativa alla loro stessa esperienza di vita.
Il libro viene pubblicato. Le testimonianze escono finalmente dalla ristretta comunità di Jackson e vengono credute. Solo allora Aibileen Clark, una delle scrittrici del libro, si ribella ai continui soprusi di Hilly Holbrook, amica della sua datrice di lavoro, e dichiara che scriverà un altro libro sulle ingiustizie da lei perpetrate. La signora Holbrook risponde dicendo che nessuno crederà mai a una cameriera nera, ma Aibileen la sorprende affermando: «Si sbaglia, pare che io sia brava! Sto già vendendo molte copie!».
In una scuola, alcuni neuropsichiatri comunicano a una maestra che ben sei dei suoi alunni hanno un quoziente intellettivo superiore alla media, indicandoglieli.44Il racconto è tratto da Fricker (2007).
In realtà, la notizia potrebbe essere falsa o casualmente vera, poiché ai bambini in questione non è stato somministrato alcun test. Sono stati scelti in modo casuale. Eppure l’atteggiamento della maestra nei confronti di questi bambini cambia. Comincia a dare molto più credito a questi studenti “superiori alla media”, che per effetto di questa cieca fiducia migliorano radicalmente, diventando molto sicuri di sé, difendendo le loro opinioni con più stabilità e costanza.
Miranda, ricercatrice in bioetica, ha un appuntamento con un professore del dipartimento di medicina per iniziare una collaborazione su un progetto di ricerca in etica medica. Documentandosi, fraintende la dicitura che illustra il titolo dell’accademico. Pensa così che il docente sia un dottore in medicina. In realtà è un dottore in filosofia.55Il caso di Miranda è tratto da Fricker (2007).
Miranda verifica con molta attenzione tutte le affermazioni filosofiche che il professore fa nei suoi articoli. Comincia a fargli domande insistenti, quasi volesse testare le sue conoscenze, in quanto pur essendo un medico chiama in causa tesi filosofiche. A un certo punto, parlando, scopre di essersi sbagliata di grosso. Il professore è un dottore in filosofia, non un medico. Improvvisamente Miranda smette di porre domande.
Nel regno dell’ingiustizia epistemica
Le brevi storie raccontate sono esempi di situazioni in cui qualcuno non crede a qualcun altro. Non gli crede perché sostiene che quel qualcuno non sia in grado di conoscere adeguatamente qualcosa. Tuttavia la sua convinzione, più che fondarsi sull’analisi di ciò che viene detto dall’altro, si nutre di un giudizio negativo relativo a certe caratteristiche identitarie o sociali del suo interlocutore. Qualcuno può ignorare il punto di vista dell’altro, dichiarandolo inadatto a comprendere, perché ha un privilegio nei confronti di chi riduce al silenzio, il quale, al contrario, si trova, per una ragione o per un’altra, in un contesto di svantaggio, se non di oppressione. Ecco che, costituendosi come parte privilegiata, chi esclude diventa “arrogante”66Da Arrogante, Treccani.it – Vocabolario Treccani online, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 17 novembre 2018: “Arrogante agg. [dal lat. arrŏgans -antis, propr. part. pres. di arrogare: v. arrogare]. – Che tratta gli altri con insolente asprezza e con presunzione”.
o “pigro”77Da Pigro, Treccani.it, cit., 17 novembre 2018: “Pigro agg. [dal lat. piger -gra -grum]. – 1. a. Di persona che, per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale, e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo”.
nei confronti dell’altro, esibendo un vantaggio sociale attraverso questi due atteggiamenti che si configurano al tempo stesso come stili cognitivi e stili di oppressione.88Per quanto riguarda la definizione della pigrizia come vizio genuinamente cognitivo cf. J. Medina, The Epistemology of Resistance: Gender and Racial Oppression, Epistemic Injustice, and the Social Imagination, 34, 2013: «[…] I am interested in exposing the cognitive attitudes that support these forms of privileged ignorance, the epistemic vices that privileged subjects develop to protect themselves. And the main epistemic vice that results from the privilege of not needing to know is a lack of curiosity about those areas of life or those social domains that one has learned to avoid or not to concern oneself with. This socially produced and carefully orchestrated lack of curiosity is what I will call epistemic laziness». Per quanto riguarda l’arroganza si veda sempre Medina, ibid.: «This kind of cognitive self-indulgence or cognitive superiority complex is what I will call epistemic arrogance. Epistemic arrogance is only one of the central vices that can be characteristic of privileged subjects».
Constance è donna e per giunta innamorata di un presunto assassino folle; ha dunque perso il lume della ragione, secondo il suo anziano professore, che non intende sapere che cosa lei abbia da dirgli. Alice è una donna un po’ troppo insistente, a detta dei suoi superiori. Fa forse tutte queste proposte perché intende accelerare la sua carriera? Ciò inficia la presa in considerazione delle proprie idee. Tom è un negro: come ci si può fidare di uomini appartenenti a quella razza e di chi li difende come quel negrofilo di Atticus?
Aibileen è una cameriera nera: che ne sa delle ingiustizie sociali e razziali a cui essa stessa è sottoposta? Soprattutto a chi interessano? Eugene è una donna ed è ingenua, non si rende conto di come funzioni la società e adesso vorrebbe persino curare un libro. I bambini sembrano avere un quoziente intellettivo alto, allora diranno cose giuste; ma il loro fare osservazioni degne di nota dipende dal loro Q.I.? Il professore non è un dottore in filosofia o comunque non insegna in un dipartimento di filosofia, è uno straniero disciplinare. Miranda può permettersi di mettere in dubbio ciò che dice con leggerezza.
Questo non essere creduti, poiché ritenuti inadeguati a comprendere, oltre a denotare un privilegio, è anche selettivo. Aibileen si prende costantemente cura dei figli e delle case delle donne che la calunniano. Prende decisioni razionali e sensibili sulla vita dei figli dei suoi datori di lavoro quotidianamente, e questi gliele lasciano prendere; affiderebbero forse i propri figli a una persona incapace di comprendere? No, eppure la sua testimonianza a proposito della propria condizione lavorativa non vale. Alice fa il suo lavoro in modo stimabile, ma non può avanzare proposte. Come mai, finché deve prendere decisioni inerenti alla sua porzione di lavoro, è all’altezza della situazione, ma quando propone qualcosa, diventa inadeguata? La razionalità e la capacità cognitiva dei personaggi non sono minate, ma essi sono interdetti da certi scambi di conoscenza, perché in quel frangente non vengono ascoltati o creduti.
Da questo sistematico non essere creduti, tutti ne escono danneggiati. Il danno può essere più o meno grave, ma comunque esiste. Il danno inflitto dal non essere creduti può condurre persino alla morte, come nel caso di Tom. Alice, Constance, il professore di etica medica e Atticus vengono invece screditati dal punto di vista professionale o conversazionale. Aibileen è sottoposta a continue vessazioni e accuse ingiuste. I bambini che vengono creduti in possesso di un Q. I. superiore alla media sono danneggiati nella misura in cui potrebbero non essere pronti a sostenere l’improvvisa credibilità che viene offerta loro dalla maestra.
I personaggi di cui si parla vivono in un ambiente in cui non sono creduti sistematicamente e costantemente. Nei contesti in cui si trovano, per dimostrare di avere ragione non hanno diritto a una contesa né a un dialogo. Ciò deriva non solo dal loro ruolo sociale o dalla propria appartenenza a una categoria discriminata, ma anche dall’incertezza della loro posizione all’interno del gruppo. Ognuno dei personaggi si trova in una situazione di fragilità più o meno accentuata, data dal rapporto tra le sue caratteristiche identitarie e la comunità di conoscitori in questione.
Constance, per esempio, è un medico donna in un momento storico – gli anni Cinquanta – in cui essere donna e medico non è ancora del tutto accettato; il riconoscimento professionale, inoltre, non corrisponde ancora pienamente a quello sociale. Tom è un uomo che si trova a vivere all’interno di un contesto in cui il suo essere nero è una caratteristica che lo interdice dall’essere credibile. Alice e Aibileen hanno una posizione professionale subalterna. I bambini dipendono dal giudizio della maestra e la maestra dipende dall’autorità del neuropsichiatra, senza comprendere il significato di ciò che dice tramite le sue comunicazioni.
A vari livelli, chi non crede ai personaggi in questione o crede loro in eccesso si trova in una posizione di privilegio, dal momento che il suo posto all’interno della comunità non è minimamente messo in discussione a causa di specifiche caratteristiche. Il colore della pelle, il risiedere nel dipartimento, la ricchezza, l’essere uomini o il ricoprire un ruolo professionale di un certo tipo li mette non solo al sicuro, ma nella posizione di poter includere o escludere l’altro da una comunità sociale di conoscitori. Ecco il regno dell’ingiustizia epistemica.
Strategie dell’ingiustizia epistemica
Senza alcuna pretesa di sistematicità, le brevi storie dei personaggi presentati ci consentono di tratteggiare alcuni caratteri fondamentali di un fenomeno definito appunto come ingiustizia epistemica. Vi è ingiustizia epistemica quando si sbaglia ad attribuire conoscenze a qualcuno, non solo perché si ha un pregiudizio nei confronti di alcuni dei suoi presunti caratteri, ma perché si ha un privilegio nei suoi confronti. Le ingiustizie epistemiche si verificano sempre in contesti di oppressione, a volte irriconoscibili, altre più accentuati, ma pur sempre tali.
Le ingiustizie epistemiche sono una famiglia di ingiustizie che si commettono nei confronti delle persone in quanto portatrici o produttrici di conoscenza. Dato che scambiarsi e produrre conoscenza sono caratteristiche fondamentali dell’essere umano e del suo stare al mondo, le ingiustizie epistemiche provocano danni alla persona nella sua vita sociale, affettiva e cognitiva. Si configurano come ingiustizie perché a vari livelli sottraggono la possibilità di partecipare ad attività conoscitive fondamentali per la sopravvivenza. È così che il campo dell’ingiustizia epistemica si trova all’incrocio tra vari domini: quello dell’etica e quello dell’epistemologia e della filosofia della società.
Se cerchiamo di reperire informazioni sull’ingiustizia epistemica, le troviamo sotto la voce99H. Grasswick, Feminist Social Epistemology, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2018, https://plato.stanford.edu/entries/feminist-social-epistemology/#EpiInj.
Epistemologia sociale femminista (Feminist Social Epistemology) della Stanford Encylopedia of Philosophy – fatto di per sé degno di nota. Tradizionalmente l’epistemologia è lo studio delle condizioni della conoscenza valida. L’epistemologia sociale studia pertanto la dimensione sociale della conoscenza, ossia come una conoscenza possa essere valida o conservare la propria validità nel corso del suo processo di formazione collettivo1010A. Goldman, Social Epistemology, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2015, http://plato.stanford.edu/entries/epistemology-social/#DemSocEpi.
e istituzionale. La parola ingiustizia, tuttavia, ci introduce immediatamente all’etica.
Se quella del conoscere si configura come un’attività sociale, ne consegue che abbiamo obblighi, doveri e responsabilità nello svolgere tale attività. Nei casi di ingiustizia epistemica non ci si limita a cadere in una fallacia ad personam – che consiste nel denigrare chi sostiene una tesi, anziché criticare la sua argomentazione –, ma gli si preclude persino la possibilità di proferirla. L’ingiustizia epistemica riguarda l’incrocio tra due concetti: la giustizia e la giustificazione. Se la giustizia è una categoria etica che riguarda la corretta determinazione di «quello che ci dobbiamo gli uni con gli altri», la giustificazione è una categoria epistemologica che riguarda come deve essere il ragionamento corretto, o come da certe premesse si possa giungere a conclusioni valide. Così, tra le altre cose, l’etica si occupa dei princìpi della giustizia e l’epistemologia dei princìpi della giustificazione.
Per parlare di ingiustizie epistemiche, avremmo quindi bisogno di una teoria della conoscenza valida, di una teoria dell’aggregazione e della distribuzione della conoscenza nonché di un’etica di tale processo. Abbiamo bisogno di capire quali siano le condizioni del conoscere in modo valido, dall’agire bene nel farlo e dello scambio di conoscenze meno autoritario possibile. Inoltre, avremmo anche bisogno di una teoria che ci spieghi il rapporto tra potere e scambi di conoscenza. Prese queste teorie e declinate nei vari contesti, possiamo combinarle e comprendere quando qualcuno agisce male con la conoscenza, escludendo arbitrariamente qualcun altro, commettendo un’ingiustizia epistemica.
Senza nulla togliere a questi campi di indagine filosofica, la ricerca sull’ingiustizia epistemica sovverte l’ordine di lavoro. Lo studio delle ingiustizie epistemiche si sviluppa in un quadro teorico che sceglie di dare priorità all’ingiustizia sulla giustizia,1111Medina (2013), p. 28.
ai vizi della conoscenza sulle sue virtù. Le ingiustizie non si configurano come deviazioni o aberrazioni dalla norma della giustizia e della conoscenza valida, ma come una porzione di realtà spesso ampia. Ammettere la priorità dell’ingiustizia sulla giustizia significa pertanto ammettere che la realtà sociale sia governata da ingiustizie. Da qui emerge la definizione di contesto di oppressione come background o grado zero delle teorie. Il contesto, che in varie teorie è ridotto a una variabile, diviene qui punto di partenza. Il contesto di oppressione è un contesto in cui qualcuno ha un’autorità epistemica che lo abilita a escludere qualcun altro, nonostante, facendolo, esibisca una conoscenza non valida o frutto di un pregiudizio.
Si parla di ingiustizia epistemica sotto una voce dell’enciclopedia relativa all’epistemologia sociale femminista, proprio perché la ricerca relativa a tale fenomeno nasce all’interno di un contesto di oppressione. Ciò ha un significato ben preciso dal punto di vista filosofico accademico in senso ampio, ma anche pratico, soprattutto all’interno della filosofia analitica anglosassone, che tradizionalmente indaga le condizioni a cui si può definire un fenomeno come tale. Per individuare le ingiustizie non abbiamo bisogno di una teoria della giustizia completa o perfetta; per osservare gli abusi epistemici in cui quotidianamente siamo immersi non abbiamo bisogno di un accordo su che cosa contraddistingua la conoscenza valida. Basta semplicemente osservare la realtà e le sue possibilità.
Il bisogno che guida tale approccio è quello di rompere, anche attraverso l’azione teorica, la cecità o l’insensibilità nei confronti di queste ingiustizie sistematiche e costanti. In quanto questo tipo di ingiustizie mina una parte significativa del nostro essere, che è quella di partecipare a scambi testimoniali, ovvero a conversazioni in senso lato. Inoltre l’approccio mette in gioco il ricercatore nella sua stessa quotidianità. Se non vediamo i contesti di oppressione negli ambiti in cui viviamo, significa che abbiamo sviluppato l’arroganza e la pigrizia epistemiche dei privilegiati, che ci rendono ciechi. Altrimenti ci troveremmo in una spirale di oppressione tale da non riconoscere più tutte le volte in cui veniamo esclusi dalla cerchia di chi conosce in modo adeguato, estromettendoci dai benefìci epistemici. Occorre pertanto riconoscere le tracce di un trauma che coinvolge l’intera sfera della persona.
L’assunzione di questo dibattito è che la cecità al sapere proveniente dalle persone che vivono in un contesto di oppressione vada combattuta. La cecità epistemica non è un fatto spontaneo, ma è frutto di un’ideologia, a volte tacita, che mira a rendere insensibili nei confronti delle politiche di esclusione. Due casi di analisi sono particolarmente paradigmatici del modo in cui tali dibattiti affrontano il trattamento delle ingiustizie epistemiche: la color-blindness e la gender-blindness. La blindness è una strategia liberale per affrontare la diversità che si fonda sul non fare riferimento in alcun modo al colore della pelle o al genere delle persone con cui si interagisce. Tale strategia stride evidentemente con i contesti di oppressione presenti nella società contemporanea in cui i segni del genere e del colore della pelle sono più che mai enfatizzati, oltre a essere causa di esclusione sociale.
La blindness è una strategia o un’ideologia di ingiustizia epistemica, perché scoraggia la possibilità di trasmettere conoscenza all’interno di un contesto di oppressione. È pericolosamente e falsamente ingenua, poiché sostiene che negando l’esistenza dei caratteri su cui si appoggiano ideologie, come razzismo o sessismo, queste ultime si possano eliminare.1212Medina (2013).
«Quando ti vedo non vedo un genere o un colore» è lo slogan con cui si articola questa visione, soprattutto negli Stati Uniti. Tuttavia, se quando ti vedo non scorgo un genere o un colore, non intendo nemmeno vedere o sapere che cosa si provi a vivere nella società con quel colore o quel genere. Anticipo pertanto di non volere essere messo al corrente di un’eventuale sofferenza causata da forme di discriminazione.
Ecco come questo atteggiamento, portando a una completa desensibilizzazione delle differenze all’interno di contesti di oppressione, ha paradossalmente alimentato la cultura del rigetto e della segregazione, sino ad arrivare agli estremi apici della contempoaneità. L’essere del tutto privo di colore o di genere resta un’ipotesi di finzione sociale che richiede molto lavoro ideologico. È una presa di distanza dall’ideologia razzista e sessista che non si assume la responsabilità di interagire, con le conseguenze che il pregiudizio ha sull’altro. La cecità porta a normalizzare una condizione di privilegio, bloccando la capacità di riconoscimento delle differenze, di visione delle esclusioni sociali e di resistenza a essa connesse.
Si disconoscono i segni delle ingiustizie che qualcuno subisce, rifuggendo una solidarietà o una resistenza. La cecità diventa non solo insensibilità alla parte di conoscenza relativa alle ingiustizie subite, ma è ignoranza attiva. Chi si trova in una situazione di privilegio non si sente toccato, non si sente in dovere di conoscere o di interagire con chi non possiede i privilegi epistemici.
«Sei così, quindi non ti credo.» / «Parli di cose che non esistono, quindi non ti credo».
Gli esempi di ingiustizie epistemiche proposte all’inizio sono ingiustizie epistemiche testimoniali, in cui si sbaglia a riconoscere qualcuno come portatore di conoscenza affidabile, in virtù di caratteristiche identitarie. Per “testimonianza” si intende qualsiasi tipo di dire attraverso cui è possibile qualsiasi genere di trasmissione o espressione di conoscenza.1313Medina (2013), p. 28.
Tra i casi più drammatici della contemporaneità vi sono quelli dei richiedenti asilo, la cui vita dipende appunto da una testimonianza.1414Cf. E. Mazzi, E. Camporesi, Performing the self – the interview, Ed. Thalie Art Foundation, Brussels, 2018.
L’ingiustizia epistemica, tuttavia, non è solo testimoniale; ce ne è almeno un’altra, vale a dire quella ermeneutica. L’ingiustizia ermeneutica si ha quando si intende descrivere la propria esperienza nei termini di un concetto che non esiste all’interno della comunità in cui ci si trova. Supponiamo che io sostenga di essere stata torturata in Italia e che in Italia non esista il reato di tortura: posso essere compresa dal punto di vista conversazionale, ma non posso fare in modo che chi mi ha torturata sia perseguito penalmente per tortura, a meno che non si riesca a modificare la legge. Un altro caso è quello in cui una persona sostiene di essere stata torturata in un Paese in cui ipoteticamente non esiste affatto il concetto di tortura.
I concetti di ingiustizia epistemica testimoniale e di ingiustizia ermeneutica non sono sempre riducibili l’uno all’altro, ma vi è un senso in cui, se non sono credibile o libera da ingiustizie epistemiche testimoniali, non posso nemmeno smarcarmi da un’ingiustizia ermeneutica. Il terreno dell’ingiustizia epistemica è quello degli atti linguistici.1515J. L. Austin, Come fare cose con le parole, trad.it. Marietti, Genova, 1987.
Se fallisce la cooperazione conversazionale che rende possibile la testimonianza o lo scambio di conoscenze, a maggior ragione fallisce la cooperazione ermeneutica che implica l’introduzione di un nuovo concetto nell’interpretazione dell’esperienza.
Tuttavia la questione non è così semplice. Si potrebbe sostenere che il caso di Tom sia, per esempio, un caso di ingiustizia ermeneutica, poiché la comunità in cui vive continua a utilizzare la razza come concetto rilevante nella spiegazione dei comportamenti morali, quando invece non lo è affatto. L’ingiustizia ermeneutica è sempre lì, anche se non può essere smascherata a causa del contesto di oppressione che ha eretto un’ingiustizia testimoniale razziale a norma delle interazioni sociali. Atticus cerca di portare a galla questa ingiustizia ermeneutica, ma non vi riesce, perché è soggetto a un’ingiustizia epistemica testimoniale, vale a dire che non viene creduto per la sua fama di negrofilo.
La storia ci presenta un fitto intreccio di ingiustizie epistemiche testimoniali ed ermeneutiche che hanno riguardato anche illustri scienziati, come Galileo Galilei, soggetto a entrambe le ingiustizie. Da un lato, Galileo non veniva creduto in quanto scienziato, ed è qui che abbiamo l’ingiustizia epistemica testimoniale. Dall’altro, come molta filosofia successiva sostiene, i due paradigmi, quello tolemaico e quello copernicano, erano incommensurabili. Qui abbiamo invece l’ingiustizia epistemica ermeneutica.
L’ingiustizia epistemica ai tempi del capitalismo cognitivo
Lungi dal voler disegnare una panoramica completa dei casi in cui, a partire da specifiche condizioni identitarie, emergono ingiustizie epistemiche testimoniali o ermeneutiche, possiamo dire che il meccanismo di cui stiamo parlando non è randomico. L’ingiustizia epistemica è sistematica e costante. La sua stessa possibilità presuppone un contesto di oppressione inscrivendosi in un sistema di esclusione sociale stabile. L’ingiustizia epistemica non corrisponde semplicemente a un insulto occasionale o a una singola diffamazione, ma segna anche una simultanea o performativa esclusione dalla comunità di chi conosce o testimonia. Ciò impedisce all’escluso di partecipare ad alcune attività sociali che possono essere professionali, istituzionali, processuali o semplicemente collettive.
Gli esempi presentati mostrano situazioni in cui il denigrare le capacità conoscitive di una persona in virtù delle sue caratteristiche identitarie è un’abitudine o una pratica che si invischia nella struttura quotidiana dei rapporti sociali. Parafrasando Wittgenstein,1616N. Malcom, Wittgenstein on Language and Rules, «Philosophy», 247, vol. 64, 1989, pp. 371-395.
potremmo dire che mai nessuno ha subito un’ingiustizia epistemica una e una sola volta. Nonostante si possa aver subìto un singolo episodio di esclusione, tale occorrenza presuppone una forma di vita che contempli l’ammissibilità della pratica dell’escludere qualcuno dalla comunità di chi conosce, in virtù di quei caratteri identitari. La possibilità dell’esclusione diventa così tangibile, anche quando non è attualmente praticata.
Sappiamo che a un certo punto possiamo essere minati nel nostro partecipare a processi di produzione della conoscenza ed essere per questo esclusi. La centralità della conoscenza nei sistemi produttivi contemporanei aumenta il peso sociale dell’ingiustizia epistemica. In un sistema produttivo in cui la capacità di generare testimonianze, interpretazioni o di scambiare conoscenza è messa direttamente a valore, uscire dall’economia della fiducia epistemica significa in un certo senso morire o perlomeno rischiare la vita. Non essere credibili è un danno, non solo alla propria identità di agente epistemico, ma anche alla propria capacità produttiva.
Giustificare l’esclusione di un agente dalla comunità di chi è in grado di conoscere sulla base di caratteri identitari e sociali implica avallare l’esclusione dalla produzione di conoscenza, quindi dal riconoscimento sociale ed economico. Non essere creduti in un sistema in cui la propria forza produttiva si basa anche sulla produzione di conoscenza è un doppio danno, poiché priva simultaneamente della capacità di essere agenti epistemici riconosciuti e della capacità di produrre, dunque di sostenersi. Ciò non riguarda solo i cosiddetti “lavoratori cognitivi”. Se ognuno deve produrre testimonianze per mantenersi in vita, per accedere ai beni che garantiscono la sopravvivenza, ne consegue che essere esclusi dall’economia della fiducia epistemica corrisponda effettivamente all’andare incontro a un danno profondo.
Se non posso accedere a scambi testimoniali, perché ne sono escluso in virtù di caratteri identitari o sociali, la mia identità, che mi consente di agire socialmente, ne verrà comunque danneggiata. Inoltre, se il mio lavoro implica produrre conoscenza, ma vi è un pregiudizio sulle mie condizioni sociali che mi impedisce di essere credibile, sancendo la mia esclusione sociale da quella comunità, avrò anche un danno economico specifico in rapporto alla professione. Non posso accedere al sistema di produzione riconosciuto, dunque al sistema di distribuzione1717Questo paragrafo è un’integrazione del dibattito sull’ingiustizia epistemica con il dibattito sulla definizione del rapporto tra riconoscimento e redistribuzione in N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, trad. it. Meltemi, Roma, 2007.
delle risorse connesse alla produzione di conoscenza. A un certo punto, non potrò più lavorare. Se non posso lavorare, non posso accedere a quelle risorse che determinano la mia sopravvivenza.
Se nel sistema produttivo si moltiplicano gli ambiti in cui non è possibile discutere la giustificazione delle conoscenze secondo criteri intersoggettivamente e pubblicamente discussi, il marchio dell’ingiustizia epistemica – «sei così, quindi non puoi sapere» – si impone nella sua massima portata arbitraria, moltiplicando le proprie condizioni di applicazione ed eccedendo ogni logica. C’è sempre un qualcosa di mancante che a un certo punto conduce all’esclusione. A ben vedere, l’ingiustizia epistemica sembra essere fondativa di una grande varietà di esclusioni dalla distribuzione delle risorse. Ci può sempre essere un attributo, un “sei così”, che guida all’esclusione, anche in maniera tacita.
Vi è sempre un’esperienza professionale che avremmo potuto fare, ma che ci siamo persi. C’è sempre del tempo o del denaro che avremmo potuto utilizzare per imparare qualcosa, ma che non abbiamo donato. Per esempio, potevamo ancora fare quel corso o quello stage, ma in quel momento stavamo facendo altro. Avremmo potuto conoscere una persona che non abbiamo conosciuto, ma che si sarebbe rivelata cruciale per aumentare l’economia della fiducia epistemica. Dovevamo leggere un libro, ma non lo abbiamo fatto, e quindi adesso non verremo ascoltati. Quel tempo e quel denaro investiti, quella persona conosciuta, quel libro letto ci avrebbero permesso di essere creduti e inclusi. Eppure, per definizione, ci sono sfuggiti, condannandoci alla precarietà, mettendoci in condizioni simili a quelle dei personaggi analizzati negli esempi.
L’ingiustizia epistemica diventa la base della giustificazione di meccanismi di sfruttamento, estromettendo di volta in volta dall’economia della fiducia questo o quell’altro individuo, ma soprattutto facendolo vivere nella costante e sistematica possibilità di essere escluso dalla produzione riconosciuta. Così le reti delle ingiustizie epistemiche vanno a sovrapporsi con quelle dello sfruttamento. Se ciò che si deve conoscere non è oggetto di negoziazione, di dibattito scientifico o pubblico, di articolazione o disarticolazione del disaccordo1818N. L. King, Disagreement: What’s the Problem? or A Good Peer is Hard to Find, «Philosophy and Phenomenological Research», 2, vol. 85, 2012, pp. 249-272.
e dell’agonismo,1919C. Mouffe, Agonistics: Thinking The World Politically, Verso, Londra, 2013.
si arriva alle estreme conseguenze secondo cui ipoteticamente ogni esclusione è frutto di un pregiudizio identitario, di arroganza e di pigrizia epistemica.
Per definizione, il lavoro si configura pertanto come un contesto di oppressione, ma anche di resistenza epistemica. La strategia dell’ingiustizia epistemica si fonde con il capitalismo cognitivo e il lavoro affettivo,2020Cf. J. Simon, Neomaterialism, Stemberg, Postdam, 2012; G. Harman, Immaterialism, Polity, New York, 2016; M. Hardt, Affective Labor, «Bounduary», 2, vol. 2, 1999, pp. 89-100.
riproducendo costantemente traumi relazionali. Ciascuna ingiustizia epistemica è un’ingiustizia che ci riguarda come agenti conoscitivi, morali, sociali ed economici appartenenti a gruppi e a istituzioni. Spesso abbiamo una possibilità epistemica di resistenza all’ingiustizia che non vediamo, poiché siamo stati soggetti a ingiustizie epistemiche che ci hanno danneggiato a un livello così profondo da non accorgercene più. Tale possibilità si trova semplicemente agli opposti della blindness, nella ricerca di un’interazione che guidi all’attenzione e alla sensibilità nei confronti dei contesti di oppressione in cui siamo immersi o con cui siamo confinanti, ripristinando la possibilità del disaccordo e del conflitto nei confronti di privilegi epistemici sempre più assoluti.
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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
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Clara Madaro è ideatrice e tutor del corso Filosofia per le pratiche artistiche per il Master di alta formazione sull'immagine contemporanea (Modena). Frequentata la 24ORE Business School, gestisce progetti artistico-culturali per pubbliche amministrazioni. Ph.D in filosofia delle istituzioni dal 2018, è stata ospite di residenze di ricerca internazionali. Cura public program e mostre per varie istituzioni e spazi no profit, collabora alla gestione dello spazio no profit Barriera dal 2015.
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KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.