«Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove un teppista abbraccia una puttana».
(A tutta voce – Во весь голос, Vladimir Majakovskij)
What is to be done with monumental propaganda?11What is to be done with monumental propaganda?, «Artforum», May 1992.
è il titolo di una mostra di Komar e Melamid tenutasi a Mosca nel 1993, dove i due si interrogano sul linguaggio monumentale dello spazio pubblico. Duecento artisti della capitale vengono chiamati a lavorare sul riutilizzo di monumenti totalitari minacciati dalla furia della leninoclastia post-1991.
«Oggi, ogni sforzo per salvare i monumenti del realismo socialista russo dalla distruzione sarebbe sicuramente visto come un tentativo di preservare una tradizione totalitaria. Noi non proponiamo né un culto né una cancellazione di questi monumenti, ma una collaborazione creativa con loro – lasciarli dove sono e trasformarli, tramite l’arte, in delle lezioni di storia».
Il progetto più importante per i due artisti concettuali è quello sul Mausoleo di Lenin. Qui propongono di aggiungere un “ISM” al nome del leader. Così, sono convinti che il mausoleo passerà dal commemorare la morte del primo Vladimir a celebrare la morte dell’ideologia leninista: «Perhaps pink flamingos could be allowed to wander about the tribunal from which the leaders once greeted people on state holidays»22 Ibid.
, scrivono sul manifesto.
Sempre all’interno del progetto di Monumental Propaganda, Vladimir Paperny propone di lavorare sul Palazzo dei Soviet, il centro amministrativo che sarebbe dovuto sorgere sul sito della demolita Cattedrale di Cristo Salvatore, vicino al Cremlino. Il concorso del 1931 aveva attratto architetti come Le Corbusier e Walter Gropius. Il progetto selezionato da Stalin, di Boris Iofan, prevedeva una torre centrale “più alta della Tour Eiffel” con in cima il simbolo della falce e il martello, e, di fronte all’edificio, monumenti a Marx, Engels e Lenin. I lavori subirono un fermo a causa della seconda guerra mondiale, e negli anni Sessanta le fondamenta in acciaio vennero riconvertite in una piscina all’aperto, la Moskva. Il vuoto del palazzo era diventato un simbolo del fallimento socio-economico dell’URSS. Paperny, per sottolineare l’assurdità del progetto originale, propone di ricreare il palazzo in plastica sotto forma di un gonfiabile trasparente, sospeso sopra la piscina. Quella Mosca di celebrazioni monumentali e burocrazia occludente avrebbe così perso definitivamente tutta la sua forza, per diventare una sorta di playground della memoria.
Alla fine, l’idea di Komar e Melamid di collaborare con la storia ha avuto vita breve. Lo Stato e la città hanno deciso, senza coinvolgerli, quale sarebbe stato il destino dei monumenti totalitari che infestavano Mosca. Così, il memoriale spontaneo che era nato di fronte alla Casa degli Artisti, un giardino di monumenti detronizzati dalla popolazione durante il carnevale iconoclasta del 1991, venne trasformato in un museo a cielo aperto, le statue restaurate e rimesse insieme. In quello che veniva popolarmente chiamato “un cimitero senza i morti”, i memoriali pubblici degli eroi sovietici erano infatti stati lasciati sull’erba, aperti al decadimento, al vandalismo, alle profanazioni creative.
Vedere le statue ritornare sul proprio piedistallo al Parco delle Arti di Mosca è un po’ come guardare Ottobre di Sergej Eisenstein al contrario, come se facessimo rewind della prima scena: la distruzione della statua dello zar Alessandro III fa venire in mente anche il famoso Once in the XXth Century di Deimantas Narkevicius. Due filmati della rimozione di un monumento a Lenin a Vilnius (uno ufficiale della televisione lituana e l’altro amatoriale) vengono invertiti. Il leader della Rivoluzione d’ottobre torna sul suo piedistallo, le azioni e le decisioni prese dalla cittadinanza sull’utilizzo dello spazio pubblico vengono negate. Negli anni Novanta, l’immagine del monumento di Vilnius che sorvolava la folla legato a un braccio meccanico aveva fatto il giro del mondo, come simbolo della caduta dell’Unione Sovietica. Narkevicius, qui, mette in evidenza, da un lato, la pericolosità della damnatio memoriae, dall’altro quella dell’ossessione per un’eterna conservazione delle cose.
Affrontando la questione dei monumenti con amici, colleghi, conoscenti, la risposta che ho riscontrato più spesso è quella di una ragionevole noia. Perché parlarne? Il linguaggio monumentale appartiene a un passato remoto. Ora come ora, sarebbe impossibile costruire qualcosa che porti con sé una narrazione talmente univoca, dei valori talmente condivisi da essere imposti al centro di una piazza. E, infatti, quando ci hanno provato artisti come Charles Ray o Jeff Koons, rispettivamente a Venezia e New York, entrambi si sono attirati le critiche.
I monumenti adesso sono altri: sono i gadget, le frasi motivazionali, i ted talk, i tik tok. Si sono smaterializzati, diffusi. Sono concepiti da tutti e per tutti senza più distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Ma se il concetto di monumento si è tanto evoluto dal XX secolo, perché la distruzione dei monumenti della resistenza partigiana nella ex-Jugoslavia? Perché l’attacco ai monumenti dopo la morte di George Floyd? Perché gli scandali Montanelli e spigolatrice in Italia? La rabbia, o per lo meno l’interesse, da parte della popolazione e del discorso politico verso la monumentalità non possono essere negati.
Il titolo Statues also die (Anche le statue muoiono) del film-saggio di Chris Marker sembra non valere per i monumenti problematici del secolo scorso che continuano, nella maggior parte dei casi, ad abitare lo spazio pubblico. Lo mette bene in evidenza l’artista afro-inglese John Akomfrah, quando in Politiche della Memoria33Aa.Vv., Politiche della Memoria. Documentario e archivio, a cura di Elisabetta Galasso e Marco Scotini, 2014, Derive Approdi, p. 25.
racconta:
«Fino a poco tempo fa, solo alcuni di questi monumenti erano dedicati alle vite africane o asiatiche. E quando lo erano, il loro obiettivo primario era quello di rimarcare in maniera ancora più incisiva la portata e la grandezza della conquista europea. Ma la loro presenza si può percepire in absentia. Perché molte delle conquiste che queste effigi celebrano sono in relazione con questo “altro” assente».
Nel 1983, i Black Audio Film Collective (collettivo artistico di cui Akomfrah è uno dei fondatori) cominciano a riflettere sull’idea di monumento come “mitologia bianca”, citando Robert J. Young. Con Signs of Empire ripercorrono, in una passeggiata attraverso la città di Londra, la storia del colonialismo anglosassone, tramite la monumentalità che celebra le sanguinose conquiste, lo sfruttamento e la presenza dell’“altro” colonizzato.
Più recentemente, la scrittrice italiana Igiaba Scego ha fatto qualcosa di simile su Roma, percorrendo i monumenti della città nel testo Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città. Il linguaggio del colonialismo italiano nella capitale è forte tanto quanto quello britannico. Scego si concentra soprattutto sul legame che intercorre tra discriminazioni razziali e di genere nello spazio pubblico, di cui il caso di Indro Montanelli è forse l’esempio più calzante:
«Il parallelismo tra la terra da penetrare e le donne da possedere viene messo in atto quasi da subito. Le donne sono terre di conquista. Erano il bottino che lo Stato (sia quello unitario che quello fascista) aveva promesso ai tanti soldati scalcinati dell’Italietta che si sognava impero».44Rino Bianchi, Igiaba Scego, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, 2014, Futura.
Tra i tanti casi su Roma c’è la Stele di Axum, che, trafugata dalle truppe di Mussolini in Etiopia, venne restituita con sessant’anni di ritardo rispetto a quanto previsto dall’accordo di pace del 1947, e abitò Piazza di Porta Capena fino ai primi anni Duemila. Già allora non mancarono le polemiche e le negazioni dell’apartheid italiana da parte di rappresentanti dello Stato e storici dell’arte. Nel 2002 Vittorio Sgarbi, sottosegretario ai beni culturali, minacciò le dimissioni se il bottino di guerra fosse stato spostato e restituito. Il governo Berlusconi, nel frattempo, non si pronunciava.
Ma un altro caso citato da Scego è forse ancora più emblematico di come il linguaggio dello spazio pubblico rientri e alimenti perfettamente quel mito degli “italiani brava gente”, che ci ha accompagnati in tutto il processo di colonizzazione. L’11 agosto 2012, in provincia di Roma (ad Affile), è stato inaugurato un “sacrario” militare dedicato a Rodolfo Graziani, gerarca fascista che fu collocato tra i criminali di guerra su richiesta del governo etiope. Graziani si era macchiato di numerosi crimini di guerra in Cirenaica ed Etiopia, come l’uso di gas proibiti dalle convenzioni internazionali, per citare il più comune. Il sacrario viene finanziato con soldi pubblici (160.000 euro per essere precisi) e approvato dal sindaco della cittadina.
Di fronte alle imposizioni così pressanti sullo spazio urbano, mi chiedo da dove nasca la responsabilità di archiviare e conservare la città così com’è, come fosse un contratto d’affitto con la storia. D’altra parte, però, l’unica soluzione che ci suggeriscono l’urbanistica, l’arte, l’iconoclastia e la rabbia carnevalesca sembra essere una silenziosa, dimessa e a volte costosa rimozione. Io penso ci sia stata data un’opportunità: quella di reinventare ciò che siamo stati, lasciare immaginari e narrazioni diverse a chi abiterà la città dopo di noi, il che non implica necessariamente la rimozione dei fantasmi di bronzo. Seguendo Komar e Melamid, si potrebbe parlare di un loro riutilizzo o, meglio, di una riscrittura.
Non è un caso che la letteratura più recente pulluli di testi che tentano di riscrivere le città, la loro storia, il loro destino, di luoghi costruiti con la penna su fondamenta di città reali: testi come Remoria. La città Invertita, che rientra in una sorta di post-turismo creativo. Qui Valerio Mattioli racconta la Roma che sarebbe sorta se al posto di Romolo, nella leggenda, a prevalere fosse stato Remo. Queste e altre speculazioni sul destino di Roma, Venezia e altre città-monumento ci fanno pensare che forse il destino della monumentalità del secolo scorso sia proprio la profanazione artistica.
«Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro» scrive Giorgio Agamben in Elogio alla Profanazione. Desacralizzare un monumento pubblico vuol dire disattivare un dispositivo plurisecolare del potere. Non a caso, Henri Lefebvre, nel sostenere l’idea di partecipazione dei residenti alla creazione del luogo che abitano (The Urban Revolution, 1970), si concentra anche sulle dinamiche socio-politiche che attraversano il monumento: «Il monumento è essenzialmente repressivo. È il trono di un’istituzione (la Chiesa, lo Stato, l’Università). Ogni spazio organizzato attorno al monumento è inevitabilmente colonizzato e oppresso».55Henri Lefebvre, The Urban Revolution, trans. Robert Bononno, University of Minnesota Press, 2003, p. 21.
Il monumento è un unicum nella storia, un genere di scrittura che esiste soltanto nello spazio, astratto dalla dimensione temporale. Ma soprattutto un genere di scrittura istituzionale dello spazio urbano, che arriva sempre dall’alto e rimane in alto, sul suo piedistallo. Quando una statua cade, che cosa si trova quindi a cadere se non l’idea che il linguaggio istituzionale debba prevalere su quello della caotica improvvisazione del pubblico?
Studiando la conservazione dei monumenti pubblici, lo storico dell’arte Alois Riegl distingue tra memoriali intenzionali e non intenzionali. I primi sono i monumenti che vengono da monere (“ammonire”). Un evento o un personaggio del passato viene eretto a esempio, ad ammonizione per il presente, tramite l’utilizzo del piedistallo, le cui problematicità, come luogo di potere, erano già chiare a Rosalind Krauss quando scrisse Sculpture in the expanded field.
I monumenti non intenzionali, invece, sono assimilabili alle rovine, come quelle di Napoli descritte da Walter Benjamin e Asja Lacis nel testo del 1925.66Walter Benjamin, Asja Lacis, Napoli porosa, a cura di E. Cicchini, Dante & Descartes, 2020.
Le rovine e i palazzi multistrato, segnati dalle stratificazioni del tempo, sono presentati come spazi per l’improvvisazione, per la realizzazione di un teatro collettivo da parte della cittadinanza.
Profanazioni
La distinzione di Riegl fa pensare che non solo esistano due tipi di memoriali, ma anche due tipi di profanazioni: intenzionali e non intenzionali. Le prime hanno proliferato tra la fine degli anni Novanta e inizio Duemila tra artisti dell’ex blocco sovietico. Per esempio, Anatoly Osmolovsky, che si è concentrato in varie performance sul monumento a Vladimir Mayakovsky, in Russia. In un primo momento, decide, insieme a un gruppo di artisti, di gattonare verso il monumento. Poi, vi si arrampica e lì si accende un sigaro, con vista su Mosca. Un caso italiano è Fellini, che si relaziona con una delle reliquie totalitarie del Bel Paese, l’icona religiosa, e apre la Dolce Vita con una statua del Cristo che sorvola gli outskirts di Roma. E ancora, Theodoros Angelopoulos, che fa traghettare una gigantesca statua di Lenin da un moderno caronte.
Esistono anche, poi, profanazioni intenzionali che hanno voluto la preservazione piuttosto che la distruzione del monumento. Nei paesi della ex Jugoslavia, gli anni Duemila sono stati segnati da pratiche di revisionismo storico (promulgate soprattutto dai partiti di destra) volte a eliminare tutte le idee e le produzioni emancipatorie del periodo socialista. Tra le conseguenze del revisionismo, in Croazia nel 2011 cominciano a essere attaccati i monumenti dedicati ai partigiani croati e alle forze di resistenza antinazista. Tante le distruzioni quante le risposte da parte del mondo dell’arte. Tra queste, i 366 Liberation Rituals di Igor Grubic, dove il protagonista del padiglione croato della Biennale 2019, realizza una serie di interventi micro-politici e di matrice concettuale sul territorio urbano. Tra i Liberation Rituals alcuni interessano i monumenti antinazisti in pericolo, che l’artista protegge e fa uscire dal loro stato di invisibilità, ricoprendoli con sciarpe e fazzoletti rossi.
Anche dal punto di vista curatoriale, è stata tanta l’attenzione dedicata ai monumenti dei partigiani jugoslavi. È il caso del Museum of Contemporary Art Metelkova (Lubiana), che ha accolto, grazie alla ex direttrice Zdenka Badovinac, una sezione dedicata all’arte della resistenza partigiana e un’altra, ancor più radicale, dedicata alla “vita dei monumenti” che pochi tra i detentori del potere in Slovenia avrebbero voluto sopravvivessero.
La prima questione che potrebbe sorgere intorno alle profanazioni intenzionali è, come per ogni processo artistico che nasce quale pratica di resistenza, la sua immediatissima museificazione. Lihi Turjeman, artista di origini israeliane, per la sua prima personale a Milano decide di proporre un punto di vista diverso del simbolo di conquista per eccellenza: il monumento equestre. Lo piega, accavalla e ammassa a terra su una tela che gioca sulla prospettiva e la bidimensionalità. Nel frattempo, sempre a Milano, al MUDEC, la sezione Verso la città multiculturale della collezione permanente espone alcune opere con la volontà di fare i conti con i simboli coloniali nel capoluogo lombardo. Tra queste, Il vecchio e la bambina di Cristina Donati Meyer. L’artista dichiara nello statement che non era necessario imbrattare la statua né deturpare in maniera permanente il monumento: «Dovremmo essere tutti grati al monumento a Montanelli, il quale – fungendo in taluni casi da capro espiatorio – ha consentito a molti italiani di conoscere e fare i conti con un passato orrendo: quello delle guerre e aggressioni coloniali del fascismo». Per cui, decide di agire non direttamente sul monumento pubblico, ma piuttosto nello spazio sicuro della sala espositiva. Con un gioco paradossale di contrari, la statua di Montanelli viene riprodotta in scala 1:1 all’interno del MUDEC, e l’artista vi pone in braccio una bambina in fasce. L’opera mima l’intervento nello spazio pubblico, e più che un gesto sovversivo espone le estreme conseguenze delle costrizioni e della propaganda municipale che permettono la desacralizzazione della figura di Montanelli solo a patto che sia fatta all’interno di uno spazio controllato e finanziato dal Comune di Milano.
Il carnevale di Rabelais e la non intenzionalità come strategia di rifiuto
Le profanazioni non intenzionali sono per natura indefinibili, non hanno medium e non rientrano nell’idea di monumento né in quella di anti-monumento. Ingenue, individuali, continue, avvengono, inconsapevoli, semplicemente vivendo lo spazio pubblico e – perché no – anche quello virtuale.
Già agli albori di Internet, molti teorici affermavano con sicurezza e una buona dose di ironia che un giorno avremmo camminato sulle rovine di una pagina web, cosa che è già accaduta. Ancora più interessante è, però, pensare ai vecchi meme e alle immagini a bassa risoluzione che circolano online come monumenti impossibili da rimuovere.
Hito Steyerl parla a questo proposito di “immagini povere”. Le descrive come rovine fatiscenti che, prese e riciclate un po’ da chiunque, sono state soggette a una serie di “stratificazioni in post-produzione”. Le oppone alle immagini in alta risoluzione, che per la loro “natura HD” risultano facilmente categorizzabili dagli algoritmi e quindi tracciabili e catturabili dal sistema di informazione capitalista.77Hito Steyerl, In difesa delle immagini povere, in Politiche della Memoria. Documentario e archivio, a cura di M. Scotini e E. Galasso, DeriveApprodi, 2014.
Anche sulle immagini povere sono avvenute profanazioni della memoria. Un esempio è il meme Vladimir Lenin Addressing Crowd, che nasce dal riuso di un dipinto di Vladimir Serov, realizzato nel 1947, durante il regime, che vede Lenin rivolto a una folla. Il quadro è un monumento al realismo sovietico ora utilizzato per discutere sulla qualità dei cheeseburger di McDonald’s, in linea con quella sovversione grottesca propria solo della non intenzionalità. Le rovine del web, i piedistalli vuoti ma anche i monumenti pieni hanno sempre questa intrinseca potenzialità di diventare l’oggetto di azioni ironicamente profane e inconsapevoli atti di resistenza.
Una delle prime volte che mi sono avvicinata alla statua di Indro Montanelli con più conoscenza dei fatti storici mi sono trovata di fronte a una di queste profanazioni: un gruppo di signore che faceva aerobica intorno alla statua. Non faccio ironia quando dico che hanno trovato uno dei modi migliori per far esplodere la memoria del luogo. Accerchiando fisicamente Montanelli durante varie serie di squat, hanno dato un nuovo indirizzo a quello spazio segnato dal razzismo di genere della figura che celebra. E se tutti i monumenti problematici diventassero palestre o sale da ballo? E se fosse l’ironia non intenzionale, la noncuranza la chiave del processo di desessualizzazione e decolonizzazione dello spazio urbano?
Questa idea del gioco come profanazione rientra – di nuovo – perfettamente nel testo di Agamben e apre un ventaglio di possibilità su un nuovo culto dei monumenti, che arriva dalla tradizione popolare, carnevalesca e pantagruelica. Un caso è il carnevale di San Pietroburgo, quando i simulacri dei totalitarismi del mondo, da quello socialista alla monarchia britannica, inondano le strade, per cui è facile vedere Elisabetta II che blocca il traffico.88Svetlana Boym, The future of nostalgia, Basic Books, New York, 2001.
Il travestimento goliardico ha una lunga tradizione di resistenza, a partire proprio dalle pratiche di alcuni popoli colonizzati. In Perù, per esempio, durante la colonizzazione spagnola, la tunantada, una danza tradizionale, muta in una pratica di travestimento, in cui lo scopo è quello di imitare e prendere in giro i colonizzatori con costumi e maschere.
«L’orientamento verso il basso è proprio di tutte le forme di allegria festiva e popolare e del realismo grottesco. In basso, alla rovescia, all’incontrario: tale è il movimento che caratterizza tutte queste forme, che fanno precipitare tutto verso il basso, capovolgono, mettono a testa in giù, trasferiscono l’alto al posto del basso, il didietro al posto del davanti, sia sul piano dello spazio che su quello metaforico».99Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979.
L’abbassamento che Michail M. Bachtin attribuisce alle opere di Rabelais somiglia incredibilmente alle pratiche di appropriazione popolare del monumento: squat, gattoni, carnevali e interventi artistici sono tutti accomunati da questa aspirazione eterotopica, di sovvertimento di ciò che esiste, che, nei casi più banali, si sfoga nel gesto di abbassare il monumento stesso, farlo cadere giù. Così come nel ciclo di Gargantua e Pantagruel, la risata assume il ruolo, per dirla con Agamben, di strumento profanatorio dell’improfanabile.1010Giorgio Agamben, Elogio della Profanazione, in Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005, p. 106.
Si ride dell’ascetismo e del dogmatismo medievale, dell’ideologia della punizione e del perdono nella religione cattolica, dell’uso improprio di oggetti e animali, come il papero, con cui Gargantua delucida suo padre sui modi migliori per nettarsi il culo.1111François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, I, 13, 1534, “Come Gargamagna si accorse dell’ingegno meraviglioso di Gargantua dall’invenzione di un nettaculo”.
Penso ai piedistalli che si spogliano della loro gravità storica per diventare palcoscenici di pièce non intenzionali, a monumenti trasformati in “nettaculi”, a Victor Noir cavalcato nel cimitero di Père-Lachaise di Parigi, a un’estetica e un’ontologia camp del monumento. In sostanza, al realismo totalitarista sostituito da un realismo grottesco.
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Alessia Baranello scrive di arte contemporanea, cultural e memory studies. Ha lavorato come mediatrice culturale per diverse istituzioni, tra cui la Triennale di Milano. Si laurea in Economia per Arte, Cultura e Comunicazione alla Bocconi e prosegue i suoi studi in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, Milano.
Aa. Vv. Milano globale. Il mondo visto da qui. MUDEC – Museo delle Culture, catalogo delle opere e guida al percorso, 2021, 24 ORE Cultura srl, Milano.
Aa. Vv., The Missing Planet – Visioni e revisioni dell’era sovietica, 2020, NERO Edizioni.
Agamben, Profanazioni, 2005, Edizioni Nottetempo, Roma.
Akomfrah, Memoria e Morfologie della Differenza, in Politiche della Memoria. Documentario e archivio, a cura di M. Scotini e E. Galasso, 2014, Derive Approdi.
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, 1965.
Badovinac, Comradeship: Curating, Art, and Politics in Post-socialist Europe, 2019, ICI.
Baudrillard, Simulacri e Impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, 2008, Pgreco Edizioni, Milano.
Benjamin, A. Lacis, Napoli porosa, a cura di E. Cicchini, 2020, Dante & Descartes.
Bianchi, I. Scego, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, 2020, Ediesse, Roma.
Bishop, with drawings by Dan Perjovschi, Radical Museology or, What’s ‘Contemporary’ in Museums of Contemporary Art?, 2013, Koening Books, Londra.
Boym, The future of nostalgia, 2001, Basic Books, New York.
Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale,1994, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Lafebvre, The Urban Revolution, trans. Robert Bononno, University of Minnesota Press.
Steyerl, In difesa delle immagini povere, in Politiche della Memoria. Documentario e archivio, a cura di M. Scotini e E. Galasso, 2014, Derive Approdi.
Robert J. C. Young, White Mythologies. Writing History and the West, 1990, 2004, Routledge.
Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeantine alle pietre d’inciampo, 2014, Donzelli Editore, Roma.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.