Che peso ha, nel mondo contemporaneo, interrogarsi sull’idea di preistoria? Mentre la maggior parte dell’umanità vive l’iperstoria (Floridi, 2014), la storia delle società fondate sull’accumulo di materiale informativo extragenetico, qual è il senso di continuare a rintracciare il vuoto cognitivo della vita umana non scritta? Qual è il valore culturale dei segni che usiamo per riempire quel vuoto, e in che rapporto mediato si trovano con i loro referenti inconoscibili?
Secondo Colin Renfrew (2011), l’archeologia può essere intesa come luogo di connessione tra geologia e storia. Dal primo incontro tra questi due ambiti disciplinari si generò l’idea di preistoria. Si scoprì così la profondità del tempo, e un modo di vedere la Terra fu tradotto in un modo di vedere la vita umana.
L’uomo sente il bisogno di spazializzare l’idea di sé stesso, producendosi in affascinate proiezioni nell’altrove, o trincerandosi in un interno che annette il suo corpo a quello della sua comunità. In questa altalena identitaria, la ricerca e il sapere si appoggiano sulle rappresentazioni visuali, oggi ancora più ramificate dai formati digitali. Il sapere si rende visuale e il visuale delinea i confini del sapere: cosa hanno in comune l’arte e l’archeologia preistorica, se non il loro modo di “investigare l’invisibile” (Gifford-Gonzalez, 1993)?
Visualizzare l’archeologia
L’apparizione della “Visual Culture” si lega al cambiamento storico dell’importanza della visione, come alla continua riconcettualizzazione del visivo e di ciò che è stato chiamato, con un altro neologismo, “visualità”. Jonathan Beller, autore della voce “Visual Culture” inserita nel New Dictionary of the History of Ideas, registra che la prima apparizione della formula risale al 1972:11http://bit.ly/visual-culture.
a usarla fu Svetlana Alpers, storica dell’arte statunitense, nella sua proposta di un approccio alla pittura in cui le singole opere fossero considerate come inserite e prodotte da un organismo culturale complessivo. Al fine di comprenderne il funzionamento sistemico, ogni singolo testo visuale andrebbe considerato in relazione ai mezzi e agli strumenti dell’epoca produttrice e del contesto storico-sociale. Questi sono sia strumenti fisici che griglie concettuali in grado di stabilizzare l’episteme di un’epoca, e di funzionare come regolatori dello sguardo e dei processi di produzione.22Cristina Demaria, Documentary Turn, «Studi Culturali», anno VIII, n. 2, agosto 2011.
Oggi come oggi, l’espressione denota al contempo una componente specifica della cultura, così come un insieme di pratiche visive e anche, nell’ultimo decennio, un ambito di studio accademico. Prima di questa formulazione, l’interesse alla questione della visione si definiva già a partire dagli anni ’50, in particolare nell’ambito dei cultural studies inglesi. Iniziò a diffondersi un’idea nuova del ruolo della percezione visiva, in una società sempre più saturata da tecnologie di comunicazione, che influiscono sul ruolo delle immagini nella costruzione delle soggettività. Emersero quindi gli interrogativi riguardo lo statuto delle immagini e il loro rapporto con il “reale”, che posero sotto una luce nuova il modo umano di conoscere e di costruire sé stesso in relazione al mondo.
A partire dalla seconda metà del Novecento, un percorso di riflessione sull’autorappresentazione e sul confronto tra immagini interessa tutte le scienze umane, con il visual turn che si dirama nelle varie sfere della conoscenza. Nasce33http://bit.ly/historialaudens-visual-history.
anche la Visual History, che nella definizione di Gerhard Paul, autore della relativa voce nella Docupedia-Zeitgeschichte,44Docupedia – Storia Contemporanea, l’enciclopedia open access del Centro per la Ricerca di Storia Contemporanea di Potsdam: https://docupedia.de/zg/Visual_History_(english_version).
ha lo scopo di favorire la comprensione delle immagini al di là del loro valore pittorico, concependole come mezzo e come atto espressivo dotato di un’estetica autonoma e in grado di condizionare la lettura del mondo e di plasmare modelli percettivi. La considerazione delle immagini serve a interpretare il rapporto tra i soggetti e la loro realtà sociale e politica, sviscerando i modi in cui le immagini riescono a generare la propria realtà.
Più o meno contemporaneamente, l’apparizione in archeologia di nuove tecniche di misurazione e rappresentazione causavano una sostanziale riconcettualizzazione del metodo e della storiografia, in quella che fu una vera e propria rivoluzione epistemologica. Tra il 1960 e il 1970, matura l’esigenza di porre i propri risultati sotto una nuova luce critica, proiettata dallo sconvolgimento indotto nella disciplina della tecnica di datazione radiometrica dei primi anni ’50. In particolare, la datazione al radiocarbonio, «il dono più importante fatto all’archeologia dalle scienze naturali»,55Renfrew, 2007: 54.
rese «possibile l’elaborazione di una cronologia preistorica per ogni area geografica del mondo» e portò «all’emersione di una nuova preistoria del mondo», in cui la profondità della storia di ogni regione veniva valutata in maniera autonoma, «a prescindere da ogni congettura archeologica riguardo a date o periodi».
Tra i maggiori risvolti di questa rivoluzione si ebbe l’individuazione di una scala positiva e condivisa che rendeva possibile la nascita di un metodo archeologico scientifico.66Renfrew, 2007: 45-57.
Segno della profondità del cambiamento fu l’abbandono del parametro temporale per eccellenza: l’avanti Cristo venne scalzato dal nuovo Before Present, in cui il presente di riferimento era proprio l’anno di introduzione della misurazione al radiocarbonio, in un cambio di rotta che esplicitava le nuove istanze scientifiche pulsanti nella misurazione del tempo.77https://www.radiocarbon.com/italiano/archeologia.htm.
Si stabiliva così un nuovo presente condiviso per le scienze geologiche e archeologiche in grado di cambiare per sempre la cognizione della profondità storica.
La spazialità del tempo
Anche l’idea di preistoria nasce, abbastanza di recente, da uno specifico stadio dell’evoluzione della cultura occidentale. Immaginare una storia prima della storia richiedeva uno sforzo cognitivo cospicuo, e a creare il terreno adatto per un simile cambiamento fu la più radicale delle rivoluzioni scientifiche, quella copernicana.
Durante l’Illuminismo cambiarono le relazioni tra soggetto e grandezze fisiche. Prima di allora, nel mondo occidentale e cristiano, il fine della ricerca archeologica era quello di trovare riscontro a quanto sostenuto nella Bibbia. Nel 1660, l’Arcivescovo Ussher aveva contato tutte le generazioni di figli di Dio menzionate nel vecchio testamento e aveva così stabilito che la creazione della Terra coincideva con la nascita del primo uomo, nel 4004 a.C.88Simili cosmogonie, concettualizzate nella forma di una creazione primigenia, attribuita a una forza che le religioni monoteistiche riconoscono in Dio, hanno dominato fino al XVIII secolo. Tale concezione è infinitamente lontana dall’idea moderna di tempo: fu necessaria una rivoluzione, ovvero una sovversione completa e definitiva dell’ordinamento culturale, per arrivare, nel 1797, al punto in cui John Frere scrisse al segretario della Society of Antiquaries di Londra, a proposito di alcuni attrezzi in selce rinvenuti a 4 metri di profondità nel suolo del Suffolk, che poteva trattarsi di “armi” attribuibili «a un periodo davvero molto remoto, persino al di là del mondo presente».
Dopo la rivoluzione copernicana, nella metà del XIX secolo, si elaborò un metodo sistematico di condurre le ricerche, che portò all’emersione di nuove tracce dell’esistenza di alfabeti originari. La scrittura cuneiforme costrinse all’interpretazione di una diversa concezione dello spazio e di diversi modi di abitarne le misure. Si delinearono modi alternativi in cui i corpi si distribuiscono nello spazio e si alternano nel tempo.
Si materializzava così l’impressione che per conoscere le misure della storia occorresse inabissarsi nella profondità del suolo. Negli anni a venire, l’idea di preistoria fu esplorata e dettagliata grazie alla sofisticazione della lettura dello spazio“…l’idea di preistoria fu esplorata e dettagliata grazie alla sofisticazione della lettura dello spazio”. Gli studi geologici portarono l’uomo a sviscerare il suolo e a vedere la crosta terrestre come luogo di iscrizione delle ere: lo spazio, le vallate, i fiumi, erano le nuove tracce e confini del tempo. Dall’incontro della storia con lo studio della Terra, emerse l’approccio “gradualista”. Lo spazio poteva essere visto in un modo nuovo: non più frutto di un principio organizzativo, ma traccia del susseguirsi degli eventi, impronta del tempo sulla materia.99Renfrew, 2007: 10.
L’uomo iniziava a ridisegnare la sua posizione nell’insieme di relazioni del mondo: forte del suo vantaggio cognitivo, aveva il compito di fare di sé stesso la divinità che credeva a capo dell’esistente.
La preistoria come rienunciazione dello spazio
Ancora nel XX secolo, l’uomo si districa tra le incombenze, le misurazioni, le rilevazioni e gli errori che competono a tutte le divinità minori. Nell’introduzione al suo The Ancient Mind: Elements of Cognitive Archaeology (1994), l’archeologo britannico Colin Renfrew ricostruisce le mosse originarie del ripiegamento metariflessivo che seguì alla rivoluzione della datazione al radiocarbonio. Con la “nuova archeologia” (1960-1970), si arrivò all’acquisizione di una nuova acuta consapevolezza. Si ragionò allora sull’incertezza e sulla scarsa fondatezza delle ricostruzioni degli asset culturali di antiche società. Si questionarono numerosi scritti riguardo lo sviluppo e la diffusione di pensieri, credenze, religioni e arte nelle comunità preistoriche, che in gran numero e con una certa libertà erano stati proposti dalle precedenti generazioni di archeologi. Era necessario riconsiderare le rappresentazioni, i mezzi e le griglie culturali implicati in tali supposizioni: andava svelato il processo di sedimentazione delle conoscenze, inoculate nei diversi sistemi di trasmissione dell’informazione, desumendo quegli abiti interpretativi che sono poi le stesse azioni collocate nel mondo e nello spazio, capaci di insistere sulla dimensione sociale e politica.
L’archeologa Diane Gifford-Gonzalez, nel suo saggio del 1993 dedicato all’analisi dei diorami della vita preistorica,1010Gifford-Gonzalez, You Can Hide, But You Can’t Run: Representations of Women’s Work in Illustrations of Palaeolithic Life, «Visual Anthropology Review», 1993.
sostiene la tesi di Martin Rudwick (1992)1111Scenes from Deep Time. Early Pictorial Representation Of The Prehistoric World, The University of Chicago Press, 1992.
riguardo la possibilità delle rappresentazioni artistiche di insistere in modo ricorsivo nelle conoscenze specialistiche, influenzando le prospettive degli studiosi sul passato, e quindi indirizzando il corso della ricerca scientifica. Acquisita consapevolezza sul loro potere, può riconoscersi la collocazione di idee scientifiche in contesti di fantasia, riconducendo queste rappresentazioni al loro genere proprio, la science fiction.
Etichettare così queste immagini non significa declassarle o delegittimarle. Secondo Gifford-Gonzalez, esiste un parallelo filosofico tra la pratica illustrativa e quella archeologica, intesa come “investigazione dell’invisibile”. Rilevarlo permette di vedere l’azione di scienziati e di artisti simile nei punti di delineazione dei rispettivi risultati. Il movimento comune è quello che unisce i punti, le singolarità assunte come dati, rendendo in forma narrativa argomentazioni e ipotesi legittimate da un dato criterio di plausibilità.
Con la progressiva focalizzazione sulle questioni rappresentative, aumenta l’attenzione1212Julie Solometo, Joshua Moss, Picturing the Past: Gender in National Geographic Reconstructions of Prehistoric Life, «American Antiquity», 2013.
per quello che, secondo Gifford-Gonzalez, è il rapporto di mutua influenza tra arte e scienza. Daniel Tietzsch-Tyler, archeologo e illustratore con un’esperienza ventennale nel campo delle ricostruzioni archeologiche, chiarisce1313Tesi di dottorato di Daniel Tietzsch-Tyler: Reconstruction Drawing and its Value to Archaeological Inquiry, with an Irish Case Study, 2009.
il doppio ruolo ascrivibile a tali illustrazioni: da un lato quello di agganciare l’attenzione di un pubblico generalista e di facilitare i processi cognitivi, dall’altro quello di guidare e stimolare il dibattito scientifico. Altri autori ridimensionano il potenziale delle illustrazioni di incidere sul sapere scientifico. Barker1414Philip Barker, Techniques in Archaeological Excavation, London: Routledge, 1993: 259.
riconosce il loro potere di evocare alterità di tempo e spazio ma, poiché incapaci di risolvere problemi strutturali, rimarrebbero adatte solo al consumo del pubblico. Il testo visivo ha tra le sue maglie tratti che lo rendono idoneo a necessità specifiche: in genere, gli archeologi necessitano di disegni più tecnici, essenziali, ordinati e privi di contesto, con pochi o nessun “volo di fantasia impreciso”.1515Ibid.
Al contrario, il pubblico e gli operatori dei beni culturali tendono a prediligere un quadro più ampio e completo. Vogliono immagini attraverso cui esplorare l’intero contesto dell’archeologia, in modo da riuscire a immaginare l’ambientazione originale di un sito nel suo contesto completamente umano.
Il punto di vista di Gifford-Gonzalez è profondamente diverso. Per l’archeologa, gli scienziati sono co-creatori di opere artistiche tematiche, e altrettanto importante l’arte è per la scienza. Come nota anche Rudwick (1992), spesso è lo stereotipo rappresentazionale a delineare gli orizzonti di ricerca. Questa relazione di co-enunciazione può considerarsi come un’espressione del meccanismo individuato, in prospettiva costruttivista, della actor-network theory con cui Bruno Latour spiega1616Bruno Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network-Theory, Oxford UP, 2005.
la comparsa di manufatti tecnici, di idee scientifiche e, più in generale, l’insorgere di fatti sociali.
Questi sarebbero l’effetto di un complesso reticolare di cooperazione tra attanti umani e non umani, costitutivamente portato a eccedere i limiti dei “domini” disciplinari. Il semiotico Claudio Paolucci, nel suo saggio del 2020, unisce l’idea di Latour a quella di Deleuze,1717Logique du sense, Les éditions de minuit, 1969 (trad. it. Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1975).
secondo cui il soggetto opererebbe da “sintesi disgiuntiva”, poiché in grado di «tenere insieme dimensioni eterogenee senza omogeneizzarle».1818Persona, 2020: 181-182.
Il soggetto sarebbe quindi quell’istanza di mediazione in grado di operare il passaggio tra strutture fatte di singolarità e punti differenziali, mentre il complesso della semiosi assicurerebbe un “effetto di omogeneità”, in cui varie istanze cooperano nel cucire insieme elementi di domini diversi. Quegli “elementi non scientifici” finiscono così per partecipare all’enunciato per effetto della “circolazione degli ibridi”,1919Bruno Latour, Enquêtes sur les modes d’existence: Une anthropologie des Modernes, La Découverte, 2012.
esercitando una parte attiva nella modellazione della conoscenza.
Sfere culturali multidimensionali
Dopo la rivoluzione della datazione radiometrica, l’istanza di attendibilità degli enunciati archeologici, paleoantropologici e geologici risponde al nome di radiocarbonio. Nelle ricostruzioni illustrate, questa istanza si chiama “effetto di realtà”.
Dall’implementazione del radiocarbonio in poi, apparve necessario che gli archeologi adducessero spiegazioni “scientifiche”, incentrate sull’osservazione di sistemi dinamici, che potessero comprendere i complessi fattori che guidano i cambiamenti culturali, risolvendo alcuni importanti punti riguardo l’adattamento umano ai fattori ambientali alla base di tali trasformazioni culturali.2020William H. Krieger, Processual Archaeology, 2016.
Serviva un approccio cognitivo allo studio archeologico, in cui i processi che ricostruivano i modi di pensare, sulla base dei resti materiali, non fossero sottintesi. Secondo Renfrew, uno dei principali teorici dell’approccio cognitivo, l’archeologia di quegli anni, poi definita processuale, disattenderà molte delle aspettative riguardo la chiarificazione delle relazioni culturali nelle società antiche. L’attenzione fu piuttosto concentrata sulla promozione di un’effettiva trasformazione dell’archeologia in scienza. L’interesse della nuova archeologia sembrava essere rimasto aderente a un’idea funzionalista di cultura“…L’interesse della nuova archeologia sembrava essere rimasto aderente a un’idea funzionalista di cultura”, spesso definita, seguendo l’approccio di Leslie White e Lewis Binford, come l’esercizio delle capacità di adattamento extra-somatico dell’essere umano.2121Colin Renfrew, Ezra B. W. Zubrow, The Ancient Mind. Element of Cognitive Archaeology, 1994: 3.
Nel 1973, Lotman e Uspenskij, propongono una “tipologia della cultura”: l’informazione, ovvero la funzione della cui produzione e mantenimento si occupa la cultura, viene definita come una condizione essenziale per l’esistenza dell’umanità, e la lotta per l’informazione è assimilata a quella per la sopravvivenza biologica.2222Boris A. Uspenskij, Jurij M. Lotman, Tipologia della cultura, 1973: 27-28.
Tale lotta sarebbe oggi arrivata a una tale ipertrofia da averci consentito l’ingresso nell’iperstoria, ovvero un’epoca in cui, come teorizza Luciano Floridi,2323Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, 2017: 3.
la storia dipende da sé stessa, con il progresso e il benessere sociale che si nutrono dei propri stessi dati, in una sorta di autocannibalismo ipertrofico. La cultura può essere visualizzata come una dimensione dell’ecosistema in cui l’evoluzione riesce a spazializzarsi e a diramare le sue forme di vita, che sono poi forme di adattamento culturale. La metafora biologica viene importata nella comprensione dei processi culturali dal semiotico strutturalista Juri Lotman, che nel 1985 pubblica il suo fondamentale La Semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti. Qui elabora un modello olistico, la semiosfera, la cui applicazione permette di pertinentizzare l’essenza dinamica e il dispiegamento dei processi culturali, rendendone intelligibili le grandezze, i movimenti, le osmosi. Partendo dall’individuazione di un interno della sfera culturale, si può puntare a mapparne il funzionamento distinguendo le aree di omogeneità e di individualità, in cui processi di influenza reciproca consentono la realizzazione delle funzioni di base della cultura, ovvero la produzione e trasmissione dell’informazione:
«La trasmissione dell’informazione all’interno del confine culturale è possibile in una condizione statica, equilibrata e simmetrica del sistema, e anzi presuppone una condizione di questo tipo. Per l’elaborazione di informazioni nuove bisogna invece che il sistema esca dallo stato di equilibrio, son necessari cioè l’asimmetria e il dinamismo».2424Lotman, 1985: 131.
Asimmetria e dinamismo sono rapporti che possono estendersi in più direzioni. Per esempio, i confronti possono essere diatopici, e verificarsi nell’estensione spaziale, o diacronici. Questi ultimi si attualizzano nel confronto con i diversi stadi evolutivi di una stessa semiosfera. La cultura può quindi attingere dalla memoria, confrontandosi con la redistribuzione continua delle conoscenze, sottoponendole a un processo traduttivo che ne adatta la ricostruzione al periodo. In questo senso, fondamentale per comprendere l’evoluzione del contesto sociale che muta intorno alla memoria è l’osservazione di quelli che per Lotman sono i “simboli”, ovvero quei “fenomeni eccezionali” che possono assurgere al ruolo di “messaggeri di altre epoche”.2525Anna M. Lorusso, Semiotica della cultura, 2010: 91.
Una metariflessione sull’archeologia implica la riconsiderazione del suo aspetto visuale.
Processi informazionali di imbastimento delle culture possono quindi portare all’emersione di significati sociali che determinano la disposizione verso certe estetiche. È questo ciò che accadeva con la rivoluzione copernicana. La potente scossa infusa nel sistema di credenze portò, nel corso del XVIII e XIX secolo, a un capovolgimento cognitivo espresso in una viva fascinazione per tutto quanto emergesse dall’ombra dell’inconoscibilità. In campo estetico, il gusto artistico dell’aristocrazia europea si ricostruì intorno all’appropriazione degli antichi fasti. In effetti, il motore principale dei primi scavi archeologici fu proprio il gusto rinascimentale per l’arte classica e la passione di signori e sovrani europei per i cimeli di un tempo perduto.2626Renfrew, 2007: 9-13.
Una cosa simile succederà nel periodo imperialista con la fascinazione per l’esotico. Le sfere culturali, che vivono nella sincronia e nella compresenza fisica di individui che sentono di appartenere a una medesima “natura”, si nutrono del confronto con quanto venga collocato al di fuori. Tale inclinazione al confronto non fa distinzione tra i movimenti sull’asse temporale o sull’asse spaziale. Se negli studi della linguistica strutturale il valore è costituito dall’intersecarsi di rapporti che si evolvono nella direzione diacronica come in quella diatopica, i vettori che individuano i valori identitari di società e culture corrono lungo le stesse tendenze multidimensionali.
Effetti di preistoria
Le rappresentazioni della vita preistorica sono “simboli” di un periodo privo di testimonianze dirette e pertanto frutto di un’iscrizione mediata da molteplici credenze. Vista la particolarità di questo caso, è necessario interrogarsi su quei caratteri inferenziali che ne determinano stilemi e figure, da cui è certamente possibile ricavare informazioni sulla cultura produttrice. Ed è così da sempre: ogni società della storia ha “usato” la preistoria per quello che le era più utile, come è successo con la legittimazione del colonialismo,2727Renfrew, 2007: 46.
la celebrazione di culture a forte stampo identitario o l’epopea civilizzatrice.2828Brusa, David e il Neandertal. Gli stereotipi colti sulla preistoria, 2007: 62-63.
Una metariflessione sull’archeologia implica dunque anche la riconsiderazione del suo aspetto visuale. Secondo Gifford-Gonzalez, sebbene l’utilizzo di supporti visuali permei la costruzione di discorsi scientifici, come quello archeologico e paleoantropologico, questo rapporto è stato raramente problematizzato fino alla seconda metà degli anni ’70, periodo a cui risale il fondamentale saggio2929Pubblicato nel 1976. Altri fondamentali riferimenti sono i suoi Worlds Before Adam: The Reconstruction of Geohistory in the Age of Reform (2008) e Bursting The Limits Of Time: The Reconstruction of Geohistory in the Age of Revolution (2005).
dello storico e geologo Martin Rudwick, The Emergence of a Visual Language for Geological Science 1760–1840. Nel decennio successivo, l’archeologia processuale fu sottoposta a una serie di attacchi di matrice filosofica,3030L’idea era quella che la filosofia della scienza fosse andata avanti rispetto alle posizioni del positivismo degli anni ’50 e che si fosse pervenuti a un post-positivismo che poteva fare auspicare un simile passaggio dell’archeologia processuale. Questo processo di confronto intersistemico portò all’emergenza di quelli che si autodefinirono archeologi strutturalisti o post-processuali (Renfrew, 1994: 3).
ma una nuova scuola critica nei confronti dell’archeologia di Renfrew e co. arriva dall’ala femminista della disciplina. Quest’area di minoranza della sfera di produzione archeologica iniziò progressivamente a sferzare attacchi più o meno diretti, a proporre la formulazione di nuove griglie interpretative e forme di rappresentazioni più inclusive, oltre che una generale riconsiderazione di temi e prospettive del discorso archeologico, troppo identificato con il punto di vista maschile.3131Tale agitazione venne a creare una struttura polemica organizzata in cordate teoriche che si confrontano su diversi temi e aspetti. Una delle polarizzazioni più nette riguarda il tema dell’Urheimat: ancora qui, la casa originaria, che in glottologia si identifica con il luogo di provenienza dei parlanti della protolingua, ha a che fare con la spazializzazione delle identità, con le processioni di rappresentazioni, con le colonizzazioni, le intrusioni, la rottura dei confini, la collisione tra le sfere. Da un lato, Colin Renfrew con la sua regione Anatolica, dall’altro Marija Gimbutas con la Teoria kurganica.
Fondamentale per il processo di decostruzione è l’elaborazione di un’analisi della visualizzazione del paesaggio preistorico. I cambi di prospettiva implicano una riconsiderazione spaziale dei concetti, una loro ricollocazione, un ridimensionamento. La visualizzazione del passato può avere degli effetti attivi sulla pragmatica, sul modo in cui ci poniamo nei suoi confronti, il grado di “abitabilità” che gli riconosciamo. Umberto Eco, che ha lavorato moltissimo sul medioevo nell’ambito di saggi, romanzi e volumi filosofici, riconosce dieci modi di sognarlo,3232Umberto Eco, Dieci modi di sognare il medioevo, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano, 1985.
in cui l’atto di sognare viene inteso come pratica di abitare una rappresentazione. I due fondamentali modi di relazionarsi a queste proiezioni, ovvero il rabberciare e il ricostruire, hanno direttamente a che fare con il rapporto fisico che si intrattiene con gli spazi, con quanto da quei luoghi si possa suggere come linfa per le culture contemporanee e cosa di quelle vestigia possa essere lasciato ad aleggiare nello sfondo del passato, come l’impressione di una conoscenza. Il rapporto spaziale, il modo di riempire fisicamente un luogo può essere interpretato come una fase della sua visualizzazione, e altrettanto accade nel caso della rappresentazione visuale della preistoria umana.
Nel 2013, gli studiosi Julie Solometo e Joshua Moss pubblicarono un’analisi di tutte le illustrazioni di articoli riguardanti la preistoria del National Geographic, dal 1888 al 2007. Nel saggio si enucleano le specificità delle rappresentazioni, come l’esigenza di veicolare un’idea di concretezza del referente, e di ridurre l’ambiguità del messaggio.
«Le ricostruzioni non possono esprimere tutte le incertezze metodologiche, la serie di assunzioni, la prudenza necessaria che accompagnano le interpretazioni archeologiche. […] La concretezza delle immagini garantisce che la ricostruzione sarà inaccurata». (Solometo, Moss, 2013: 124)
L’attenta analisi delle illustrazioni, insieme a una serie di interviste a editori e illustratori, consente agli autori di individuare una delle principali istanze di omogeneizzazione nella necessità della testata di minimizzare l’inevitabile inaccuratezza delle rappresentazioni. Solometo e Moss riportano a questo proposito la testimonianza di Christopher Sloan, ex direttore artistico di «National Geographic»: molto indicativamente, Sloan dichiara che agli illustratori della rivista era chiesto di inserire nelle scene più informazioni possibili, comprese, a volte, alcune ipotesi in contraddizione tra loro, riservando particolare attenzione a non compromettere il valore artistico dell’opera. Tutte queste conoscenze richiedevano l’uniformazione attraverso l’impiego di uno stile realistico che agisse come un’istanza di obiettività. La patina di effetto di realtà mette l’osservatore in condizione di credere che ciò che gli viene mostrato sia in qualche modo riuscito a bypassare le ere, aprendogli una finestra sulla realtà delle comunità preistoriche. Le immagini guadagnano così in termini di persuasività, ma anche di ingannevolezza, riuscendo a veicolare nozioni riguardo il progresso, la nazione, il genere, la famiglia.
Abitare lo spazio con gli stereotipi
Spesso, l’approccio divergente nell’archeologia, mirato a sovvertire il canone androcentrico, ha rilevato la direzione indicata da Sandra Bem, autrice e psicologa femminista, nel suo The Lenses of Gender: Transforming the Debate on Sexual Inequality (1993), concentrandosi su tre caratteristiche significative del punto di vista maschile: l’androcentrismo, la polarizzazione dei generi e l’essenzialismo biologico. L’androcentrismo si basa sull’idea che tutto ciò che è maschio sia naturale, che il maschile sia la norma rispetto cui il femminile rappresenta la devianza, l’alterità. La polarizzazione di genere è l’assunzione che il femminile sia fondamentalmente differente, tanto da implicare una onnipresente organizzazione della vita basata sulla distinzione tra i generi biologici. L’ultimo aspetto, l’essenzialismo biologico, che opera rendendo intrinseche al sesso biologico le differenze culturalmente distribuite tra i generi, tende a dare l’impressione che l’androcentrismo e la polarizzazione dei generi siano legittimate da una fondamentale naturalità, positivamente e razionalmente esplicabile.3333Ne è un esempio l’attribuzione di un “primordiale desiderio di maternità” a “ogni donna normale”, così come nella definizione di “istinto materno” di Larousse.
Osservare la trasfigurazione di questi caratteri nelle illustrazioni della preistoria fa emergere dati molto rilevanti riguardo le variazioni dei ruoli di genere accorse nel tempo. In generale, la figura femminile si mantiene tendenzialmente statica, passiva, dotata di poca agency, con lo sguardo diretto verso un vuoto indefinito o verso le figure maschili circostanti, incarnando così la componente debole della dicotomia della dominazione.
La percentuale di donne raffigurate è sempre in netta minoranza rispetto al numero di figure maschili. “…La percentuale di donne raffigurate è sempre in netta minoranza rispetto al numero di figure maschili. “Tuttavia, negli anni ’40, in corrispondenza all’accesso delle donne statunitensi al mondo del lavoro, le presenze femminili nei disegni aumentano e cambiano. Si raggiunge il picco assoluto del 31,5% e appaiono per la prima volta donne ritratte durante il lavoro così come durante la celebrazione di rituali, insieme agli uomini.
Questa tendenza sarà controvertita nei vent’anni successivi in un moto reazionario classico dell’oscillazione e degli aggiustamenti tra cultura dominante e minoranze. Il successivo picco di presenze femminili sarà quello degli anni Ottanta (26,5%), in coincidenza con l’ingresso delle istanze femministe nell’ambiente archeologico. Il movimento si compatterà attorno a precise questioni di prospettiva e metodo, e la presenza di illustratrici aumenterà in maniera repentina: in questi anni le figure femminili sono inserite in scene di mercato, coinvolte in rituali di sepoltura o nella vita di campo, intente a foraggiare. Questi dati si associano alla problematizzazione di questioni come polarizzazione di genere, androcentrismo ed essenzialismo biologico, che portano a ritenere donne e uomini come dotati di capacità essenzialmente diverse e ineguali e pertanto appartenenti a luoghi diversi. L’uomo domina così il luogo di evocazione della divinità, divenendo unica interpolazione tra naturale e spirituale, e la sua agentività si esplicita nelle scene di edificazione. Alle donne si riservano invece i luoghi di pertinenza della vita familiare: la sua figura è quasi sempre sovrapposta a quella di madre, in un chiaro esempio di proiezione della polarizzazione di genere presente nella società contemporanea, ma non necessariamente in quella preistorica, alla luce del fatto che diversi dati etnografici ritengono che gli anziani del gruppo e i figli maggiori fossero i principali responsabili della cura dei bambini.3434Coltrane, 1996; Moore, 1988, cit. in Solometo, Moss.
Figure maschili appaiono raramente occupate nella cura dei bambini e, quando ciò accade, si tratta sempre dei bambini più grandi. Inoltre, mentre le madri appaiono circondate dai bambini anche durante lo svolgimento delle loro mansioni, le figure paterne appaiono intrattenersi con loro solo nei momenti di riposo, come durante i pasti o le cerimonie, spesso rivolgendo lo sguardo altrove, fisicamente ed emotivamente distaccati. Anche in questo caso, i dati variano in base al periodo: tra il 1990 e i primi anni Duemila, la percentuale di uomini con bambini scende sotto l’1%.
Di pari passo alla sovraesposizione di individui maschi va la ricorsiva apparizione di certi spazi: i luoghi dell’aggregazione e dell’azione maschile, spiega Gifford-Gonzalez, sono sottoposti a un’attenzione particolare in quanto teatro di azioni di vero interesse. Il rapporto che si instaura tra luogo e individuo è quindi di mutua valorizzazione: le regioni di spazio in cui si situano le attività maschili guadagnano la posizione della ribalta poiché sono gli uomini stessi a renderle pertinenti per la valutazione delle specificità umane. Così le grotte sono il posto degli uomini in quanto luoghi della divinazione, dell’espressione artistica, dell’iniziazione e della lotta. Le donne sono invece tendenzialmente più defilate: sia Moss e Solometo che Gifford-Gonzalez individuano nelle loro analisi la preponderanza di donne raffigurate negli sfondi, o nei primi piani con funzione “decorativa”, o marginalizzate in ruoli di assistenti o spettatrici.
La donna è un tipo di uomo con scarsa agentività.
Nei diorami analizzati da Gifford-Gonzalez, l’unica industria di competenza esclusivamente femminile è quella del raschiamento delle pelli. La donna figura qui isolata dalla socializzazione del lavoro maschile, spesso posta a distanza dell’osservatore in quella che è, secondo l’archeologa, una forma di protezione di quest’ultimo dalla ripugnanza del lavoro di conceria, tradizionalmente associato ai cattivi odori tipici dell’industria.3535«Nineteenth Century artists and audiences probably had a more compelling sensual experience of the allusion to hide-working as a repugnant “woman’s place” than do we in our more insulated 20th Century lives. The tannery’s flyblown environment, its stench of uncured skins and noxious chemicals, were much more likely to intrude upon the sensibilities of even the most refined folk. For the Victorian middle class contemplating human evolution, these sensory correlates were supplemented by widely shared stereotypes of women’s status». (Gifford-Gonzalez: 36)
Una funzione più calzante della distanza è quella di avvolgere questo tipo di attività in una coltre di vaghezza e imprecisione, espresse in immagini poco dettagliate e scientificamente imprecise: a scapito della correttezza etnografica, secondo cui l’attività di preparazione di pelli e pellicce richiedeva strumenti specifici, nelle ricostruzioni indagate da Gifford-Gonzalez non viene mai precisato l’impiego di alcuna tecnologia da parte di figure femminili. Sempre contrariamente alle ricostruzioni etnografiche, secondo cui questa attività vedeva uomini e donne lavorare in posizione eretta, spesso ricorrendo a marchingegni che favorissero la tensione dei tessuti, le donne rappresentate sono quasi sempre prone carponi sulle pelli, in una posizione interpretata dall’autrice come allusiva di una certa disposizione alla sottomissione e alla modestia. In più, così facendo si esclude l’utilizzo femminile di quelle che Floridi definisce tecnologie di secondo ordine, ovvero quel genere di tecnologia che si frappone tra l’utente e un ulteriore dispositivo tecnico.3636Floridi, 2017: 28-29.
Questo tipo di strumenti è quello il cui uso costituisce una vera differenza tra l’uomo e le altre specie animali, tra cui è invece diffuso l’impiego di tecnologie di primo ordine. Ciò è riconducibile a quella tendenza, individuata da Gifford-Gonzalez, a tagliare fuori le donne da tutte quelle attività considerate espressione delle specificità del genere umano, quali sono la divinazione, la produzione di simboli e di manufatti artistici, oltre che tecnologici.
Come scrive Gifford-Gonzalez, la ricchezza di dettagli così come la varietà e la realisticità dei corpi rappresentati sono di supporto alla plausibilità dei testi visivi. Nelle raffigurazioni analizzate da Solometo e Moss, sembra che le figure femminili servano a mostrare la varietà delle attività quotidiane, restando tuttavia vincolate alla specificità del ruolo di genere. Le loro rappresentazioni non servono quindi a simbolizzare l’umano ma a declinarne le varie possibilità. È questo ciò che si intende per androcentrismo, cioè un’ottica secondo cui l’idea di umanità sia modellizzata sul prototipo maschile, e che vede il femminile come una variante del modello base.
La donna è un tipo di uomo con scarsa agentività. Questa è resa figurativamente attraverso la corporeità (sexual dismorfism). In un elemento fisico come gli occhi, per esempio, ricadono fondamentali differenze: negli uomini lo sguardo è direzionato verso l’esterno, e si posa con intenzionalità sullo spazio circostante; nelle donne lo sguardo è “inward and unfocused”, incapace di proiettarsi sullo spazio e caratterizzato da un’aberrante vacuità.
L’agentività sullo spazio è espressione di un classico motivo di segregazione spaziale, declinato in chiave preistorica. Questa ha a che fare con il fatto che nell’organizzazione stessa dello spazio della rappresentazione esiste una gerarchia: Gifford-Gonzalez spiega che il lavoro culturalmente ritenuto più “drudgery” è solitamente posto nello sfondo, mentre il focus si mantiene sul lavoro maschile in primo piano. La ricerca di Solometo e Moss conferma questa aspettativa, con soltanto il 35% delle figure femminili impegnate in lavori stereotipici, collocate nel primo piano, mentre più della metà delle donne coinvolte in lavori tipicamente maschili, che comunque figurano in piccole proporzioni (42 su 156), sono collocate nello sfondo.
Conclusioni
Umberto Eco, nel già citato saggio sui modi di rappresentare il medioevo, si interroga sul perché dell’eterna ossessione per “la moda medievale”, “il sogno del medioevo” che affanna tutta la cultura italiana ed europea. Cercando una spiegazione al fenomeno, illumina profondi solchi che giacevano sotto le spesse polveri della storia più trita:
«Il medioevo rappresenta il crogiolo dell’Europa e della civiltà moderna. Il medioevo inventa tutte le cose con cui ancora stiamo facendo i conti, le banche e la cambiale, l’organizzazione del latifondo, la struttura dell’amministrazione e della politica comunale, le lotte di classe e il pauperismo, la diatriba tra stato e chiesa, l’università, il terrorismo mistico, il processo indiziario, l’ospedale e il vescovado, persino l’organizzazione turistica, e sostituite le Maldive a Gerusalemme o a San Jago de Compostela e avete tutto, compresa la guida Michelin. E infatti non siamo ossessionati dal problema della schiavitù o dell’ostracismo, o del perché si debba uccidere la propria madre (problemi classici per eccellenza), ma di come far fronte all’eresia, e ai compagni che sbagliano, e a quelli che si pentono, di come si debba rispettare la propria moglie e languire per la propria amante, perché il medioevo inventa anche il concetto dell’amore in occidente».
L’interesse verso il passato non ha solo valore di confronto, da cui la propria definizione può emergere per contrasto. Può al contrario ricostruire continuità, tratteggiare regolarità, a partire dal nostro presente.
Spesso ci si rivolge al passato preistorico con un misto di ripugnanza e fascinazione, combattuti tra la speranza di ancorare la nostra prassi a una bontà perduta e la paura di cogliere in flagrante la propria bestialità. Per Colin Renfrew, la preistoria è la storia del divenire uomo; ma, come Foucault scrive nell’introduzione di Le parole e le cose, può essere confortante rilevare che «l’uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma».3737Michel Foucault, Le parole e le cose, 1966: 13.
La querelle ancora aperta con la preistoria si inasprisce quando la soggettività umana si confronta con le sfide dei cambiamenti culturali. È forse questo il tema vivo della preistoria, la definizione dell’umanità che oggi si ridisegna attorno a concetti nuovi, di incorporazione del macchinico, di superamento del biologico, di evoluzione in un’ottica integrativa.
Il confronto con le AI aiuta il genere umano a prendere coscienza della propria soggettività impersonale e diffusa,3838Paolucci, 2020.
e i bias degli algoritmi guadagnano molta attenzione perché insufflano stereotipi e pregiudizi umani, codificandone i risultati più aberranti: se l’attività umana ha un impatto relativamente limitato e situato, gli algoritmi, con la loro serialità e moltiplicazione esponenziale, ingombrano dimensioni che sembrano eccedere la misura della pratica umana. In questo confronto con un altro da sé, sembra impallidisca il potere umano di essere reticolare, dissimulando il fatto che tutti i sistemi informatici non sono che impianti protesici installati sul sistema umano per definizione, quello linguistico.
Ad ogni modo, ora che altre creature devono essere nutrite di dati, siamo tenuti a interrogarci sulla nostra dieta informativa. Così, la relazione che abbiamo con le macchine ha il potere di metterci di fronte a noi stessi, al di là delle metafore: le intelligenze artificiali ci guardano in faccia e ci mostrano il nostro modo di vedere le cose.3939http://bit.ly/boston-culture-movies.
Gli algoritmi sono luogo di attuazione degli stereotipi, mentre la storia è luogo di proiezioni di simulacri; la preistoria, ancora, è una fitta selva di virtualità, siano esse mostruose brutalità o mansueti animi puri.
Una delle battaglie che più di tutte riunì le energie femministe dell’archeologia negli anni ’80 fu quella contro la figura del “Man the Hunter”, che canonizzava il ruolo maschile nella società.
Le figure del mondo, così come i topoi della storia dell’arte, individuati nel discorso delle ricostruzioni archeologiche, riproducono quello che Gombrich4040Ernst Gombrich, Art and Illusion: A Study in the Psychology of Pictorial Representation, Pantheon, 1960.
descrive come lo schema, ovvero la figura resa convenzionale attraverso la sua trasmigrazione da un testo all’altro, assurgendo a tratto distintivo di una cultura visuale. Tra i supporti visivi al sapere, gli schemata hanno il potere di aggiungere valore estetico alle rappresentazioni, aumentando la loro portata intertestuale con rimandi alla storia dell’arte: per questo, nelle ricostruzioni della vita preistorica, le rappresentazioni femminili si accostano al tema della “Madonna con Bambino”, mentre quelle maschili incarnano la figura erculea dell’Uomo Cacciatore.
La fissità degli schemi sembra attualmente messa in discussione da più parti. Il 12 gennaio 2021, su «aeon», usciva un magistrale articolo4141https://aeon.co/essays/what-do-we-know-about-the-lives-of-neanderthal-women.
in cui l’archeologa Rebecca Wragg Sykes indaga la costruzione culturale della donna di Neanderthal, spiegando il complesso processo di attribuzione dei generi e dei ruoli a una specie umana a partire soltanto da fragili resti. Queste friabili architetture sono chiamate a sostenere il peso di un articolato confronto tra due tipi di umanità.
Come abbiamo visto, l’impalpabile passato preistorico è investito da molteplici proiezioni e, come scrive Antonio Brusa,4242Brusa, 2007: 58-59.
storico esperto di didattica della storia, alcuni autori, turbati dalla comprimarietà del ruolo assegnato alle donne nell’evoluzione, ribaltano la questione in maniera radicale. Il risultato si ha spesso nella prototipizzazione delle società matriarcali, in cui alle donne si attribuiscono ruoli decisivi come lo sviluppo dell’agricoltura, della spiritualità e delle prime forme di organizzazione politica. Un simile approccio, oltre a esistere in teorie devianti rispetto all’asset dominante, come la teoria del culto della Grande Dea di Marija Gimbutas, ha anche un certo impatto sull’immaginario collettivo, che spesso diviene teatro di proiezioni di cui si perdono le derivazioni scientifiche. È questo il caso di La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (1964-1970), monumentale documentario di Rossellini la cui prima puntata è dedicata alla preistoria dell’umanità. Anche Rossellini propone il modello del matriarcato come soluzione agli atavici dilemmi sull’origine della socialità, senza però esplicitarne i fondamenti scientifici.
In entrambi i casi citati, una concezione epistemicamente alternativa è narrativizzata attraverso l’individuazione di un “nemico” esterno ed estraneo, posto al di fuori della semiosfera dominata dalle donne: la causa della degradazione della società felice originaria viene esternalizzata e ricondotta all’arrivo di popoli a cavallo, conquistatori brutali e importatori di un approccio maschilista. Si tratta di un escamotage tipico delle narrazioni costruite su una forte opposizione polemica tra “buoni” e “cattivi”, che fallisce però nello scopo di problematizzare ed esplorare la reale complessità dei processi socio-culturali.
Come si è cercato di dimostrare nel presente lavoro, nel complesso intreccio di immagini e sapere, si può in qualche modo tenere traccia dell’alternarsi delle figure e dei motivi principali di una cultura. Mapparli e ricostruirne le relazioni reciproche è il primo modo per setacciare ciò che, prima che essere algoritmo, è cultura, prima di essere artificiale, è intelligenza.
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Annalisa Prestianni è siciliana e attualmente vive e lavora a Bologna nell’ambito dei media digitali. È laureata in Semiotica e si interessa di scienze cognitive, digital humanities e storia delle idee. Ha fatto parte del collettivo letterario Argo, per cui ha curato la comunicazione, e da 10 anni fa parte dell’organizzazione di Ypsigrock Festival, in Sicilia.
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