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Immagini nel campo espanso: intervista ad Andrea Pinotti
Magazine, HYPER – Part II - Maggio 2020
Tempo di lettura: 16 min
Giacomo Mercuriali

Immagini nel campo espanso: intervista ad Andrea Pinotti

L’an-iconologia secondo Andrea Pinotti.

Fotogramma dal film World on a Wire di Rainer Werner Fassbinder, 1973

Nel marzo 2019 Andrea Pinotti, professore di Estetica presso il Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti” dell’Università Statale di Milano, ha conseguito un “ERC Advanced Grant” a sostegno del progetto di ricerca quinquennale AN-ICON – History, Theory and Practices of Environmental Images. Gli ERC sono il massimo finanziamento europeo per la ricerca e permettono a “principal investigators” provenienti dai paesi dell’Unione di creare team interdisciplinari necessari per affrontare lo studio di temi complessi che disegneranno il panorama culturale e scientifico dell’Europa di domani. Pinotti, già noto in Italia per i suoi studi sull’empatia, la teoria dell’immagine e la cultura visuale, si prefigge di fondare un nuovo campo di studi dedicato alle an-icons.


Giacomo Mercuriali: Ciao Andrea, la redazione di KABUL magazine mi ha chiesto di farti qualche domanda sul tuo progetto di ricerca dedicato alle immagini immersive: AN-ICON. History, Theory, and Practices of Environmental Images. Inizierei dalle premesse: un anno fa, al termine di una procedura complessa e altamente competitiva, ti è stato assegnato un ERC Advanced Grant, tra i più prestigiosi e cospicui finanziamenti europei per la ricerca. Puoi spiegarci cosa intendi con la formula “immagini ambientali”?

Robert Barker, Leicester Square Panorama, 1800

Andrea Pinotti: “Immagini ambientali” potrebbe sembrare, a prima vista, un concetto che da un lato richiama la tradizione della land art, della site-specific art o della environmental art sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, dall’altro fa l’occhiolino alla rinnovata sensibilità per le problematiche ecologiche di questi ultimi anni. In realtà il concetto di “immagine ambientale” (con il suo correlato di “ambientalizzazione dell’immagine”) è una nozione storicamente molto più ampia, che idealmente abbraccia una particolare classe di immagini che attraversa l’intera storia della cultura visuale come un processo di lunga durata. Si tratta di un fenomeno che risulta particolarmente visibile se osservato dall’angolo visuale dei contemporanei caschi di realtà virtuale: una volta indossato il visore, perdiamo una libertà di cui forse prima nemmeno ci rendevamo conto di poter godere, la libertà cioè di poter orientare a piacimento il nostro sguardo al di fuori dell’immagine. Per esempio, nel caso di un quadro appeso alla parete di un museo, sull’estintore che vi è appeso di fianco; oppure, nel caso dello schermo cinematografico, sul segnale luminoso che ci indica l’uscita; o ancora, nel caso dello schermo dello smartphone, sulle mie stesse dita che reggono il telefonino. Al contrario, il visore di realtà virtuale ci offre un campo iconico che si sviluppa in continuità a 360°, e non vi è la possibilità di andare “fuori campo”, al punto che il campo iconico finisce per coincidere in tutto e per tutto con il mio campo percettivo, finisce cioè appunto per farsi “ambiente”, un ambiente che possiamo abitare, percorrere e usare come sfondo per le nostre azioni. Quel che mi appare come immagine tende a presentarsi come un oggetto della percezione reale. Cioè non come immagine, ma come “cosa”: si tratta di immagini che per così dire tendono a negare se stesse in quanto immagini. È importante interrogarsi sulla dialettica di questi ambienti, che da un lato ci fanno sentire presenti in uno spazio virtuale e vicini agli oggetti digitali, dall’altro ci isolano paradossalmente da noi stessi, distanziandoci dal nostro stesso corpo: rinserrato nel casco, non riesco a vedermi le mani e i piedi. La pandemia da Covid-19 ci ha resi particolarmente sensibili alla relazione fondamentale vicinanza/distanza, e la proposta, sostenuta da molti, di alleviare il confinamento coatto imposto per motivi di sicurezza epidemiologica con il ricorso ai visori di realtà virtuale deve essere temperata dalla consapevolezza critica di tale dialetticità.

Giacomo Mercuriali: Sicuramente le interazioni virtuali contemporanee, le cui forme diamo ormai per scontate, passano per strutture di mediazione sulle quali si è finora riflettuto in maniera poco sistematica. Da un lato i caschi VR fanno ancora parte di una socialità a venire, dall’altro, per come li introduci, essi sembrano collegarsi direttamente a una serie composta da tecnologie empatiche eterogenee – dal quadro all’iPhone – di cui potrebbero criticare le specificità mediali.

il tratto forse più paradossale di questo tipo di immagini è la loro natura tecnologicamente molto sofisticata.

Andrea Pinotti: È indubbiamente cruciale il confronto tra media diversi considerati nel loro contesto storico-culturale. Se, in un approccio media-archeologico, ci rivolgiamo all’indietro alla storia delle immagini partendo da questa nostra situazione contemporanea, ci rendiamo conto che ogni epoca – a suo modo, e con le tecnologie di volta in volta a disposizione – ha cercato di realizzare questo tipo di immagini ambientali: qualcuno propone audacemente di risalire fino alle grotte paleolitiche (budelli di roccia dipinti in modo da avvolgere gli osservatori). Volendo essere più prudenti, si potrebbe comunque almeno chiamare in causa la pittura illusionistica antica, la tradizione del trompe l’œil, l’invenzione della prospettiva rinascimentale, i vari dispositivi ottici pre-cinematografici (come lo stereoscopio e il panorama) e ovviamente il cinema in 3D, che non è affatto un’invenzione recente, ma nasce con la nascita stessa del film come medium, si potrebbe dire come il suo sogno originario: quello di riprodurre la realtà nella sua totalità. In questa “totalità” sono comprese naturalmente non solo le cose del mondo, ma anche gli altri, cioè i nostri rapporti intersoggettivi: non è un caso che oggi molti di questi ambienti immersivi digitali offrano agli utenti la possibilità di essere rappresentati all’interno dello spazio virtuale da un doppio elettronico, l’avatar, con il quale è possibile interagire con altri avatar in una vera e propria comunità interpersonale: si dischiudono così nuove possibilità per la nostra inclinazione empatica, cioè per la nostra capacità di metterci nei panni degli altri.“…si dischiudono così nuove possibilità per la nostra inclinazione empatica, cioè per la nostra capacità di metterci nei panni degli altri.” Con tutte le sfumature del caso: come anche nelle pratiche relazionali nella vita reale, giocate sulle apparenze sociali, anche nel mondo virtuale gli avatar possono coprire un’ampia gamma di possibilità, che va dall’effetto di rappresentazione “autentica” del Sé fino al mascheramento, alla dissimulazione, all’assunzione di una falsa identità.

Fotogramma con il primo piano di Anna Karina dal film Vivre Sa Vie di Jean-Luc Godard, 1962

Giacomo Mercuriali: Come al solito, in pochi passi riesci a farci viaggiare col pensiero e con la fantasia: delle tante strade che si potrebbero percorrere a partire da queste tue parole, mi piacerebbe imboccare quella che muove dall’evocativo tema del “sogno originario” del cinema. Mi sembra una formula a un tempo cristallina e opaca: leggendola si ha l’impressione di afferrarne il significato, ma non appena si prosegue oltre questo pare abbandonare la nostra presa. È un effetto discorsivo veramente curioso, ai limiti dell’esoterismo, pensi che potremmo categorizzare il «sogno originario» come una di quelle “immagini dialettiche” elaborate da Walter Benjamin?

Andrea Pinotti: La nozione benjaminiana di “immagine dialettica” che richiami mi sembra molto pertinente per accostarsi alle immagini ambientali. Benjamin impiegava questo termine per riferirsi a fenomeni che sembrano capaci di condensare un senso e il suo opposto: la prostituta baudelairiana, al contempo predatrice dei clienti e preda dei poliziotti; ma anche la ghisa, nuovo materiale da costruzione che dissimula il proprio status artificiale e tecnico per presentarsi come fogliame naturale nelle architetture ottocentesche; o ancora la nuova stazione ferroviaria, che si maschera da tradizionale chalet svizzero. Si potrebbe anche ricordare la concezione di immagine simbolica elaborata da Aby Warburg: il serpente come immagine che tiene simbolicamente insieme Laocoonte e Asclepio, la morte e la salvezza, il veleno e la medicina. Le immagini ambientali sembrano voler introdurre nel cuore stesso della nostra esperienza di immagine questa tensione dialettica: sono indubbiamente immagini (cioè icons), che tuttavia cercano di negare (an-) il proprio stesso statuto iconico, presentandosi direttamente come se fossero quella realtà che rappresentano. Di qui la mia proposta di definirle an-icons: pur non amando i trattini – un espediente fin troppo abusato nella terminologia filosofica contemporanea –, mi sono risolto a farvi ricorso proprio per suggerire questo campo di forze tensivo che si istituisce tra un oggetto che è indubbiamente un’immagine e il modo in cui esso si presenta, sforzandosi per così dire di non apparire come tale. Per realizzare questo scopo, le an-icons sfruttano diverse strategie: non solo impiegano quello “scorniciamento” caratteristico degli ambienti a 360°, di cui abbiamo parlato all’inizio, ma anche quel forte effetto di “presenza” che sono in grado di provocare nel fruitore: questo, più che sentirsi di fronte a un’immagine, si avverte come dentro a un ambiente, che gli offre cose da fare e spazi da esplorare. Ma il tratto forse più paradossale di questo tipo di immagini è la loro natura tecnologicamente molto sofisticata, che viene impegnata a ottenere un effetto di realtà e naturalità: si tratta di immagini idealmente “trasparenti”, volte a dissimulare l’opacità del medium e a proporsi come “immediate”, cioè non mediate. Lo capiamo quando confrontiamo un visore di realtà virtuale con una tavola lignea dipinta, una carta fotografica o lo schermo del nostro computer: se in questi ultimi casi possiamo sempre decidere di focalizzare la nostra attenzione ora sull’immagine che appare ora sul supporto che la sostiene (le craquelures del legno, la grana della carta, il vetro dello schermo che riflette il mio stesso volto se posizionato all’angolazione sbagliata), nel caso del visore VR questo doppio movimento non è più possibile: il supporto scompare dietro un’immagine che a sua volta cerca di scomparire dietro la realtà che ci presenta.

Giacomo Mercuriali: Insomma, ti proponi un tour de force di scatole cinesi memoriali alla Christopher Nolan. A proposito, mi viene in mente che, attraverso le immagini oniriche, secondo Benjamin, «ogni epoca sogna la successiva». Progettare una genealogia delle immagini ambientali spingendosi a monte del cinema, risalendo fino alla loro misteriosa preistoria è davvero un’avventura: la prima immagine ha sognato tutte le immagini successive?

Robert Smithson, Towards the Development of a Cinema Cavern, 1971

Andrea Pinotti: La suggestiva proposta di Benjamin sembra proprio confermata, col senno di poi, da una sua stessa visione che non sarebbe eccessivo caratterizzare come “profetica”: negli anni Trenta del secolo scorso Benjamin aveva audacemente caratterizzato le immagini fotografiche e cinematografiche come immagini “tattili”: tali oggetti scalzano il rapporto ottico-auratico che qualificava la relazione tradizionale con statue e dipinti sia perché si fanno letteralmente alla mano, offrendosi alla nostra manipolazione (quando teniamo per esempio in mano le fotografie di una cattedrale, comodamente seduti sulla nostra poltrona, potendoci permettere di non intraprendere il viaggio/pellegrinaggio a Chartres), sia perché soprattutto attraverso il montaggio filmico si scardina il continuum spazio-temporale ottenendo effetti tattili di urto, di choc. Se oggi leggiamo queste pagine benjaminiane in pdf o epub, scorrendole con le dita sul nostro tablet, mentre magari le alterniamo a foto di Atget che richiamiamo da Google Images o sequenze di Ejzenštejn che troviamo su YouTube e facciamo apparire sullo schermo al semplice sfioramento tattile dei link, ci rendiamo conto della potenza di quella preconizzazione. Ormai le giovani generazioni sono “touch native”: per loro l’esperienza d’immagine è una combinazione di audio-visivo e tattile, e la cultura digitale si scopre etimologicamente legata alla radice del “digitus”, del dito. Se in pochi anni ci siamo del tutto assuefatti all’uso dei touch screen, occorre domandarsi che cosa ci accadrebbe se lo standard della nostra esperienza degli schermi diventasse quello dei visori a 360°: dispositivi sempre più economici e leggeri (e magari in un futuro prossimo innervati direttamente nel nostro cervello-corpo, come sembrano “sognare” certi episodi di Black Mirror…). Al contempo, come lo stesso Benjamin ci insegna, gli orizzonti della più moderna tecnologia sono sempre impregnati di fantasmi che risalgono dalle ere della protostoria: lo sguardo in avanti verso la post-storia di un fenomeno deve essere integrato dallo sguardo all’indietro, verso la pre-storia che lo ha reso possibile. Così, gli ambienti immersivi a 360° non cadono dal cielo, ma sono preparati da un lungo cammino, che come accennavo prima può addirittura essere fatto risalire fino alle grotte paleolitiche. È a tal proposito molto significativo che CAVE (il termine inglese per “grotta”) sia stato anche impiegato a partire dai primi anni Novanta per designare i primi spazi immersivi: Cave Automatic Virtual Environments.

Giacomo Mercuriali: Le immagini ambientali derivano dalle più avanzate e complesse tecnologie iconiche, ma al tempo stesso fanno di tutto per presentarsi ai loro spettatori come le “cose” più trasparenti e immediate del mondo. Questa dialettica mi sembra ripetere quella già individuata dal Benjamin lettore di Karl Marx negli appunti stesi in Parigi, capitale del XIX secolo. Tese tra iperrealismo e ipermediazione, simili alle merci in bella mostra nelle vetrine dei passages, oggi, agli spettatori occidentali smagati dagli incanti degli imperi coloniali, il capitale industriale 4.0 sembra proporre nuove, e al tempo stesso antichissime, simulazioni.

Eugène Atget, Passage du Grand-Cerf, 1909

Andrea Pinotti: Quando sostengo che occorre domandarsi che cosa accadrebbe se gli ambienti immersivi virtuali diventassero lo standard della nostra esperienza quotidiana delle immagini, intendo dire che tale domanda deve essere sollevata in vista di un’interrogazione “critica”: non certo nel senso del criticare tali dispositivi come se si trattasse di difendere un vago e generico “umanesimo” dalle prevaricazioni della macchina (questa postura la lascio volentieri ai tecnofobi, che sono solo l’altra faccia, altrettanto ingenua, dei tecnoentusiasti); quanto piuttosto nel senso di un’indagine critica per così dire “kantiana”, intorno alle possibilità e ai limiti di questo medium. Non è certamente da trascurare il fatto che, proprio per la loro tendenza all’“immediatezza”, cioè alla trasparenza, tali dispositivi finiscano per far collassare l’uno sull’altro due atti di coscienza che tradizionalmente la nostra cultura ha sempre cercato di tenere accuratamente separati: la percezione della realtà da un lato, la percezione dell’immagine dall’altro. Se nella prima io afferro le cose “in carne e ossa”, nella seconda io ne afferro le rappresentazioni iconiche. Ora, se tale distinzione viene meno (o almeno, per ora, viene fortemente indebolita) – come è appunto il caso degli ambienti virtuali ai quali accediamo tramite i visori –, si indebolisce conseguentemente anche la consapevolezza della natura artificiale, costruita, mediata di tali oggetti. Ci si presenta così il lato oscuro della trasparenza, un concetto che invece nel dibattito liberal-democratico occidentale (e non solo: pensiamo alla Glasnost’ gorbacioviana) viene perlopiù evocato come un valore positivo della vita politica, e contrapposto all’opacità come sinonimo di corruzione e trame illecite. Una riflessione critica intorno a queste nuove tipologie di immagini deve invece necessariamente metterne in luce l’opacità, cioè il loro carattere mediato e costruito, e le dinamiche di potere e di ideologia che sottendono la loro elaborazione: questo compito è tanto più urgente quanto più potente diventa l’effetto di trasparenza. Anche in questo caso, la prospettiva media-archeologica è fondamentale: è a partire dall’invenzione della fotografia che ha cominciato a invertirsi il rapporto funzionale immagine-realtà: se prima l’immagine era in funzione della realtà che rappresentava, nell’era fotografica e cinematografica la realtà diventa una funzione della sua messa in immagine. In altri termini, ci troviamo spesso a dire: “Certo che questo evento è accaduto, ne abbiamo la fotografia (o il video)”. Si chiede così all’immagine (come aveva capito molto bene già Günther Anders) di certificare il reale, che sembra non avere più da solo la forza di stare sulle proprie gambe e di affermarsi come tale. Oggi, in un’epoca che alcuni definiscono post-fotografica e post-filmica, le possibilità di simulazione offerte dai dispositivi di virtualizzazione del reale (pensiamo al cosiddetto “deep fake”) acuiscono questa condizione a livelli che solo pochi anni fa erano inimmaginabili. È per questi motivi che il gruppo di giovani ricercatori che coordino nel quadro del progetto ERC AN-ICON si impegna non solo in direzione di un’indagine teorica e storica delle an-icons, ma anche di una critica politica e ideologica delle loro applicazioni pratiche.

Giacomo Mercuriali: Direi che il tuo progetto si avvale di tutto il ventaglio di possibilità ermeneutiche dell’estetica filosofica. Il lato dell’aisthesis, intesa come teoria della percezione, sonda le nuove configurazioni dell’immaginazione rese possibili dalle tecnologie contemporanee. Il lato dell’estetica, intesa come teoria dell’arte, studia alcune serie di oggetti e immagini che precedono la nostra epoca, vagliandone le stratigrafie “archeologiche” secondo diverse accezioni che questo termine ha assunto nel corso del Novecento.

Andrea Pinotti: Hai opportunamente ricordato le due direttrici principali in cui si declina storicamente la riflessione estetica: da un lato, e in un senso molto generale, l’indagine del nostro rapporto sensibile al mondo, che passa per la percezione e le esperienze somatomotorie; dall’altro, in un senso più circoscritto, lo studio della nostra relazione con quella particolare classe di oggetti sensibili che chiamiamo opere d’arte. La comprensione degli ambienti immersivi virtuali ci offre l’occasione preziosa di guardare a entrambi questi lati dal punto di vista dell’impatto delle nuove tecnologie sulla dimensione sensoriale, sulla creatività artistica e sulle modalità di fruizione dell’arte. Tra le pratiche senz’altro più stimolanti che riguardano la realtà virtuale quelle artistiche rappresentano infatti un campo affascinante di esplorazione di orizzonti inediti. Nel corso della loro storia millenaria, le arti visive hanno rappresentato per homo sapiens la possibilità di esplicitare una delle sue proprietà fondamentali, quella cioè di essere costitutivamente anche homo pictor che produce immagini. Ora, qual è il senso (se vogliamo anche il vantaggio evolutivo) del fare immagini? E qual è il senso (se vogliamo anche il vantaggio evolutivo) di produrre una particolare classe di immagini che tendono a non presentarsi come tali? Si tratta di domande che assumono un rilievo particolarmente urgente proprio se sollevate a partire dalle esperienze contemporanee degli ambienti immersivi virtuali, che come abbiamo visto ci incoraggiano a guardare all’indietro a tutta la storia dell’arte nel suo complesso per così dire sub specie virtualitatis. In questa prospettiva, è cruciale per la nostra ricerca ricevere il feedback di artisti visivi – cioè produttori di immagini artistiche – che oggi si confrontano con le tecnologie virtuali e con l’ambito delle an-icons.

Enea Le Fons, Casa degli Artisti, 2020

Giacomo Mercuriali: A proposito, AN-ICON ha appena inaugurato una collaborazione “virtuale” con la rinata Casa degli Artisti a Milano, puoi dirci quali sono i vostri progetti futuri a riguardo? Che cosa dobbiamo aspettarci dal vostro incontro con gli artisti contemporanei?

Andrea Pinotti: Il partenariato che il progetto ERC AN-ICON ha recentemente istituito con la neo-risorta Casa degli Artisti di Milano costituisce un’occasione unica per confrontarsi con questo mondo. A fianco degli undici ateliers fisici che la Casa mette a disposizione degli artisti (attraverso inviti e call) per residenze in presenza, si aggiungerà così il “12° Atelier”: uno spazio virtuale, ottenuto attraverso un sofisticato rendering in 3D della Casa stessa, che consentirà ad artisti interessati a sperimentare le tecnologie immersive di intervenire creativamente in un ambiente interamente digitale. Non si tratterà, tuttavia, di contrapporre rigidamente il reale in presenza al virtuale in remoto: proprio perché la Casa è stata scrupolosamente mappata in digitale con fedeltà realistica, si potranno sperimentare anche forme di cross-reality, cioè di intreccio tra il reale fisico e il reale virtuale, in modo da garantire un’ampia gamma di opzioni espressive. Si andrà cioè dall’artista residente in presenza che potrà esplorare sul posto le tecnologie virtuali all’artista nativo digitale che in remoto potrà lavorare nel 12° atelier; e in mezzo a questi due estremi si potranno declinare tutte le possibili combinazioni ibride. Per il nostro progetto sarà un’occasione preziosissima di dialogo con questi speciali operatori dell’immagine; attraverso mostre, visite guidate, seminari e incontri aperti al pubblico (tanto in presenza quanto in remoto), avremo inoltre modo di restituire alla città e al pubblico interessato i frutti del nostro lavoro in comune.

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di Giacomo Mercuriali
  • Giacomo Mercuriali è dottorando in Estetica presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università Statale di Milano. Ha svolto periodi di ricerca presso l’Université Paris Sorbonne-4 e il Centre d'Histoire et de Théorie des Arts de l'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Dal 2015 fa parte del gruppo di ricerca che organizza il Seminario di Filosofia dell'Immagine. Si occupa di cultura visuale, iconologia e digital humanities.