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Imitazione sovversiva
Magazine, PLANARIA - Part II - Giugno 2023
Tempo di lettura: 15 min
Arianna Tremolanti

Imitazione sovversiva

Strategie mimetiche per contrastare l’egemonia.

Jean-Pierre Luminet, “Image of a Spherical Black Hole with Thin Accretion Disk” 1979.

«L’imitazione è […] facoltà spiccatamente sociale dell’individuo e, in epoca contemporanea, si è fatta particolarmente pressante nell’ambito della civiltà dei consumi […] come pure in quello, ben più coercitivo, della relazione coloniale»
(Fracassa, 2020:12). 

Arianna Tremolanti, “Untitled” image generated with AI, 2023.

Partiamo dalla relazione coloniale: autori tra cui Bhabha e Young, a partire dalle teorie lacaniane sul rispecchiamento come base della costruzione dell’identità, individuavano nel passaggio imitativo dal modello (del colonizzatore) alla copia (del subalterno razzializzato) il verificarsi di un ambivalente effetto parodico, fonte – involontaria – di resistenza all’oppressione imperialista. Per Bhabha i nativi, sollecitati dai discorsi coloniali ad assumere comportamenti e credenze dei colonizzatori, danno luogo a fenomeni culturali di sincretismo che si rivelano però copie peculiari rispetto all’originale. Dall’imitazione scaturisce cioè uno slittamento, una differenza, con l’effetto di disgregare e moltiplicare in forme miste la presunta unità dell’identità occidentale

«L’imitazione implica […] inevitabili processi di contro-dominio prodotti dal mimare l’operazione di dominio stessa, con il risultato che i confini tra le identità dei colonizzatori e dei colonizzati vengono paradossalmente cancellati» (Young, 1990:148). 

Se ne trae così quello che per Bhabha è tra i punti più deboli del discorso11Si legga “discorso” come per gli autori citati e attraverso Foucault: regime discorsivo produttore e riproduttore di oppressione e dominio, così a livello di rappresentazione come in senso materiale.
coloniale che contiene già in sé i germi della propria distruzione. Se «alla base del discorso razzista del colonialismo c’è il problema dell’origine dell’identità, […] il divario tra trasmissione e ricezione nell’interpretazione dei nativi del modello occidentale segna la fallibilità di [quel] discorso e quindi il sito in cui emergono con chiarezza le dinamiche di resistenza […] nei confronti del potere coloniale» (Mellino, 2005:75).

Ma è certamente nel campo letterario che si producono le strategie più opportunamente architettate e consapevoli che sfruttano l’effetto di straniamento di un’imitazione costruita per stereotipi: parodia, ribaltamento, metafore, iperboli e altre figure retoriche vengono recepite per un loro “plusvalore eversivo” veicolato dal riso, diventando poi fondamento di interi generi, dalla commedia alla satira, al pastiche, all’antinarrazione, e l’eccedenza della mimesi viene così messa a sistema come strategia stilistica in grado di opporsi, più o meno programmaticamente, a quanto invece del modello imitato vuole essere considerato lo stato incontrovertibile, naturale, delle cose.

È a partire dal Gargantua e Pantagruele di Rabelais che il Michail Bachtin della proverbiale teoresi del carnevalesco scommette sulla vitalità dell’effetto eversivo del comico e del riso: con radici che affondano negli abissi del folklore primitivo, si istituisce poi in un genere codificato nella civiltà ellenistica, sopravvive al Medioevo cristiano e alle monarchie assolute continuando a influenzare le opere di opposizione più aperte all’influsso carnevalizzante. Il principio carnevalesco opera cioè per Bachtin un rinnovamento di senso e di segno invertiti, ammette una complessiva reversibilità delle logiche, dei valori e dei codici, quasi sempre nel segno di una desacralizzazione. Tutto il mondo della farsa, della satira, e del carnevalesco come genere, 

«nel suo insieme e in ogni dettaglio è diretto verso l’inferno, corporeo e terrestre. […] In basso, alla rovescia, all’incontrario: tale è il movimento che caratterizza tutte queste forme […] sia sul piano dello spazio reale che su quello metaforico […]. Tutte le cose sacre e alte sono reinterpretate sul piano del “basso” materiale e corporeo, o messe in correlazione e mescolate alle immagini di questo “basso”». (Bachtin, 1979:407).

Si tornerà più avanti sulla specificità di certi oggetti o luoghi che sono costitutivi, per Bachtin, del canone corporeo comico-grottesco per la loro capacità di veicolare un invertimento rivoluzionario: i luoghi di espulsione del corpo dal corpo, tutto ciò grazie a cui il corpo può uscire dai suoi confini ed eliminarsi. Teniamo presente quindi, tra i vari, l’ano.

Proseguendo ora nel considerare l’imitazione un dispositivo della sovversione, sarà utile specificare alcune conseguenze che deriviamo dalla premessa che nel campo letterario e poi nelle arti visive, da sempre legate a un’angoscia mimetica fino almeno alla modernità romantica, le strategie imitative si attuano su un piano estetico, formale, e quanto lo scarto della stessa imitazione tende invece all’essere del modello. E consideriamo anche che, in questa dialettica, l’effetto di straniamento deve avere per suo oggetto un certo status quo, un regime di dominio, una struttura che si sia posta come incontrovertibile e, per questo, suscettibile a ogni forma rappresentativa di ribaltamento: di poter vedere la propria immagine spogliata dal naturalismo attraverso cui si presenta, e dove si scopre piuttosto come una forma ottenuta artificialmente, come un effetto. Qualcosa di simile a quanto Barthes individuava nella natura del tutto artificiale del testo realistico, frutto di convenzioni stilistiche e linguistiche che non riproduce la realtà, ma produce un «effetto di realtà» (Barthes, 1953:48).

Trasversalmente alle discipline, dagli studi postcoloniali alle teorie della letteratura alla psicoanalisi, ci poniamo così in un orizzonte critico secondo cui le strutture di dominio si realizzano (acquisiscono naturalità) non solo in una dimensione pratico-materiale (sfruttamento, violenza, oppressione militare, economica) ma anche in senso simbolico o «testuale» (Mellino, 2005:71), ovvero secondo il discorso dell’altro: sistemi di enunciati, immagini e metafore tramutati in significati sono esperiti dagli individui come veri e propri regimi di verità, pur trattandosi, come si è detto, di effetti di rappresentazione arbitrari. 

Cagnaccio di San Pietro, “Dopo l’orgia”, 1928.

È ancora nell’analisi del regime coloniale che più è stato messo in evidenza quanto l’esercizio e lo stabilimento del dominio, nella sua forma di produzione e distruzione di identità, si ponga a partire da fenomeni visivi, ovvero non tanto, o non solo, rispetto alla nozione di classe, quanto su quella di razza. Nel contesto coloniale, la linea demarcatoria tra dominatore e subalterno coincide con quella razziale; è cioè l’appartenenza etnica a determinare la posizione dei soggetti nelle gerarchie del sistema economico mondiale: in questo senso «si è ricchi perché bianchi […] non sono né le officine né le proprietà terriere, né il conto in banca a caratterizzare in primo luogo la classe dirigente. La specie dirigente è innanzitutto quella che viene da fuori» (Fanon, 1961:7). Ecco quindi la centralità delle rappresentazioni, delle immagini e degli stereotipi culturali: la negritudine come «maledizione del corpo» scagliata nell’immediatezza del contatto visivo (cfr. Fanon, 1952, cap. V).

Aggiungiamo un passaggio: che il rovesciamento sovversivo e antidogmatico del dispositivo del comico, scaturito da una mimesi eccedente, si dispiega come critica parodica dell’ideologia, ma anche come strategia di “derealizzazione” finalizzata ad allontanare un’esperienza vissuta come trauma. In una grottesca logica della reversibilità, se per Bhabha e Said il colonizzatore costruisce lo stereotipo del nativo per suturare la ferita provocata dal trauma di un’identità infondata (ovvero quell’identità che l’Occidente possiede solo per opposizione a un Oriente), la stessa stereotipizzazione è quanto il soggetto colonizzato recepisce durante l’imitazione – imposta – del modello del colonizzatore, replicando, come si diceva, copie imperfette, frazionate, parodiche, dell’identità occidentale.22Ancora un accostamento al comico rabelaisiano potrebbe qui farci pensare al ruolo della “paura cosmica”, quella paura esistenziale insita nell’umanità intera, «usata da tutti i sistemi religiosi con lo scopo di opprimere l’uomo e la sua coscienza. […] Nel campo dell’arte figurativa la paura cosmica (come qualsiasi paura) è vinta dal riso» (Bachtin, 1979:367).
 

Tutte queste premesse delineano un andamento per cui l’imitazione nelle sue manifestazioni estetiche, politiche e psicologiche, si muove tra un “originale” presentato come una struttura di potere dal volto realista e con pretese di essenzialità, e una copia ottenuta per mezzo dello scarto di una mimesi che rivela, rende visibile, la natura nascosta, artificiale perché ideologica, infondata perché storica, del suo modello. 

Un ulteriore dispiegamento dell’uso dell’imitazione trasgressiva ci riporta nelle arti visive,  attraverso l’analisi che Slavoj Žižek conduce nell’articolo Why Laibach and NSK not fascists? (1993): un caso interessante perché, poste le premesse dell’eccedenza delegittimante ottenuta con l’imitazione, si esclude qui ogni dimensione ludica o satirica, ciò che servirebbe a marcare l’esistenza di uno spazio che non è complice delle forme di potere coinvolte. «Parody and satire thus work by expanding or enlarging this social distance as a basis for critique, often times to quite useful effect» (Kenny, 2009). Nel caso emblematico dei Laibach, frangia musicale del collettivo artistico Newe Slowenische Kunst, il sabotaggio all’ideologia del realismo sovietico, sempre operato in senso semiotico, si poneva tramite l’uso di un’estetica della conferma (subversive affirmation), in stile totalitario-nazionalista. Non si trattava però di un’imitazione ironica o macchiettistica degli apparati di quella che era stata la Jugoslavia di Tito, ma piuttosto di una identificazione amplificata (overidentification) con ciò che Žižek definisce «l’osceno super- io» dello Stato, al fine di mettere in crisi, per lo spettatore, ogni possibilità di transfert con quello. Le tattiche di overidentification funzionano quindi precisamente nell’adottare le strutture e il linguaggio del sistema dominante, ma più seriamente di quanto faccia il sistema stesso: «He who has material power, has spiritual power, and all art is subject to political manipulation, except that which speaks the language of this same manipulation» (Laibach, 1982, cit. in Djuric and Suvakovic, 2003:574). Sulle strategie di overidentificazione leggiamo dal gruppo di ricerca BAVO: 

«Instead of fleeing from the suffocating closure of the system, one is now incited to fully immerse oneself in it, even contributing to the closure. To choose the worst option, in other words, means no longer trying to make the best of the current order, but precisely to make the worst of it, to turn it into the worst possible version of itself. It would thus entail a refusal of the current blackmail in which artists are offered all kinds of opportunities to make a difference, on the condition that they give up on their desire for radical change». (BAVO, 2007 p. 28). 

L’overidentification funzionerebbe anche per opposizione a quella presa di distanza cinica che offre all’inverso, per Jeffrey Goldfarb (1991), una sorta di legittimazione dei regimi totalitari tramite il disconoscimento, la distanza stessa. Ancora nel testo del 1993, Žižek riportava come la reazione della sinistra slovena al lavoro dei Laibach fosse stata inizialmente quella di vedervi una satira ironica dei rituali totalitari, seguita poi da una spiacevole ambiguità nel non comprendere se invece facessero sul serio. Ma per l’autore è proprio il contesto in cui l’opposizione si muove attraverso la presa di distanza a fornire la chiave di lettura dell’overidentification:

«What if this distance, far from posing any threat to the system, designates the supreme form of conformism, since the normal function of the system requires cynical distance? In this sense the strategy of Laibach appears in a new light: it ‘frustrates’ the system (the ruling ideology) precisely insofar as it is not its ironic imitation, but overidentification with it – by bringing to light the obscene superego underside of the system, overidentification suspends its efficiency». (Žižek, 1993).

In conclusione, affinché l’affermazione sovversiva sia efficace, prosegue Žižek, il suo indirizzo deve essere anonimo anziché mirato: se ci si può appropriare dei modi e degli apparati di un’astratta ideologia dominante, che le ripete tutte grazie all’individuazione di tratti stereotipici, svaniscono automaticamente l’esclusività e la sacralità di ciascuna. È chiaro a questo punto che anche la strategia dell’overidentification, la produzione di iper-copie, è un’operazione mimetica che si gioca nel campo dei segni, e funziona come una forma di analisi critica in grado di dissezionare, smembrare l’assoluto ideologico nei suoi elementi minimi, i motivi estetici e linguistici, con lo scopo di appropriarsene, quindi, di ottenere un resoconto sulla struttura formale di tutta l’ideologia aprendola a una condizione generale di reiterabilità e citabilità (cfr. Derrida, 1998). 

Che cosa succede, però, in un contesto storico che con Fisher chiamiamo di “realismo capitalista”, che si presenta come una realtà che si assume il compito di scudo demistificatorio contro ogni falso ideale e credenza, seduzione o fanatismo? Solo una prassi operativa post-ideologica, un fatto naturale, senza limiti geografici né culturali, lo scheletro del mondo. In questo caso, il cuore ideologico, che per Fisher pure c’è, sembrerebbe inattaccabile data l’assenza di una struttura assoluta visibile. In termini materiali, attraverso un sistema di mercato dell’esperienza e della personalizzazione, questa si è invece distribuita, impersonata o secolarizzata nei singoli membri del corpo sociale. Come in un movimento di trascendenza invertita, a ciascuno per sé sembra ora appartenere lo statuto di autore, creatore, padrone del proprio destino e della costruzione della propria identità. Qui, tanto la mimesi parodica, quanto l’iper-copia di Žižek non troverebbero alcun Grande Altro verso cui rivoltare il proprio spettro ideologico. C’è però un’altra figura che può considerarsi un derivato dell’imitazione, e che prendiamo in prestito dal testo Cloning Terror. The War of Images, 9/11 to the Present (2011) di Thomas Mitchell, che è il clone. Mitchell ci suggerisce che la copia:

«Risveglia le antiche ansie in tempi recenti trovando una nuova possibilità nel processo di clonazione biologica. La clonazione è diventata una metafora potente ma anche una realtà biologica che ha profonde implicazioni etiche e politiche. Oggi infatti, la possibilità della clonazione umana è a portata di mano, e ha risvegliato molti dei tradizionali tabù sulla creazione incontrollata della vita» (Mitchell, 2017:77). 

E poi:

«Il clone, in quanto simulacro biologico, interpreta l’omofobia, mentre evoca lo spettro della riproduzione senza differenza sessuale» (ivi). 

Le condizioni di citabilità e infinita riproducibilità artificiale della vita umana suggeriscono un’ipotesi di dissoluzione del substrato ideologico del realismo capitalista nella forma della clonazione come replicazione dell’irriproducibile, ovvero: disfacimento dell’unità e sacralità questa volta, appunto, dell’io, di un mito dell’individualità, di quell’essenza originale e unica che deve essere il Soggetto occidentale contemporaneo.

Ancora per Mitchell, il clone trova un candidato particolarmente adatto alla rappresentazione nell’alterità razziale di cui infatti è tipico dire “sono tutti uguali”, e ancora di più nella figura del terrorista, corpo senza specifica identità e soggettività, per questo pronto e naturalmente portato all’autodistruzione; eserciti di corpi tutti uguali, senza nomi, infinitamente sostituibili e sacrificabili. È a questo punto che il soggetto omosessuale rientra in scena come altra interpretazione (e rappresentazione) del clone, ma non, come suggerisce Mitchell, in virtù dello spettro della riproduzione senza differenza sessuale, in linea con la considerazione di Puar relativa alla distribuzione di diritti civili e sociali a coppie omosessuali come una delle strategie di neutralizzazione tramite disciplinamento del diverso all’interno dello stato neoliberale.33Si fa qui riferimento al concetto di ‘omonazionalismo’  come riconciliazione e neutralizzazione dell’identità politica delle minoranze e delle comunità oppresse da parte delle strutture di potere dello Stato nazionale neoliberista. Cfr. Puar J (2007) Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times. Durham: Duke University Press”.
 

Il terrore espresso nei confronti dell’autodistruzione del Sé, rappresentata dal suicidio del clone-terrorista, assomiglia invece a quel suicidio simbolico della soggettività che Leo Bersani (1996) individuava nell’insensatezza del sesso in quanto sesso di cui i «gay out law», i froci, sono l’incarnazione. L’espressione cioè di un sesso che non trova il suo senso né nella riproduzione, né nel godimento, né nell’amore. Un sesso sterile e improduttivo. Si deve partire dalla definizione di “pulsione” (Trieb) che Freud utilizza per individuare nel sesso uno spazio ibrido di fisico e psichico che sprigiona una spinta che non è istintuale ma è perversa, che conduce verso un’eccitazione che non è piacevole né conservativa ma è dissipativa, una dimensione insensata e oscura, al di là del principio di piacere. E così per Lacan, la pulsione spinge il soggetto verso un godimento che sospende l’altro e insieme sospende il Sé, e risucchia il soggetto in una dimensione diversa dal simbolico, dove non ci sono più né oggetti né soggetti, non c’è più l’io ma c’è la dissoluzione dell’io. È quell’esperienza del sesso che destituisce il soggetto e lo spegne, come un interruttore del Sé (Cfr. Bernini, 2022). 

In questi eccessi dissipativi del godimento scompare il Soggetto tradizionale della filosofia che è anche il soggetto dell’Occidente: maschio, assertivo, padrone di sé e sovrano su sé e sul mondo. Un soggetto virile e pieno di identità che non riesce a sostenere la propria scomparsa e quindi la nega. E se il simbolo di questo sesso senza Sé e senza senso è l’orifizio anale, che per questo Bernini richiama nella metafora del buco nero (ibid.), è perché, tornando a Freud, l’ano è la sede di tutto ciò che deve essere espulso per rendere possibile la vita civile, associata, del soggetto occidentale. Il divieto di trarre piacere dall’attività anale e dai suoi prodotti è, per il piccolo umano, la prima esperienza della distinzione tra la propria entità e il mondo esterno che limita i suoi moti pulsionali, la prima negazione del senso e del Sé che gli è richiesta dal mondo sociale, e che gli suggerisce che non si può essere per intero, ma solo dividendosi da qualcosa che è il sessuale (anale). 

Jonathan Colombo, “Untitled”, analogic photo, 1988.

È così che è possibile tornare al “corpo grottesco” di Rabelais attraverso l’analisi di Bachtin, un corpo non unitario e costituito di elementi abbassati sul piano simbolico; il campanile che diventa fallo, fiumi di urina, la bocca spalancata che inghiotte, il ventre smisurato, il naso e poi, naturalmente “il deretano” (Bachtin, 1979:347). Sono elementi del corpo che, resi esagerati e grotteschi da un’iperbolizzazione, possono persino separarsi dal corpo intero, avere una vita indipendente e soppiantare le restanti parti. Fondamentale inoltre che si tratti di protuberanze o cavità, quei luoghi cioè in cui vengono scavalcati i confini tra due corpi e tra il corpo e il mondo: i bisogni naturali e le sue escrezioni, l’accoppiamento, la gravidanza e la morte. Così la logica artistica dell’immagine grottesca si fissa soltanto sulle sporgenze e sugli orifizi, mentre ignora la superficie chiusa, uniforme e cieca del corpo che lo chiude e lo delimita come se fosse un fenomeno isolato e determinato. Il corpo grottesco sfida e ribalta così la massa del corpo piatto e rigorosamente delimitato, che è «frontiera di un’individualità chiusa, che non si mescola con gli altri corpi e con il mondo» (ivi:350). Quel corpo canonico basta a sé stesso e parla solo per sé stesso; Ma, conclude Bachtin citando Montaigne: 

«Che cosa ha mai fatto all’uomo l’atto sessuale, così naturale, necessario e legittimo perché egli stesso non osi più parlarne se non con vergogna e per escluderlo dai discorsi seri e ponderati? Pronunciamo coraggiosamente: uccidere, rubare, tradire e perché quella cosa si pronuncerebbe soltanto tra i denti?» (Montaigne: Essais, III, V.).

Rispondiamo ancora con Bersani che questo sesso senza senso e senza Sé può restituire un modello che rende manifesto il valore inestimabile delle relazioni di stessità, delle relazioni-homo, sottraendo i soggetti a quello statuto di individualità che costituisce la condizione di ogni disciplinamento. «Un desiderio privo di soggetto sfugge infatti alla presa di qualsiasi processo regolativo» (Bernini, 2013:69).

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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)

di Arianna Tremolanti
  • Arianna Tremolanti è una curatrice indipendente. Laureata in lettere moderne all’università Roma Tre. La sua ricerca curatoriale si rivolge all’intersezione tra testo visivo e letterario, tra narrazione e immagine, attraverso un approccio teorico e critico di tipo comparatista. Curatrice e direttrice artistica di Uva artist-in-residence; ha pubblicato articoli e saggi per Panteon Magazine; InsideArt Magazine; Hotpotatoes; Juliet Art Magazine; Artribune; Google art and culture; ha curato le mostre collettive: Mal D’Uve (Nizza Monferrato, 2022); Scoppio III (Terni, 2022); Lunatika (Ex Mattatoio, Roma, 2022); Progetto Ephemera (Viafarini, Milano, 2021). Assistente di ricerca per il volume «Paola Ugolini, Artiste e femminismo in Italia. Per una rilettura non egemone della storia dell'arte, Marinotti ed., 2022». Membro di giuria giovani per Filmmaker Festival (ed. 2021). Assistente registrar e curatrice per la mostra IO DICO IO alla Galleria nazionale d’arte moderna (Roma, 2020-2021).
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