Andrej Arsen’evič Tarkovskij, fotogramma dal film Solaris, 1972. Courtesy l’artista.
Nel testo Voice del 1990, il professore americano di filosofia David Appelbaum pone attenzione sulle produzioni asemantiche della voce in quanto indici del corpo in grado di esporre gli aspetti materiali, finiti e animali della produzione vocale. Appelbaum riconsidera il mezzo-voce, slegandolo dal logocentrismo, sovvertendo la teoria aristotelica sulla “phonè”11La teoria sulla phonè comprende le possibilità narrative di ululati, cinguettii, starnazzi e simili, ma non riconosce connotazioni linguistiche all’echos, ovvero a quella serie di rumori che il corpo, animale o umano, produce involontariamente.
e rispondendo all’impasse derridiana22Derrida associa la voce a «forme di presenza che garantirebbero il significato del discorso nonostante i capricci del segno esteriore […], la voce può addirittura sembrare antiquata e arretrata, come triste apologia della metafisica della presenza». (Brian Kane, La voce. Una diagnosi, traduzione di Francesco Venturi, KABUL magazine, gennaio 2021).
che tanti studiosi tentano ancora oggi di superare. Interrompendo le soffocanti appropriazioni del logos, per il quale risate, gemiti, respiro, balbettio e simili sono solo atti privi di significato, i suoni asemantici sono «un’interiezione del corpo» da cui vengono emessi: «La tosse […] scuote l’apparato cognitivo nel suo essere un promemoria grezzo dell’esperienza organica»33David Appelbaum, Voice, State University of New York Press, Albania, 1990.
. Sono ciò che di più puro e necessario rimane al mezzo-voce dell’individuo per esprimere la sua corporeità e umanità incontaminata, esternazioni involontarie prive di codici culturali, esentate dal dovere di rispondere a regole e convenzioni linguistiche. Sono tracce, respiri urlati dal corpo che ricordano all’uomo la sua natura animale.
Già negli anni Settanta, il regista russo Andrej Tarkovskij, ponendo al centro della drammaturgia sonora queste produzioni vocali, ne ammetteva il valore rendendole partecipi della definizione della personalità e dei cambiamenti di stato d’animo dei personaggi.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij, fotogramma dal film Solaris, 1972. Courtesy l’artista.
La risata di Andrej Gorčakov in Nostalghia
In Nostalghia (1983), il poeta russo Andrej Gorčakov, alter ego di Tarkovskij, si trova in Italia per scrivere la biografia del compositore Andrej Sosnovskij, nel tentativo di riscattare la condizione di un presente in profonda crisi e di un futuro schematico e prevedibile. Un personaggio introverso che supererà il silenzio con un atto di follia, a cui giungerà immergendosi nei ricordi e, fisicamente, nell’acqua che inonda le pellicole del regista russo. Il gesto-simbolo del rovesciamento della composta personalità del poeta è la risata.
Per prima viene l’acqua, indiscussa favorita nell’opera di Tarkovskij, che, anche questa volta, si fa anticipatrice del momento catartico mentre, limpida, annega l’angelo di gesso che giace a terra accarezzato dal manto scuro della natura. I passi zuppi di Andrej Gorčakov, che si dirige verso l’interno della Chiesa Sommersa di Santa Maria in Vittorio, rompono la quieta melodia lacustre, accompagnati dalla nenia nostalgica che il poeta biascica ricordando un’infanzia lontana.
Il monologo solenne viene interrotto dall’arrivo di Angela, incarnazione della fanciullezza e della vita, alla quale Andrej inizia a raccontare storie sull’amore e sull’esistenza, per poi, finalmente, abbandonarsi a quella fragorosa sghignazzata liberatoria, unica manifestazione corporea a lui concessa in tutto il film. La risata ubriaca risuona sotto forma di eco tra le pareti della rovina, stupendo lo stesso protagonista che presto si incupisce ripensando alla morte. Ma questo non ha importanza, il miracolo è avvenuto: il corpo del protagonista ha parlato, quel ghigno è il suono della vita interiore che si risveglia, il grugnito animale dell’anima che si riscatta.
I gemiti di Hari in Solaris
Solaris è il viaggio metaforico verso l’inesplorata realtà interiore dell’uomo del progresso, che deve trovare un equilibrio con la sua parte più intima attraverso una spietata immersione nei profondi labirinti della memoria. All’interno di una base spaziale, tre uomini e altrettanti esseri alieni, prodotti della loro coscienza, convivono personificando il tema centrale della dicotomia tra uomo culturale e uomo pulsionale. Gli scienziati sono in lotta contro il sintomo della loro interiorità repressa: gli ospiti, che imitano o assemblano soggetti provenienti dai ricordi e dalle fantasie del personaggio a cui si affiancano. Hari è la riproduzione della moglie defunta dello psicologo Kris e, in quanto essere alieno dotato di emotività, rappresenta il conflitto umano/inumano. La sua illusione di divenire una donna vera, infatti, è giustificata dalla capacità di esperire sentimenti, in particolare il dolore.
Anche qui è concesso un ruolo primario alla creatrice di questi esseri alieni, l’acqua, che sul pianeta sconosciuto muta le sue caratteristiche terrene: non più ruscello o pioggia, ma massa densa, oceanica, in continuo cambiamento, che prima di catartica vuole essere simbolo di un profondo inconoscibile quale è la sfera dell’inconscio.
La telecamera segue il moto circolare della tavola rotonda attorno alla quale alcuni personaggi siedono e altri passeggiano dibattendo sul primato della scienza rispetto alla coscienza. I toni si alterano e la scena si spezza in due, secondo gli schieramenti della dicotomia in questione: il Dottor Sartorius, voce della scienza, logico e apatico, accusa Hari di essere soltanto una copia, una matrice, mentre la giovane risponde con voce fievole rivelando i propri sentimenti: «Sì, può essere, sì. Ma io sto diventando un essere umano, io ho una sensibilità come voi e soffro come voi». Mediatore del litigio è il Dottor Snaut, figura ibrida che solo con l’assunzione di alcool è in grado di scomporsi e lasciarsi andare a pensieri irrazionali in favore dell’amore piuttosto che della materia scientifica. Come per Gorčakov, anche nel caso di Snaut l’umanità del personaggio emerge da sghignazzate e filastrocche ubriache solo balbettate.
La scena successiva si apre con l’immagine di una bottiglia rotta da cui si perde, smaterializzandosi, un fumo bianco. Come il contenitore, Hari giace a terra dopo aver tentato il suicidio ingoiando ossigeno liquido, afflitta dalla disperazione per il suo sentirsi incompresa. La resurrezione dallo stato comatoso è un corale insieme di gemiti, singhiozzi e urla dell’organismo che si contorce in un falso esorcismo, in cui lo spirito alieno, come il fumo, si disperde evaporando dalla macchina-corpo.
L’utilizzo di suoni asemantici diviene nuovamente simbolo di transizione, un’epifania dell’individuo che si avvicina al suo lato più istintivo, che nell’ospite diventa addirittura illusorio sintomo di umanizzazione.
Nei film di Tarkovskij, i rumori hanno un ruolo fondamentale, sono onnipresenti e si organizzano come una vera e propria partitura musicale, nulla può essere lasciato al caso, non un sospiro e non un colpo di tosse. Pertanto, le rare reazioni nervose dei personaggi sostituiscono parole mancate, «gesti sonori che ci riportano a una espressività preverbale»44Roberto Calabretto (a cura di), Andrej Tarkovskij e la musica, Libreria musicale italiana, Lucca, 2011.
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Alla luce di queste analisi possiamo dunque supporre che la reale definizione dei suoni asemantici si opponga alle teorie che considerano la voce come elemento distinto dal corpo. Al contrario della posizione di Lacan – per il quale la voce è qualcosa di ostinato e inerte, piuttosto che identificativo del soggetto – o della visione aristotelica – per cui i suoni asemantici sono privi di significato –, l’echos è da considerarsi come un suono proprio dell’individuo e un’espressione del corpo da cui viene generato.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij, fotogramma dal film Nostalghia, 1983. Courtesy l’artista.
Due risate in contrasto: immortale nell’opera D’io e angosciante nella voce dell’assistente digitale Alexa
Nel 2018, appaiono sul web e su molte testate giornalistiche una serie di articoli ispirati ai numerosi tweet sulla misteriosa risata dell’assistente digitale Alexa. Apparentemente, stando a quanto si legge, il dispositivo ha frainteso lo spelling del comando light con laugh, finendo per esibirsi autonomamente in fragorose risate dal timbro umano: «Cercavo di spegnere le luci, ma continuavano a riaccendersi. Dopo la terza richiesta Alexa ha smesso di rispondere e ha iniziato a ridere in modo malvagio. La risata non aveva la sua voce, sembrava una persona vera» racconta un utente Reddit. In questo caso, la macchina, al contrario dell’amorevole ospite solariano, si rivela un oggetto da incubo, che stanzia sui comodini delle camere da letto per disturbare, e forse spiare, i sogni dei suoi padroni.
Gino De Dominicis, D’io, 1972. Courtesy Urban Experiences.
Nel 1971, Gino De Dominicis esponeva per la prima volta l’opera D’io, alla Galleria L’Attico di Roma, costringendo gli ospiti all’ascolto di una risata agghiacciante e sarcastica, che riecheggiava invadente nella sala espositiva e nelle strade circostanti. La lettura dell’opera è duplice e opposta: da una parte il riso come lotta e conquista dell’immortalità dell’anima che si eleva a divino (D’io è De Dominicis, letteralmente “dedicato a Dio”, che da uomo si innalza a Dio attraverso l’arte); dall’altra, invece, si pone l’attenzione sul vero protagonista del titolo, l’io, che in quanto umano rovescia la funzione del ghigno: «Non rassicura e non conforta gli animi, né è antidoto dell’angoscia e del dolore. Piuttosto è una risata folle, cinica, che sembra esprimere un’adesione beffarda alla vita e soprattutto alla morte»55Alberto Maria Faccia, Una risata (non) vi seppellirà. L’elemento comico in Gino De Dominicis, «Academia.edu».
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Ancora una volta, il suono asemantico è voce di un corpo che perde il controllo di sé, nel caso di Alexa, o che lo assume totalmente, nel caso di D’io. A essere differente nei due ghigni è che l’opera di De Dominicis, per quanto inquietante, ci appare per quello che è: la registrazione di una fragorosa risata umana azionata da un assistente di sala. Mentre il sintomo della perdita di controllo del “maggiordomo virtuale” ci appare terrificante perché inaspettato e autonomo, e poiché in esso riecheggiano autocoscienza e capacità espressiva, comportamenti che mettono in crisi la comune concezione che la macchina non sia più di un insensibile smart speaker. Come può Alexa esplodere naturalmente in una fragorosa risata, considerando che ci troviamo di fronte a una macchina artificiale?
Casi di questo genere richiamano subito alla mente il tema delle macchine pensanti, ampiamente dibattuto nella cibernetica, e le narrazioni distopiche sull’ipotetica ribellione della macchina che attraversano il cinema e la letteratura fantascientifica. Qualunque sia la ragione causale che ha indotto Alexa ad esplodere in questa risata estroversa è da notare come, tanto nell’assistente digitale quanto nella filmografia di Tarkovskij, un suono asemantico sia in grado di contenere, per chi lo ascolta, un messaggio che è in realtà intriso di significato.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij, fotogramma dal film Solaris, 1972. Courtesy l’artista.