Le ragioni di un’opera
A quanto sembra, è in corso un vero e proprio assalto alla diligenza della pittura: curatori che si ricredono, artisti che cambiano medium, galleristi e collezionisti in corsa per accaparrarsi nuovi talenti. Non ci sarebbe niente di male se tutto questo non avvenisse in una sorta di terrain vague creatosi in decenni di oblio critico. Questo analfabetismo di ritorno – cui hanno concorso riviste, musei e accademie d’arte – ha significato anche l’affievolirsi di una particolare sensibilità (connoisseurship), senza cui la buona volontà e l’attrezzatura intellettuale risultano di scarsa efficacia quando si tratta di distinguere tra un remake ironico e un epigonismo involontario, tra una pittura raffinata apparentemente grezza e una pittura banale apparentemente colta. Senza questa sensibilità, per capirci, l’unica differenza eclatante tra una natura morta di Chardin e una natura morta appesa in una pizzeria è che nella prima ci sono fragole e pesche, mentre nella seconda ci sono cipolle e fiaschi di vino.
Qualche tentativo serio per riconsiderare lo statuto della pittura attuale è stato fatto negli ultimi anni: alcune grandi mostre11Non considero qui la produzione strettamente accademica. Painting 2.0: Expression In the Information Age, 2016, coproduzione del MUMOK di Vienna e del Museum Brandhorst a Monaco di Baviera. Curatori: Manuela Ammer, Achim Hochdörfer, David Joselit e Tonio Kröner (assistente curatore).
La Figurazione inevitabile. Una scena della pittura oggi, a cura di Davide Ferri e Marco Bazzini, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato.
, come Painting 2.0 (2016) o, in Italia, La Figurazione inevitabile (2013); e alcuni libri ambiziosi, come il recentissimo The love of painting. Genealogy of a Success Medium (2019) di Isabelle Graw. In generale, tuttavia, continuano a essere rari i testi in grado di affiancare a una visione teorica la capacità di entrare nello specifico pittorico delle opere. Il testo di Hans Theys su Walter Swennen22Il saggio fa parte di un ambizioso progetto editoriale curato da Theys, dedicato a Swennen, costituito da tre bellissimi libri pubblicati nel 2016 in occasione della sua mostra Hic Haec Hoc, alla galleria Xavier Hufkens di Bruxelles.
, che proponiamo qui in traduzione italiana, rappresenta una di queste eccezioni. Theys, che considera la lunga frequentazione di un artista (più che ventennale in questo caso) come fattore cruciale del suo approccio critico, conduce un’analisi serrata, corpo a corpo, dell’opera di Swennen, servendosi di un’ampia strumentazione teorica – dalla letteratura alla psicoanalisi, dalla filosofia alla storia dell’arte –, ma sempre subordinando la teoria a un rigoroso approccio fenomenologico. Anche lo stile della scrittura è peculiare: l’autore riesce a mettere a tal punto sotto pressione la fisicità dei dipinti, da ricavarne, come per sublimazione, un’atmosfera intellettualmente satura, mentre, con un movimento simmetrico, discioglie in forma di curiosità visiva, se così si può dire, i granuli delle nostre aspettative intellettuali. È evidente che per Theys la “scrittura d’arte” è un esercizio delicato e rischioso in cui l’autore, non meno che l’artista, deve necessariamente sperimentare soluzioni inedite. I quadri di Swennen risultano congeniali a questo approccio critico/descrittivo, e sembrano fatti apposta (nella sequenza che formano, più ancora che presi singolarmente) per sostenere la tesi secondo cui la pittura non è un linguaggio, non ha significati da trasmettere, non traduce concetti in immagini, né può essere tradotta direttamente in parole. È una posizione radicale, che ricorda quella di Gilles Deleuze:
«Che rapporto ha l’opera d’arte con la comunicazione? Nessuno. L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. L’opera d’arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non contiene letteralmente la minima informazione. C’è invece un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza» (Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli, 2003).
Sia ben chiaro: questi quadri (come buona parte dell’arte in genere) producono esperienze, ovvero producono senso per chi si dia il tempo di guardarli, di instaurare un rapporto – emotivo, intellettuale – con essi; possono dunque essere molto significativi (cosa ben diversa dal dispiegare significati ordinati ai fini di una comunicazione). Con l’attenzione rivolta al processo creativo non meno che alle opere “finite”, Theys torna più volte su una verità che ci pare fondamentale e che viene troppo spesso dimenticata, e cioè che le ragioni di un’opera non coincidono col suo significato. Detto altrimenti, il senso di un’opera non coincide con le intenzioni dell’artista (chiare o vaghe, volubili od ossessive): ne è testimone una storia, spesso avventurosa e contraddittoria, fatta di scelte, di rinunce, di ripensamenti, di casualità che ha portato all’opera “definitiva”. La sfida è dunque quella di considerare un quadro come qualcosa di parzialmente autonomo rispetto all’artista e al fruitore, un oggetto dotato di una propria volontà (telos). Uno strano tipo di volontà, aggiungerebbero Swennen e Theys, che si esprime sempre in forma di enigma.
Luca Bertolo, Seravezza, gennaio 2020
Introduzione di Luca Bertolo
Il primato del testo (Franz Kafka)
Quando mi occupavo dei romanzi e dei racconti di Franz Kafka, verso la metà degli anni ’80, mi colpì il fatto che tutti i tentativi di interpretare le sue opere parevano non accorgersi che esse non si lasciano mai ricondurre a un solo significato o conclusione, e sembrano sempre parlare di un mondo inconoscibile e di testi impenetrabili. Al contempo la forma del testo s’impone come necessaria. In questo senso, si può considerare l’opera di Kafka come la continuazione del Talmud e del Midrash. Nell’infinita esegesi ebraica della bibbia, la nostra interazione con un mondo inconoscibile e un dio intangibile viene raddoppiata da testi incoerenti, contraddittori, simbolici e imperscrutabili. Tali testi tuttavia non vengono messi in questione, ma trattati con cura e amore.
Il mio studio dei testi di Kafka mi lasciò l’impressione che l’autore non avesse voluto esprimere più di quanto essi stessi dicono letteralmente, che è già sufficiente. Tutto è lì, in bianco e nero.44L’unico mistero che avvolge l’opera di Kafka è che i suoi interpreti non vogliono accorgersi di questa semplice evidenza. Cf. Mannoni, che scrisse: «Mallarmé è più comprensibile di quanto si dica, basta prenderlo alla lettera», Octave Mannoni, Clefs pour l’Imaginaire ou l’Autre Scène, Éditions du Seuil, 1969, p. 253 (ed. it.: La funzione dell’immaginario: letteratura e psicanalisi, introduzione di Emilio Garroni, trad. di P. Musarra, L. M. Cesaretti, Laterza, Bari, 1972).
Non c’è bisogno che qualcun altro proponga spiegazioni o interpretazioni. Quando incontrai per la prima volta Walter Swennen nell’ottobre 1988 capii che vale la stessa cosa per i quadri. Se hanno qualcosa da “dire”, quel qualcosa andrà inteso in senso materiale e non nel senso di un codice da decifrare.55I quadri non parlano un “linguaggio”, perché non contengono elementi, come i fonemi, che permettono di differenziare i significati: «Se la pittura è un linguaggio, mi domando cosa ci vedano i sordi» (Cit. Walter Swennen).
I dipinti di Swennen articolano la loro forma. Il loro ragionamento si esprime nel modo in cui sono costruiti, anche quando contengono immagini o parole.
Il primato della texture (Viktor Šklovskij)
Il modo con cui Swennen ha considerato il primato della texture si è evoluto molto a partire dai tardi anni ’80. In quel periodo, egli si era interessato a un’antologia di testi di Viktor Šklovskij66Victor Chklovskij, La marche du cheval, Éditions Champ Libre, Parigi, 1973. (Ed. it.: La mossa del cavallo: libro di articoli, 1923, trad. di Maria Olsoufieva, De Donato, Bari, 1967).
, pubblicata in Francia nel 1973 con il titolo Le marche du cheval. Secondo Šklovskij, un’opera d’arte non fornisce una traduzione del linguaggio intimo dell’artista in uno che possa essere compreso dallo spettatore.“…un’opera d’arte non fornisce una traduzione del linguaggio intimo dell’artista in uno che possa essere compreso dallo spettatore.” «In arte», scrive l’autore, «nuove forme appaiono per prendere il posto di quelle vecchie, che hanno perso il loro valore artistico».77Viktor Sjklovski, De paardesprong, De Haan, Haarlem, 1982, p. 89.
Ma cosa costituisce questo valore artistico? Per spiegarlo, cita Broder Christiansen che, nel suo libro La filosofia dell’arte, scrisse:
«Quando percepiamo qualcosa come una deviazione dall’usuale, dal normale, o da un certo canone guida, sentiamo dentro di noi un’emozione di natura speciale. […] Perché la liricità della poesia di un paese straniero non ci si rivela mai pienamente, anche quando ne abbiamo appreso la lingua? Sentiamo il suo gioco sonoro; avvertiamo il susseguirsi delle rime e ne percepiamo il ritmo. Comprendiamo il significato delle singole parole, e padroneggiamo l’immaginario, le figure retoriche e il contenuto. Potremmo anche intuire tutte le forme sensibili, tutti gli oggetti. Cosa manca dunque? La risposta è: le percezioni differenziali. La sottile deviazione dall’usuale nella scelta delle espressioni, nella combinazione delle parole, nella fine inversione della sintassi – tutto questo può solamente essere compreso appieno da qualcuno che vive tra gli elementi naturali di quel linguaggio, da qualcuno che, grazie alla sua consapevolezza della norma, sia immediatamente colpito, o meglio, irritato da ogni deviazione da essa».88Ivi, p. 47. Cf. con la descrizione che fa Bergson dello humor come deviazione inaspettata da un comportamento abituale o meccanico.
Inoltre:
«Per trasformare un oggetto in un fatto d’arte, è per prima cosa necessario ritirarlo dal dominio della vita. Dobbiamo isolare una cosa dalla massa di associazioni in cui essa è invischiata. È necessario rigirare l’oggetto come si rigira un ceppo nel fuoco».99Ivi, p. 94.
Se questo ragionamento fosse applicato a un dipinto, allora tutti i cosiddetti riferimenti (che siano a idee o a oggetti fisici) potrebbero essere considerati come mero materiale da usarsi per la sua composizione. Ed è precisamente quel che sostenne Šklovskij. «I dipinti non sono affatto finestre su un altro mondo – sono oggetti», egli scrisse, «l’artista si appiglia alla rappresentazione, al mondo, non al fine di ricreare il mondo, ma piuttosto per avere a disposizione del materiale complesso e soddisfacente da utilizzare nella sua arte».1010Ivi, p. 128.
Cézanne faceva eco a queste sue parole. I suoi dipinti erano tentativi di dare forma, attraverso il colore, agli effetti spaziali e ottici del mondo percepito (“le motif”). Per lui, il dipingere non riguardava l’oggetto percepito, e nemmeno il suo proprio modo di vedere (la sua specifica “optique”, pur fondamentale), riguardava piuttosto la maniera in cui trasformava le sue esperienze in colore, il suo proprio modo di fare le cose, che descriveva come il suo carattere,1111«Impegniamoci per esprimere noi stessi secondo il nostro temperamento». Cit. in Michael Doran (Ed.), Conversations avec Cézanne, Macula, Parigi, 1978, p. 136. (Ed. it.: Cézanne. Documenti e interpretazioni, trad. di Ninetta Zandegiacomi, Donzelli, Roma, 1995). Swennen non ama il termine “espressione”, ma non è particolarmente rilevante in questo contesto, e ciò sarà discusso più avanti nel testo. Va però notato che la parola inglese “expressive”, così come usata per esempio da Frank Auerbach (nel documentario girato da suo figlio), ha meno a che fare con l’espressione di una vita interiore che con l’impatto fisico di un dipinto.
o la sua “petite sensibilité”.1212Ivi, p. 180. Quando Cézanne si lamentò con Maurice Denis che Gauguin gli aveva rubato la sua “piccola sensibilità”, ovviamente non si riferiva al suo modo di guardare, ma al suo modo di lavorare. Louis-Ferdinand Céline, il quale credeva che la letteratura non avesse nulla a che fare con le idee e con tutto ciò che riguarda lo stile, avrebbe più tardi descritto il suo stesso approccio come “la piccola musica”. Cit. in Louis-Ferdinand Céline, Le style contre les idées, Éditions Complexe, Brussels, 1987, pp.
«Un quadro non rappresenta niente. A tutta prima, non ha bisogno di rappresentare nient’altro che colori», disse Cézanne a Gasquet.1313Doran (Ed.), cit., p. 136. L’editore, Michael Doran, dubitava della credibilità di questa affermazione, così come della maggior parte delle reminiscenze di Gasquet, sulla base del fatto che esse contengono numerose affermazioni che possono essere trovate in altre interviste, pur con piccole variazioni. Egli non sembra capire che gli artisti ripetono spesso gli stessi pensieri e le stesse parole. Io sono incline a fidarmi di Gasquet poiché il tono delle conversazioni sembra plausibile. Al contrario, Doran le trova simili in modo sospetto allo stile di altri scritti di Gasquet. Non capisce che questa somiglianza potrebbe semplicemente testimoniare della simpatia di Gasquet per Cézanne o che il suo stesso stile sia originato dall’ammirazione per l’artista. È stato un sollievo leggere che Gilles Deleuze la pensava allo stesso modo: «Le riserve dell’editore riguardo al valore dei testi di Gasquet sembrano essere infondate […]». Cit. in Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, Éditions du Seuil, Paris, 1981 (2002), p. 105, (Ed. it.: Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. di Stefano Verdicchio, Quodlibet, Macerata, 1995).
Šklovskij scrisse che «il mondo esterno non esiste. Le cose sostituite dalle parole non esistono e non vengono percepite […]. Il mondo esterno è fuori dall’arte. È percepito come una serie di indizi […] privi di sostanza materiale e di texture».1414Chklovski, cit., p. 95.
«Per un pittore, il colore è l’unica verità», affermò Cézanne.1515Doran (ed.), cit., p. 142.
E aggiunse:
«Detesto tutti questi racconti, queste analisi psicologiche e queste stupidaggini intellettuali su di loro (i colori). È tutto nel dipinto! Per Dio! I pittori non sono degli imbecilli! Eppure devi vederlo tu con i tuoi occhi – con i tuoi occhi – capisci?!»1616Ivi, p. 136.
.
«Tutto lo sforzo del poeta o del pittore», dice Šklovskij, «è finalizzato innanzitutto a creare qualcosa di unitario e tangibile, un oggetto con una sua texture. […] Buono e cattivo in arte sono una questione di texture. […] La texture è la principale caratteristica distintiva di quel mondo specifico di oggetti appositamente costruiti, la totalità del quale siamo soliti chiamare arte».1717Chklovski, cit., pp. 95-98.
Che cosa significa tutto questo? In primo luogo, ha a che fare con l’idea che il valore di un dipinto non vada cercato in ciò che rappresenta, bensì nel modo in cui esso è stato creato. Nel caso di Cézanne, si tratta per esempio di come modellava con il colore, cercando al contempo di evitare che i suoi dipinti si disintegrassero (diventassero non armonici o incoerenti). Nel caso di Swennen, il punto sta nel come egli combina tra loro tecniche, supporti, materiali, colori, ingrandimenti di disegni, parole e lettere, intrecciandoli tra loro per ottenere nuovi oggetti o pensieri concreti.
L’esistenza estetica e artistica del dipinto
Attorno alla metà degli anni ’90, Swennen scoprì un riferimento all’opera L’être et l’essence di Etienne Gilson all’interno del libro di Deleuze su Spinoza. Oltre a questo, scoprì il trattato di Gilson, Pittura e realtà, basato su un ciclo di conferenze, e il relativo libro che seguì qualche anno dopo con il medesimo titolo. In questo scritto, Gilson distingue tra tre forme di esistenza di un’opera d’arte: quella puramente fisica, quella estetica e quella artistica. In quanto oggetto fisico, un’opera d’arte non è dissimile da qualsiasi altro oggetto. In quanto oggetto estetico, essa dipende dalla relazione dello spettatore con essa. Un visitatore di una galleria, un corriere, un assicuratore, un pittore o un filosofo hanno ognuno il proprio modo individuale di guardare a un dipinto.1818Come esempio, Gilson riporta un aneddoto su Ingres, il quale si infastidiva quando un corriere non esprimeva la sua opinione su un dipinto; egli fa anche riferimento al modo in cui un dipinto di Tintoretto era stato usato per nascondere il disordine ammucchiato nel sotterraneo di una cattedrale. Cit. in Étienne Gilson, Peinture et réalité, Librairie Philosophique J. VRIN, Paris, 1972 (1998), p. 22 e p. 25.
In quanto oggetto estetico, un’opera d’arte presenta se stessa allo spettatore come un “modus”, una rappresentazione, che ognuno vede in modo diverso. Poichè queste rappresentazioni sono infinite, Gilson considera il punto di vista estetico un approccio essenzialmente inefficace.1919«Questa è la grandezza e la miseria della fenomenologia. Inizia con una filosofia e finisce in letteratura». Ivi, p. 23.
La modalità estetica di esistenza di un’opera d’arte è di natura fenomenologica poiché non ci dice nulla dell’oggetto in sé, ma solo di come esso ci appare (e di come questa apparenza sia determinata dalle nostre capacità e aspettative).
La comprensione dell’arte si acquisisce attraverso uno sforzo pratico.
Per definire un’opera d’arte (come qualcosa di distinto da ogni altro oggetto) senza utilizzare criteri estetici, Gilson la definisce come un oggetto creato da un artista nel contesto della sua attività artistica. In altre parole, questa forma artistica di esistenza è determinata ontologicamente a partire dalle sue cause. Secondo Swennen, la distinzione delineata da Gilson implica che il valore artistico di un’opera d’arte non dipenda dallo sguardo dello spettatore. Essa afferma l’autonomia dell’artista e libera l’opera d’arte dall’aspettativa che essa debba esprimere o significare qualcosa.
La distinzione fatta da Gilson è naturalmente e inestricabilmente legata a una profonda attenzione verso l’esistenza materiale di un’opera d’arte. Utilizzare un approccio estetico all’opera d’arte comporta, tra le altre conseguenze, che le persone identificheranno inevitabilmente riproduzioni o immagini con l’oggetto vero e proprio, rendendo l’originale impercettibile e riducendo il valore dell’esperienza diretta. E infatti, un prominente storico dell’arte ha recentemente definito i dipinti di Swennen, in tutta innocenza, come “immagini finali”. Non solo i dipinti sono spesso percepiti come “immagini”, ma si suppone anche che lo scopo del pittore sia quello di produrre immagini. Gilson mise in guardia dai pericoli della riproduzione già nel 1957. Richiamò l’attenzione sulla follia di ridurre dipinti a immagini, e sulla tendenza ad assorbire tutto il mondo dell’arte nei libri. Chiamò questa tendenza la “dittatura della letteratura”. «Una parola stampata è pur sempre una parola», scrisse, «mentre un dipinto stampato non è un dipinto»2020Étienne Gilson, Painting and Reality, Pantheon Books, New York, 1957, p. 227.
. Per di più, «per entrare a far parte di un libro, un dipinto deve disfarsi della propria materialità».2121Gilson, cit., p. 94.
Le riproduzioni sono sempre esistite. Ma chi un tempo guardava le incisioni che riproducono un’opera d’arte non si dimenticava che quello che stava guardando era un’incisione. E il minimo che si possa dire delle riproduzioni in bianco e nero è che non cercano di essere fedeli ai colori dell’originale. «Lo stile in pittura è inseparabile dalla tecnica», scrive Gilson, «sappiamo che è inseparabile dai materiali. Eliminando la materialità annulliamo quasi un’opera d’arte. Qualsiasi studio degli stili basato su riproduzioni di opere visive si basa su fantasmi».2222Ivi, p. 96. Swennen usa anche la parola “fantasmi” per la formazione, in senso platonico, dell’immagine percepita di un dipinto, la quale secondo alcuni intellettuali sarebbe precedente al dipinto stesso.
Ciò dà origine al fraintendimento che lo studio della storia dell’arte e il comprendere l’arte siano la stessa cosa. La comprensione dell’arte si acquisisce attraverso uno sforzo pratico. «Forse che la conoscenza della storia dell’arte», si chiede Gilson, «in ogni accezione del termine, è una conoscenza dell’arte? Certamente essa è un tipo di conoscenza che riguarda l’arte, ma il suo oggetto di studio non è l’arte, bensì, più limitatamente, la sua storia. […] Per limitarci alla pittura, non è raro vedere genitori con buone intenzioni iniziare i propri figli all’educazione artistica il prima possibile, trascinandoli nei musei d’arte… Questo non è l’inizio di un’educazione artistica; è l’inizio di un’educazione storica».2323Gilson, cit., p. 90.
Scrittori come Giorgio Agamben e Boris Groys hanno recentemente ipotizzato un approccio all’arte che prenda avvio dal fare e dagli artefici, benché non si siano poi imbarcati in tale impresa. «Forse nulla è più urgente», scrive Agamben, «di una distruzione dell’estetica che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’opera d’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte e l’aprirsi di fronte a essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare».2424Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata, 1994, pp. 16-17.
Ammiro il lavoro di Agamben, tuttavia l’idea di neutralizzare l’approccio estetico mi sembra in qualche modo infantile. Sarebbe già saggio ricordare semplicemente che siamo sempre spettatori e che, come tali, dovremmo qualche volta sforzarci di guardare un’opera d’arte dalla prospettiva del suo creatore, della tecnica e dei materiali usati.
Dipingere qualsiasi cosa
Quando compì quarant’anni, Swennen decise di non considerarsi più un poeta, bensì un pittore. La differenza sta in questo, disse a Bart De Baere, che la poesia si occupa fondamentalmente di nostalgia, ovvero del passato e di ciò che è transitorio. La pittura, continuava, parla del futuro. Credo che si debba prendere questa affermazione in senso letterale, e cioè che per Swennen un dipinto è un oggetto che va fatto nascere attraverso delle azioni. Non pre-esiste.2525Si potrebbe certamente dire lo stesso di una poesia, e non c’è bisogno di sottolineare che questa affermazione non è valida per ogni quadro. Ma si capisce cosa intende: gli sforzi di Swennen per creare un quadro che non si basi su esperienze o pensieri già esistenti.
Nell’ottobre del 1986 Swennen scrisse una lettera in cui si legge:
«…riuscire a dipingere una cosa qualsiasi [n’importe quoi], ecco l’ideale. Chiunque non abbia fatto l’esperienza di dire una cosa qualsiasi potrà interpretare la mia affermazione come una battuta. Eppure è il mio ideale, la difficoltà estrema. […] La chiave: la premeditazione è sempre un’aggravante».
L’idea di provare a dipingere una cosa qualsiasi mi ricorda la “scoperta” nietzschiana dell’eterno ritorno. È un’immagine assurda, che però funziona. Se infatti ci si immagina che le proprie azioni saranno ripetute infinite volte, esse assumono una pesantezza inaspettata, forse anche un significato. Alcune idee sembrano rafforzare la nostra presa sulla realtà. Certamente non si può creare dal nulla, ma se trovassimo un modo per permettere agli oggetti di “pensare” al nostro posto, allora non staremmo tutto il giorno a maneggiarli…
L’idea di dipingere una cosa qualsiasi deriva dallo psicoanalista Jacques Lacan, il quale rimpiazzò la regola di base del metodo freudiano, cioè che i pazienti condividano con il loro analista “qualunque cosa pensino”, con l’invito a “dire qualunque cosa, senza paura di dire stupidaggini”. Tale esortazione si basava su un punto fondamentale, e cioè che il disagio del paziente è inconoscibile e inimmaginabile. Capiamo che tale disagio è intimamente legato al linguaggio, perché siamo esseri parlanti, ma questa è anche la ragione per cui il linguaggio ci delude se viene usato coscientemente come strumento di ricerca finalizzato. L’analista e il paziente spiegano le vele verso un mare di storie intrecciate e senza direzione, tra parole che si spostano e si capovolgono, finché qualcosa succede. Dal momento che l’uso cosciente del linguaggio da parte del paziente risulta insufficiente, si considerano le parole come suoni che possono avere significati alternativi. Esse diventano dei gusci vuoti, che possono condurre a nuove esperienze o intuizioni attraverso associazioni o connessioni inedite.
Swennen prova a fare quadri che restano “inimmaginabili” sino al momento in cui esistono materialmente. Impiega materiali, strumenti, tecniche, colori, forme, ingrandimenti di disegni, parole e lettere, sforzandosi il più possibile di tenere tutte queste cose lontane da un “significato”, utilizzandole come forme vuote, come puri significanti. Per esempio, le lettere hanno delle belle forme, del tutto indipendenti dal suono che rappresentano o dal significato che associamo a questo suono. Un triangolo può essere letto come una bandiera, un tetto o un cappello. Un cappello a cilindro può essere letto come una T a testa in giù. [Fig. 1: Chinese Yellow, 2014,] [Fig. 2: T, 2011]
«Mallarmé», spiega Mannoni in Clefs pour l’Imaginaire ou l’Autre Scène (1969), «era indubbiamente un poeta, anche se non aveva nulla da dire; dunque, la poesia andava cercata altrove e non in ciò che veniva detto. Sin dall’inizio, è stato un esperimento sul linguaggio piuttosto che un esperimento esistenziale». «Nel caso di Mallarmé, ciò che rende la critica letteraria così goffa», continua Mannoni, «è che il tesoro sta nascosto dietro al significato (come lui stesso ha affermato), laddove una “radicata abitudine a voler capire” ci costringe a ricercare un significato dietro alle parole. Il tesoro è la ricchezza, i gioielli e le perle degli effetti del linguaggio in tutto il loro disadorno splendore – giochi di parole, assonanze, ambiguità, metafore, metonimie e così via».2626Mannoni, cit., pp. 258-259.
E se rimane comunque un significato chiaro rintracciabile nella poesia, dice Mannoni, allora è solamente per renderla tollerabile in quanto gioco con le parole. Grazie a questo elemento riconoscibile, il poeta e il lettore possono augurarsi reciprocamente un soddisfacente arrivederci, entrambi liberi di fare come più piace loro (creare qualcosa o scoprire un significato).2727Swennen crede che sia per la stessa ragione che egli aggiunge il disegno ai suoi dipinti, anche se non ne è pienamente sicuro.
Nel suo testo Poésie et pensée abstraite, Valéry racconta un aneddoto su Mallarmé riportato da Edgar Degas.2828Paul Valéry, Variété V, Gallimard, Paris, 1945, p. 141 e p. 143 (Il corsivo è di Valéry). (Ed. it.: Varietà, a cura di Stefano Agosti,, Rizzoli, Milano, 1971; Cf. anche:Varietà, a cura di Stefano Agosti, SE, Milano, 1990).
Un giorno, durante una conversazione con un poeta, Degas enfatizzò la sua ammirazione per la maestria di Mallarmé menzionando che lui stesso aveva molte buone idee per scrivere poesie, ma era incapace di svilupparle. «La poesia non si fa con le idee, mio caro Degas», rispose Mallarmé, «ma con le parole». Due pagine più avanti, Valéry descrive come una frase, apparsa durante una normale conversazione, acquistò una vita propria nella sua testa. «Essa ha acquisito un valore», dice, «un valore al costo del suo limitato significato».
Secondo Mannoni, non si dovrebbe cercare significati specifici nelle opere di Mallarmé, che starebbero nascosti dietro all’uso astratto ed evocativo del linguaggio, bensì gli effetti creati dal gioco di parole, dalla sintassi e dalla tipografia. Chiunque si aggrappi al significato mancherà di trovare il tesoro. E questo vale non solo per la psicoanalisi lacaniana, ma anche per gli storici dell’arte e, in modo particolare, per i creatori di dipinti e di poesie.
Essendo stato in analisi, Swennen comprese immediatamente che il suo nuovo “metodo” (cercare di dipingere una cosa qualsiasi) era poco più che una stampella, poiché è davvero molto difficile dire o fare una cosa qualsiasi. Cruciale è che quest’idea gli abbia procurato un modo di creare opere interamente concepite dal punto di vista del creatore (opposto a quella dello spettatore), libere dalla cosiddetta necessità di esprimersi, di condividere o di dimostrare qualcosa.
Al contempo, sappiamo che tutto ciò che facciamo prende inevitabilmente le tinte del nostro passato, della nostra educazione, delle cose che abbiamo visto, di quelle che abbiamo razionalizzato o represso e delle cose apparentemente ordinarie che avremmo potuto dimenticare.2929L’idea che gli oggetti portino le tracce inconsapevoli dei loro creatori, o delle culture da cui emergono, deriva probabilmente da Nietzsche e Marx. Derrida sviluppò questo concetto meravigliosamente, divertendosi a dipanare delle storie per vedere cosa ne sarebbe rimasto alla fine. Ma anche Freud e Lacan elaborarono questa idea, considerando i nostri sogni, errori, battute e addirittura i nostri prodotti linguistici come accessi segreti ai desideri sessuali repressi e alle immagini infantili; forze che dominerebbero le nostre vite senza che ne siamo consapevoli.
Tutte le nostre parole, creazioni, azioni e persino la nostra inattività ci raccontano qualcosa, che ci piaccia o no. Ma questo non è un problema fintanto che non confondiamo la loro storia con il cosiddetto significato o, peggio, con l’intenzione o con l’idea che le avrebbe originate.
Incidenti provocati
«Per l’artista», scrive Šklovskij, «il mondo esterno non è il contenuto di un quadro, ma il materiale per un quadro. Giotto disse: “un quadro è prima di tutto una congiunzione di piani colorati”. […] Il pittore realistico Surikov era solito dire che l’“idea” del suo famoso quadro Morozova, la moglie del boiardo gli venne in mente vedendo un uccello nero sulla neve. Per lui questo quadro era prima di qualsiasi altra cosa un “bianco su nero”».3030Sjklovski, cit., p. 127.
«Uno dei quadri che feci nel 1946», disse Francis Bacon a David Sylvester, «quello che sembra un’immagine di una macelleria, venne alla luce per sbaglio. Stavo cercando di dipingere un uccello mentre si posa su un campo. E può darsi che fosse collegato in qualche modo alle tre forme realizzate prima, ma all’improvviso le linee che avevo disegnato mi suggerirono qualcosa di completamente diverso, e seguendo questo suggerimento nacque questo quadro. Non era mia intenzione fare questo quadro; non lo avevo assolutamente pensato in quel modo. Era come un continuo susseguirsi di incidenti che si sovrapponevano uno all’altro».3131David Sylvester, Interviews with Francis Bacon, Thames & Hudson, London, 1975 (2009), p. 11. (Ed. it.: Interviste con Francis Bacon, Skira, Torino, 2003; Cf. anche Francis Bacon, La Brutalità delle cose: conversazioni con David Sylvester, introduzione di Piero Guccione ed Enzo Siciliano, trad. di Nadia Fusini, Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991).
Più volte Bacon prova a convincere Sylvester dei suoi strenui tentativi di raggiungere la somiglianza rinunciando agli elementi mimetici o anatomicamente corretti. È difficile, dice, perché non sai come debba procedere la ricerca degli elementi.3232Ivi, p. 105.
Appare un po’ strana la resistenza che Sylvester oppone su questo punto, ma il suo atteggiamento non è poi così importante. L’essenziale è che esiste un bellissimo libro, in cui uno che pratica la pittura prova a spiegare che è l’atto del dipingere a condurre verso risultati imprevedibili.
«Le cose vanno sempre diversamente da come uno se le aspetta».3333Viktor von Weizsäcker, Le cycle de la structure (Der Gestaltkreis), tradotto dal tedesco da Michel Foucault e Daniel Rocher, Desclée de Brouwer, Brussels, 1958, p. 124. (Ed. it.: Viktor von Weizsäcker, La struttura ciclomorfa. Teoria dell’unità di percezione e movimento, a cura di P. A. Masullo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995). Anche Von Weizsäcker cita questa frase. Considerando varie ipotesi rispetto a certe forme di agnosia [disturbo della percezione, N.d.T.], l’autore sostiene che la realtà, che è sempre più complessa di quanto si possa prevedere, richiede una grandissima apertura dal punto di vista scientifico, e la consapevolezza di quanto un’ipotesi influenzi (crei, in un certo senso) la realtà osservata.
Questa frase, citata occasionalmente da Swennen, è una citazione dal libro del medico tedesco Viktor von Weizsäcker, che tentò di sviluppare una teoria dinamica della medicina e di dimostrare che una gran parte dei problemi medici insolubili sono collegati a domande inadeguate, che a loro volta portano a conclusioni obsolete e paradossali. Una teoria dinamica, sembra dire, dovrebbe tenere sempre presente che i sintomi sono essi stessi dinamici, perché rispondono (con la mediazione del cervello) a un mondo che è in costante movimento e che, a sua volta, viene influenzato dalle reazioni fisiologiche in questione. Uno scienziato deve pensare come un giocatore di scacchi“…Uno scienziato deve pensare come un giocatore di scacchi”, dice Von Weizsäcker, ovvero come qualcuno che, pur a conoscenza delle regole, non può mai prevedere cosa accadrà, dato che ogni mossa modifica le possibilità dell’avversario.3434Il movimento organico è deliberato, il che significa che solo l’atto determina il risultato finale.
Gli scacchi rappresentano forse un esempio eccessivamente statico, oltre a evocare connotazioni negative in un contesto artistico. E tuttavia essi contengono l’idea di un’imprevedibilità in continuo cambiamento. Un’immagine migliore, che Swennen ha citato in varie situazioni, è quella di qualcuno che attraversa la strada e, per evitare di essere investito da un’auto, accelera o rallenta l’andatura.3535Se attraverso la strada mentre sta arrivando un’automobile, non taro la velocità del mio passo in relazione a uno stimolo sensoriale tangibile che influenza la mia percezione – dunque non si tratta di un mero riflesso – taro la velocità del mio passo in relazione alla predizione di ciò che l’auto farà. […] Lo “stimolo” che mi fa cambiare l’andatura è la collisione immaginata, che non avverrà mai. Ivi, p. 172.
Sfortunatamente, entrambi gli esempi riguardano processi consci, laddove Von Weizsäcker si occupa degli innumerevoli, invisibili e inconsci agenti della percezione, che potrebbero influenzare un processo fisiologico. Inoltre, Von Weizsäcker è interessato al modo in cui gli scienziati distorcono inconsapevolmente il soggetto delle loro ricerche attraverso i processi che utilizzano per osservarlo e descriverlo. Gli scienziati dovrebbero essere consapevoli del fatto che essi creano la realtà attraverso il modo in cui la misurano o la concepiscono.3636«Il compito della scienza non è quello di spiegare i fenomeni, ma di produrre realtà». Ivi, p. 187.
Ritroviamo facilmente entrambi questi livelli nella pittura. In primo luogo, nel momento in cui un dipinto viene creato attraverso una serie di osservazioni, azioni ed eventi (per esempio il modo in cui la pittura si comporta: come scorre, ricopre o asciuga), fattori che si influenzano mutuamente; e poi successivamente, quando arriva qualcuno di esterno e riduce il dipinto in questione a una semplice relazione causa-effetto (o idea originaria-risultato), fraintendendo così l’opera.
«…Molte cose sono viste dagli esseri umani solo in seguito a un processo di apprendimento, e tutto ciò che non impariamo a vedere rimane non visto», scrive Von Weizsäcker. «Pittori e scultori conoscono questo apprendistato meglio degli psicologi». Allo stesso tempo, continua, i pittori non sanno rappresentare una crisi epilettica o una persona che soffre, perché non sanno come si muove un uomo in modo oggettivo (in termini fisici o patologici). «Quando vengono semplicemente guardati, il corpo e i movimenti si rivelano in modo differente all’artista, al sarto, al ginnasta e al medico».3737Ivi, pp. 108-109.
In queste frasi possiamo riconoscere l’idea di Gilson riguardo all’approccio fenomenologico o estetico all’arte, e la difficoltà di vedere le cose dalla prospettiva della loro “causa” oggettiva. Pittori, visitatori di gallerie, corrieri, assicuratori e storici dell’arte: ognuno vedrà il dipinto in modo diverso.
Se non si impara a guardare un dipinto come un pittore, non si potrà vederlo come lo vede un pittore. La manifestazione artistica resta invisibile. Questo è ciò che Von Weizsäcker ci insegna. Cosa non necessariamente negativa. Posso anche guardare un dipinto come un topo da biblioteca che non ha mai prodotto qualcosa con le sue mani. Ma dovrò ricordare che in larga parte esso cade al di fuori del mio campo visivo.
Chiunque speri di imparare a vedere un dipinto dal punto di vista del suo creatore, incontrerà un ostacolo, che considereremo ora a partire dalle idee di Von Weizsäcker sulla percezione del mondo da parte di un osservatore, dove entrambi, mondo e osservatore, sono in movimento. «Sono stati scritti molti libri eruditi sulla poesia», disse Czeslaw Milosz, «e tali libri, almeno in Occidente, trovano molti più lettori delle poesie stesse. […] Un poeta che aspiri a competere con queste montagne di erudizione dovrebbe fingere un’autocoscienza molto maggiore di quella che i poeti possono avere. […] A essere onesti, ho speso la mia vita schiavo di un demone; e di come si siano formate le poesie che egli mi dettava, io non ne ho idea».3838Cit. in Jerome Bruner, Actual Minds, Possible Worlds, Harvard University Press Cambridge, Massachusetts e London, 1986, p. 3 (Ed. it.: La mente a più dimensioni, trad. di Rodolfo Rini, Laterza, Roma-Bari, 1998).
Ogni volta che ci proponiamo di considerare l’esistenza artistica di un’opera d’arte (vale a dire: l’opera considerata dal punto di vista di chi la produce e dal punto di vista della sua fattura), siamo ostacolati dal fatto che un artista raramente sa con esattezza cosa sia successo durante il processo creativo.3939«…La pittura è così malleabile che non sai mai davvero», dice Bacon a Sylvester. «È un medium talmente straordinario che non sai mai davvero cosa farà la pittura. Voglio dire, non lo sai nemmeno quando la applichi scrupolosamente con il pennello – non sai mai davvero come si comporterà. […] Non ho idea di come siano uscite queste forme. […] Le guardo probabilmente da un punto di vista estetico. So cosa voglio, ma non so come farlo. E le guardo quasi come un estraneo, non sapendo come siano saltate fuori queste cose, né perché questi segni, che sono comparsi sulla tela, si siano evoluti in queste forme particolari». Sylvester, cit., p. 93 e p. 100. Naturalmente, ogni artista è diverso. Swennen non è un ammiratore di Bacon. Né vuole sapere in anticipo cosa farà. Le frasi di Bacon sembrano suggerire che il quadro dipenda parzialmente da gesti ampi e non controllati, il che tende a oscurare l’effettiva ricerca dell’imprevedibile. E tuttavia le parole di Bacon rimangono importanti.
Potrà ricordarsi qualcosa, certe volte. Al netto della questione di quanto un’esperienza venga mutilata dal ricordo attraverso il processo di classificazione e di “stoccaggio”, rimane il problema che – dato che si tratta di un evento multidimensionale, sia in termini psicologici che fisici (evento durante il quale sia il materiale che l’artefice sono altrettanto attivi) – il momento creativo non può mai essere articolato senza attribuirgli un carattere unidimensionale, lineare e apparentemente teleologico. Si percepisce immediatamente la presenza di idee, intenzioni, decisioni e criteri; ma questi – che possono benissimo esserci, non foss’altro che a causa di automatismi e abitudini – giocano un ruolo meno importante di quanto si possa credere; soprattutto quando, da esterni, vi si pensa a cose fatte.
Il pittore/la pittrice non sa perché prende certe decisioni. Per far succedere qualcosa? O per evitarlo? La persona che accelera o rallenta il passo attraversando la strada, lo fa solo per evitare una collisione immaginata nella sua mente. Secondo Swennen, Deleuze era interessato al fatto che Cézanne avesse notato come la gran parte del lavoro del pittore avvenisse prima di cominciare a dipingere materialmente una tela: determinando quello che non sarebbe stato dipinto. È ovvio che un pittore che voglia essere innovativo deve rifuggire continuamente tutti quegli elementi (immagini, composizioni, texture, connotazioni) che suggeriscono o impongono una soluzione precostituita. Non sappiamo quel che deve succedere, ma sappiamo quel che non vogliamo succeda. «Un dipinto» dice Swennen, «cambia in relazione a uno stadio che ha già raggiunto, non in relazione a uno stadio che vorremmo avesse in futuro». Reagiamo a quello che è già presente, nella speranza di innescare un evento che ci porti avanti.4040Un esempio di come un dipinto (cf. Chinese/Yellow, 2014) possa essere realizzato: Swennen ricopre uno sfondo rosso scuro con uno strato di giallo. Poi usa un pennello con la punta a forma di cipolla per disegnare una linea verticale sulla pittura ancora fresca. All’inizio usa un tocco leggero; mentre procede, applica un po’ più di pressione e la linea si allarga. Avendolo notato, decide di lasciare che la linea si assottigli verso la fine. Ѐ un segno elegante. C’è una piacevole cresta lungo il lato sinistro e destro. Avendo sospinto la pittura ai lati, letteralmente, lo strato sottostante rimane parzialmente visibile. Alla destra o alla sinistra della prima linea ne dinge una seconda, che comincia leggermente più in basso. Decide di farla appena più corta. Ripete quest’azione più volte… Guardando il risultato, pensa: Incredibile! Un frutto esotico, ma non so come si chiama. Ѐ un frutto cinese». A questo punto aggiunge un triangolo, un’appendice che lo fa sembrare come una testa con un cappello asiatico a forma di cono. Alla fine, dipinge i pittogrammi cinesi per la parola “Senza titolo” (perché non conosce il nome del frutto). A proposito delle azioni con cui si asporta la pittura: in Abstrakzyon 1 [Fig. 3: Abstrakzyon 1, 2016], i contorni di un “piccolo cane” sono formati da larghi punti, creati usando un vaporizzatore domestico per soffiare via lo strato più superficiale di pittura quando è ancora bagnato.
Agire tatticamente (Sistema D)
Herbie Hancock racconta come, durante un concerto a Stoccarda, sbagliò l’accordo nel bel mezzo di un assolo di Miles Davis. Terrorizzato, si coprì il volto con le mani. In quella frazione di secondo, sentì Devis esitare un attimo, e poi iniziare a suonare una serie di note che trasformarono il suo accordo “sbagliato” in uno corretto.4141Swennen ama il jazz. La correlazione tra questo genere musicale e i suoi dipinti è basata principalmente sui tre punti seguenti: un approccio contrappuntistico o contro-ritmico (per es. Thelonious Monk); un suono inespressivo, senza-parole, quasi neutrale (per es. Lennie Tristano); e l’improvvisazione su melodie di repertorio o popolari, in cui il tema ritorna occasionalmente, simile a un’immagine riconoscibile in una poesia di Mallarmé, o un disegno, un colore o una texture riconoscibile in un dipinto di Swennen (per es. Albert Ayler e Sonny Rollins).
L’idea di uno spazio multidimensionale, in cui l’artista simultaneamente si muove, pensa e agisce, fa pensare alle difficoltà incontrate da ballerini, attori, musicisti e cantanti quando si esibiscono pubblicamente. Anche loro hanno a che fare con fattori in continuo cambiamento e mai interamente prevedibili: il carattere e la potenzialità dei loro strumenti; l’interpretazione della partitura o del testo; la resa degli altri attori, l’architettura del teatro, la reazione del pubblico e così via. Il piacere di essere parte di uno spazio fluido, influenzato dai propri movimenti, dalle proprie decisioni e azioni, aumenta indubbiamente l’attrazione per ogni performance musicale, di ballo o teatrale, o per lo sport, e forse anche per la pittura. Non in modo “gestuale”; che è ciò che pare fare Sylvester, quando paragona le azioni di Bacon alla velocità del braccio del tennista (che si muove prima che la decisione sia stata presa).4242«…Non sei tu che hai giocato quel tiro ma è il tiro che ha giocato te». Cit. in Sylvester, cit., p. 96.
La somiglianza tra questi campi diversi non sta nella velocità (o nell’espressione), ma in un modo particolare di pensare spazialmente, un processo che può essere molto lento, come di solito è il caso di Swennen.
Un quadro di Swennen è il risultato di un limitato numero di interventi, solitamente distribuiti in più momenti, in cui ogni nuova azione è una risposta agli effetti delle azioni e degli eventi che l’hanno preceduta. Nato da un desiderio strategico di provocare incidenti inimmaginabili e imprevedibili come parte di un’interazione multidimensionale con i materiali fisici e intellettuali, questo modo di procedere non può che essere tattico. Il pittore ha messo a punto una pratica che implica degli incidenti e consiste in una forma di vigilanza volta ad apprezzare come dovute le opportunità che si presentano. I dipinti di Swennen si formano lentamente e implicano lunghi periodi di inattività, in cui egli si dedica a ciò che fin lì è emerso. Questa lentezza non è in contraddizione con un approccio tattico che mira ad andare oltre le idee preconcette o le intenzioni.
Un esempio pertinente di questo tipo di pensiero tattico è il bricolage, come definito da Claude Lévi-Strauss: l’accumulazione di un’abbondanza di oggetti, raccolti senza alcuna idea su ciò a cui potrebbero servire.4343Non sono d’accordo con l’affermazione secondo cui il bricolage sia tipico dell’arte belga. Non solo perché è regressivo caratterizzare gli artisti in base ai confini nazionali, ma anche a causa delle connotazioni derogative associate alla parola bricolage. Guardando attraverso gli occhi di Lévi-Strauss, sembrerebbe che qualsiasi artista, se non riesce a discostarsi da idee o intenzioni, stia inevitabilmente facendo del bricolage.
Anche se l’utilizzo di un oggetto immagazzinato è già predeterminato dalla sua funzione precedente o da un numero di attributi che gli vengono associati, esso viene comunque impiegato in nuovi e sorprendenti modi. L’intero processo, sia in termini di raccolta che di utilizzo degli oggetti, è tattico. Lévi-Strauss ha usato questo concetto per spiegare il modo in cui, probabilmente, i miti sono stati messi insieme a partire da frammenti di altre culture più antiche, dove «qualcosa che una volta era un obiettivo, ora assume il ruolo di mezzo: il “significato” diventa “significante” e viceversa».4444Claude Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris, 1962, pp. 28-29, (Ed. it.: Il pensiero selvaggio, trad. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano, 1964).
Un’azione tattica, radicale, non dà credito a tradizioni, funzioni o significati. Essa reagisce. Chiarisce le cose. Cerca soluzioni per problemi autoassegnati. «I miei dipinti», ha detto Swennen durante una conferenza nell’aprile del 2016, «evolvono da una riparazione all’altra, da una toppa all’altra». «Quando dipingi», disse a Bart De Baere nel 1990, «dovresti sempre reagire alle cose che penetrano dall’esterno, qualcosa che tu stesso hai stabilito all’ultimo momento. Reagisci a quello che è già lì. Lo hai prodotto tu stesso, ma è lì, e tutto quello che puoi fare è iniziare un dialogo con esso. Per questo cambia continuamente».4545Bart De Baere, Walter Swennen. N’importe quoi, in “Artisti (della Fiandra) / Artists (from Flanders)”, 1990, pp. 89-92. Al tempo, Swennen parlava di un’immagine mentale che precede il dipinto, anche se la comparava, rifacendosi a un’osservazione di Sartre, a un’immagine sognata del Partenone, in cui non si può contare il numero delle colonne. «Ma se dipingi, devi contare le colonne».
Ripensando all’immagine di Von Weizsäcker di un’osservazione che influenza e, addirittura, dà forma alla realtà osservata (sia che si tratti di un pedone che attraversa la strada, un medico che osserva, un pittore al lavoro o uno storico dell’arte che scruta), diventa evidente che le arti, forse, si sono da sempre sviluppate in modo tattico. Se ne possono trovare molti esempi calzanti nel libro Come funziona la musica, del musicista David Byrne. Egli fa notare che secondo alcuni i tamburi africani devono la loro forma peculiare alla disponibilità dei materiali, inevitabilmente poveri, e alle limitate risorse tecniche. Al contrario, Byrne crede che questi strumenti musicali siano stati meticolosamente sviluppati, costruiti, maneggiati e suonati in risposta all’ambiente fisico, sociale e, specialmente, acustico. La musica a percussione che ne deriva non è adatta alle nostre chiese di pietra con le loro eco. In questi luoghi, tuttavia, abbiamo sviluppato una musica modale basata su note lunghe e sostenute. Oppure si pensi alla musica da camera di Mozart, che doveva competere con il rumore della folla in uno spazio ristretto. L’unico modo per amplificare il suono, al tempo, era di aumentare la dimensione dell’orchestra, che è esattamente quello che accadde. Le dimensioni sempre maggiori delle sale da concerto costruite durante il XIX secolo generarono maggiori contrasti e portarono all’uso dei timpani nelle composizioni musicali (in modo da raggiungere gli ascoltatori al fondo dell’auditorium). Attorno al 1900, divenne illegale mangiare, bere o fare rumore durante un concerto di musica classica. Di conseguenza, i musicisti potevano permettersi di includere nelle composizioni dei passaggi più delicati. In tutta probabilità, gli assoli e le improvvisazioni associate alla musica jazz scaturirono dalla limitatezza del materiale musicale disponibile e dal bisogno di far ballare la gente tutta la notte. Nel jazz, inoltre, il banjo e la tromba assunsero un ruolo di spicco perché capaci di un volume più alto. (Questo tipo di sviluppo dimostra che le evoluzioni musicali possono aver stimolato modifiche spaziali). Verso la fine del XIX secolo, si sono fatti grandi progressi tecnologici nelle tecniche di incisione (come la litografia), le quali, a loro volta, hanno influenzato la sonorità della musica. Byrne, per esempio, nota che il MIDI (Musical Instrument Digital Interface) era più adeguato alla digitalizzazione del pianoforte e delle percussioni che non a quella della chitarra, degli ottoni e degli strumenti a corde. Di conseguenza i compositori hanno cominciato a creare melodie e armonie usando gli accordi del pianoforte. Un’altra influenza fondamentale è legata al sorgere di studi di registrazioni isolati acusticamente e all’abitudine di registrare le parti musicali separatamente, e così via.4646David Byrne, How Music Works, Canongate, Edinburgh/London, 2013, pp. 15-27, 136, 148-154. (Ed. it.: Come funziona la musica, trad. di A. Silvestri, Bompiani, Milano, 2013.) Inoltre, Byrne descrive come lui e Brian Eno componevano musica sulla base delle parole che erano successivamente aggiunte alla musica: «Fare esclusivamente affidamento su voci trovate risolve anche un problema di contenuti: le parole della canzone non sarebbero chiaramente derivate da materiale biografico o confessionale. Spesso, quello che i cantanti dicevano davvero non ci importava per nulla. Era il suono delle loro voci – la passione, il ritmo, la pronuncia – a trasmettere contenuto emotivo. […] Non importa se sia effettivamente successo qualcosa allo scrittore o alla persona che interpreta la canzone. Al contrario, sono la musica e i testi a scatenare le emozioni dentro di noi, piuttosto che all’inverso. Noi non facciamo musica – la musica fa noi. Che è forse il punto centrale di questo libro» (ivi, p. 158 e p. 162). Byrne inoltre sottolinea che la texture (il suono, l’arrangiamento o il ritmo) della musica viene sempre trascurata, per esempio in relazione al copyright, poiché non può essere documentata in nessuna forma di trascrizione (ivi, p. 166).
In modo simile, certi sviluppi nell’arte della pittura sono stati influenzati dall’invenzione di miniature ingrandite e portabili, dagli edifici dei musei, dall’educazione artistica, dal mercato dell’arte, dalla fotografia, dalle tecniche di riproduzione e dall’invenzione di nuovi materiali. Quindi, la creazione di libri sull’arte con riproduzioni a colori, e, più avanti, la creazione di cataloghi hanno indubbiamente influenzato lo sviluppo dell’arte moderna e contemporanea.4747Per esempio: «Che la nostra visione dell’arte sia stata trasformata dalla fotografia è ovvio. […] Eppure, ed è largamente influente, possiamo assistere all’espandersi di un’immaginazione pittorica e scultorea in armonia con la trasposizione fotografica. […] Ci si domanda spesso se l’ultima speranza di un pittore o scultore oggi, a parte avere i propri lavori esposti in un museo, non sia quella di vederli diffusi per mezzo di fotografie e di libri a immagini completi. […] Il catalogo è diventato una forza estetica» (Edgar Wind, Art et Anarchie, Gallimard, Paris, 1985, pp. 102-105 e p. 186. Ed. it.: Arte e anarchia, trad. di J. Rodolfo Wilcock, Mondadori, Milano, 1972; Cf. anche Arte e anarchia, trad. di J. Rodolfo Wilcock, Adelphi, Milano, 1985).
La fruizione di film od opere d’arte sullo schermo del computer o dello smartphone ha generato nuovi dipinti. Per quanto riguarda Swennen, potremmo anche suggerire il fumetto come possibile influenza, ma di questo tratteremo più avanti. Insomma, il pittore si trova nel mezzo di un mondo in movimento, un ambiente influenzato dalle sue azioni e da quelle di chiunque altro. Ma la reazione a questo mondo non avviene solamente all’interno di uno spazio psicologico, o reale (vale a dire nello spazio espositivo), o virtuale (lo spazio dei libri, della televisione e di Internet). Avviene anche nello spazio fisico del dipinto. È lì che la totalità di un mondo in movimento viene ripresa in uno spostamento tangibile, una condensazione tangibile, una confluenza tangibile, un offuscamento o una rivelazione tangibili, uno spostamento tangibile dei confini fisici, e quindi anche mentali. Senza lo sviluppo e la distribuzione dei libri a fumetto, forse Swennen non avrebbe mai sviluppato l’abitudine di disegnare con una linea sottile, o più avanti, non avrebbe ricercato tecniche specifiche per trasformare gli ingrandimenti dei disegni in dipinti in una modalità “non disegnata”.
La texture stessa
Se i quadri di Mallarmé non sono composti di idee bensì di parole, allora i quadri di Swennen sono fatti, in primo luogo, di strati di vernice applicati su un supporto – tipicamente carta, legno, tela o metallo. È impossibile compilare una lista esaustiva dei supporti, perché Swennen, a differenza di altri artisti, non si limita a pratiche predefinite. La prima opera d’arte che espose fu una cassa di birre riempita con bottiglie dipinte. Nell’aprile 2016 ha creato una bandiera dipingendo su un pezzo di stoffa rosa; una settimana più tardi ha dipinto sopra una sezione della porta la rappresentazione di un muro a mattoni. Recentemente gli è stato regalato un coprifornello sapendo che ama dipingerci sopra; altri gli hanno regalato dei quadri venuti male o delle casse di vino. Dieci anni fa mi raccontò che all’inizio sfregava i coprifornello con l’aglio perché un restauratore gli aveva detto che ciò avrebbe facilitato l’adesione della pittura a olio. Uno dei dipinti su coprifornello [Fig. 4: Losange, 2006] comprende un disegno eseguito con un pennello elettrico di metallo. E così via…
In anni recenti, Swennen ha anche cominciato a dipingere ad acrilico, un medium che rivaleggia con l’olio per la quantità di effetti affascinanti che si possono ottenere. Il vantaggio principale dell’acrilico è che asciuga rapidamente. Per cui ci sono cose che si possono fare con questo medium ma non con l’olio. E così, in anni recenti Swennen ha prodotto diversi dipinti che contengono un tipo particolare di macchie con bordi molto netti; un tipo di macchia ottenuta rimuovendo il colore, [Fig. 5: Ice Crown, 2015] [Fig. 6: Max Sagt, 2015] steso molto liquido, quando ha già cominciato ad asciugare. Poiché i bordi asciugano prima, ne emerge un contorno che si può vedere come forma astratta o come “finestra” all’interno del quadro. Questa tecnica permette anche di dare alle lettere un contorno colorato in maniera singolare [Fig. 7: Feed the Fish, 2015], un contorno che non si riuscirebbe a ottenere altrimenti: ricalcate le lettere con l’acrilico, lasciate asciugare qualche minuto e poi rimuovete la pittura. L’asciugatura più rapida [dell’acrilico] rende anche possibile degli esperimenti che erano impossibili con la tecnica a olio. Recentemente Swennen ha ottenuto una bella superficie azzurro-cielo [prima coprendo con del grigio di Payne la superficie del quadro e poi dipingendoci sopra con del bianco di zinco mischiato con un pizzico di bianco di titanio]. Per dare al grigio sottostante un effetto sfumato, ha inclinato il quadro quattro volte: il colore fluiva lentamente verso in centro, diventando più rarefatto e trasparente sui bordi. A Swennen piace lasciar fluire il colore lentamente sulle superfici dei suoi lavori, perché ciò produce effetti imprevedibili (anche se cerca di evitare le sgocciolature, che hanno una connotazione espressiva). Mi ha raccontato di quanta soddisfazione gli ha dato lo sfondo di To Mona Mills (2015, Fig. 8), perché era riuscito a dipingere una specie di caos, che parrebbe impossibile da realizzare ad hoc. Lo aveva ottenuto appoggiando la tela per terra e applicandoci sopra colore e acqua, che poi aveva tentato di miscelare con un lavavetri, stando il più attento possibile a non far sgocciolare il liquido oltre il bordo della tela.
Una tecnica che Swennen ha sviluppato per trasferire disegni o lettere su un quadro è quella di applicare del colore su un foglio di plastica, utilizzando un pennello o spremendolo direttamente dal tubetto. A questo punto, utilizzando il foglio di plastica, imprime l’immagine sulla tela. Il primo dipinto in cui questa tecnica è stata usata conteneva una grezza rappresentazione di un abete, realizzata con una spatola. [Fig. 9: Untitled (Denneboom P), 1993] Dal momento che l’artista voleva aggiungere una lettera su quella superficie accidentata, cosa quasi impossibile con un pennello, dipinse prima la lettera su un sottile e flessibile foglio di plastica. Usando un rotolo di tessuto riuscì, premendo, a far penetrare il colore steso sulla plastica fin dentro le scanalature del colore sottostante. Non solo gli effetti dell’utilizzo di questa tecnica sono sempre diversi, ma sono anche incomprensibili se non si sa come sono stati ottenuti.
Un’altra texture specifica dell’opera di Swennen deriva dalla sua passione per l’uso della spatola, una tecnica appresa da Claire Fontaine, da cui prese lezioni di pittura per tre anni, a partire dal 1962. Fontaine dipingeva paesaggi schematici nello stile di Nicolas de Staël in cui un albero, per esempio, è rappresentato da una superficie rettangolare di colore verde spalmata sulla tela con la spatola. Da lei, Swennen ha imparato che l’impasto pittorico può essere applicato con la spatola e successivamente lavorato con il pennello.4848Rembrandt usava una spatola per evocare, per esempio, la texture dei tessuti. Se si guarda al vestito di La sposa ebrea (Rijksmuseum, Amsterdam), si nota che aveva usato una spatola anche per grattare via la pittura. Anche Tiziano dipingeva con la spatola. Riguardo a quest’ultimo, ho letto che una delle ragioni per cui La morte di Atteone (National Gallery, Londra) è considerata non-finita è data dall’assenza di “scumbles”: piccole macchie di vernice secca che l’artista applicava sulla superficie del dipinto con le dita (come tocco finale). Vedi Nicholas Penny, The Sixteenth Century Italian Paintings. Volume II. Venice 1540-1600, National Gallery Company, London, distribuito da Yale University Press, 2008, pp. 248-252.
Nei quadri di Swennen, la spatola è spesso usata per creare uno strato che si distingue chiaramente dagli altri e, attraverso la sua diversa texture, dimostra la struttura composita del quadro, simile a un collage. In aggiunta, questo spesso strato, indipendentemente da come sia stato applicato (che sia tamponato, a macchie o spalmato con un gesto ampio), può anche offrire un effetto ottico sviante. In Blitz (2015, Fig. 10), una striscia gialla spezzata, che ricorda un lampo, spicca agli occhi. Dato che questa striscia è stata applicata con una spatola tra due strisce parallele di nastro adesivo, assomiglia decisamente al nastro adesivo stesso, dando vita a un attraente rovescio scultoreo, tanto ingannevole quanto divertente. Per un altro dipinto recente ha ottenuto un effetto pulendo ripetutamente [Fig. 11: Transformations, 2016] la spatola contro la tela con ampi gesti. Eseguito in diversi tipi di rosso, il risultato ha risonanze dirette con la tunica rossa di Diana in La morte di Atteone di Tiziano (National Gallery, Londra). Più tardi, com’è solito fare Swennen, ha mitigato questo effetto stupendo applicando uno strato di bianco.4949Lo stesso è accaduto al precedente dipinto, molto attraente, Red & Green. So che Swennen ha distrutto dipinti meravigliosi in più di un’occasione semplicemente perché li considerava troppo squisiti, come se la loro bellezza ci potesse impedire di vederli.
L’opera è stata intitolata Transformations (2016), riferendosi all’abitudine di sbiancare le vetrine dei negozi durante una ristrutturazione.
Fino a oggi, Swennen ha usato la spatola solamente per applicare la pittura a olio, principalmente perché non ha ancora trovato una tecnica soddisfacente per addensare l’acrilico. Questo ci porta a un’altra differenza nella texture dei suoi dipinti, che non ha nulla a che fare con il modo in cui l’impasto pittorico è applicato, ma piuttosto con il tipo di colore usato. Oltre alla differenza tra colori a olio e ad acrilico, dobbiamo anche tener conto dei numerosi additivi che possono conferire alla vernice una consistenza più lucida od opaca, più ruvida o liscia, più fluida o viscosa. L’aggiunta di olio rende il colore più brillante, mentre l’acquaragia attenua la sua lucentezza. Una delle qualità nuove dell’acrilico è che è possibile diluirlo con acqua e usarlo per creare strati trasparenti (velature), che consentono all’artista di costruire gradualmente i suoi dipinti ricercando la sfumatura di colore perfetta. In alcune delle opere di Swennen, del caffè è stato aggiunto allo sfondo bianco per renderlo più chiazzato. A volte, egli aggiunge all’impasto inchiostro, gouache, cenere di sigaretta o polvere dell’aspirapolvere. (Cito a memoria, non è affatto un elenco esaustivo). Quando, nel 2006, iniziò a dipingere sopra i dipinti abbandonati di un altro artista (collage di carta su tela), li aggredì con una scopa. Cosicché piccoli frammenti di carta finivano per essere miscelati alla pittura semi-abrasa.
Come esempio finale della diversità di texture che Swennen utilizza nei suoi quadri, vorrei parlare dell’opera intitolata Pirate (2007, Fig. 12), basata su una tempera realizzata quando aveva dieci anni. L’opera è costituita da tre pannelli separati. I due pannelli sulla sinistra sono composti da due “sfondi” che aspettavano nello studio. Ci sono sempre degli “sfondi” inutilizzati. Spesso, sono così belli che uno spera che l’artista non li modifichi. In questo caso, era così ispirato che trovò la soluzione perfetta dopo aver notato che, quando accostate, le due opere avevano la stessa altezza del pannello di destra (una tavola di dimensioni inusuali per un dipinto). Se si osserva da vicino quest’ultimo, si nota che alcune parti del “disegno”, come le linee che suggeriscono il risvolto della giacca, non sono dipinte, ma create, in negativo, lasciandole non-dipinte.
Tuttavia, ciò non è valido per il colletto della maglia del pirata, che è un’invenzione toccante dell’originale. I contorni della parte superiore degli stivali sono “disegnati”, mentre ne ha fatto a meno per la loro superficie: un’altra piacevole inversione, che ci ricorda il fatto che Swennen abbia studiato incisione all’Accademia. Il disegno contiene una suggestione spaziale un po’ strana ma commovente, resa più forte dalle gambe allargate, dal braccio destro semi oscurato e dalla sciabola che passa dietro le gambe. Si distinguono anche tre superfici solide, che insieme formano un ulteriore spazio tattile o pittorico: l’elsa gialla, l’area bianca del viso e lo “sfondo” azzurro, quest’ultimo dipinto attorno alla figura solo in seguito. Infine, ci sono i piccoli dischi neri che galleggiano davanti al pirata e che sono stati applicati ai punti in cui la tavola, nell’area occupata dalla figura, presentava dei nodi; ennesimo esempio di profondità tattile e pittorica. Swennen mi disse che questi punti neri gli ricordavano dei fori di proiettile, il che ci consente anche di percepire la figura come un bersaglio umano di carta in un poligono di tiro. Grazie alla ragione pratica cui è dovuto il posizionamento dei dischi neri comprendiamo che il “contenuto finale dell’immagine” non sta alla base della costruzione del dipinto. È il risultato di una serie di decisioni successive legate alla creazione di una bella matière, la trasformazione di un disegno esistente che possedeva determinate qualità fisiche (ed emotive), l’applicazione di tecniche di inversione grafica usate durante il trasferimento del disegno, la creazione di un effetto tattile attraverso l’aggiunta di aree bianche, gialle, azzurre e nere, e il completamento del dipinto attraverso l’unione di tre diversi pannelli.
Figurazione e astrazione
Nel 1990, Swennen spiegò a Bart De Baere che per un certo periodo aveva avuto delle difficoltà con i concetti di figurazione e di astrazione, ma era giunto alla conclusione che questo era un falso problema, «perché un quadro è sempre l’immagine di un quadro. Qualsiasi cosa ci sia sopra, è sempre un quadro».5050«Un tableau est toujours une image d’un tableau. Quoi qu’il y ait dessus, c’est un tableau» (Bart De Baere, cit., p. 89-92).
Oggi, faccio fatica a capire cosa intendesse con quella prima frase. Penso che si possa dire che le cose sono ancora confuse. In un testo del 1994,5151Cf. Hans Theys, “En avant la musique!” in Walter Swennen, MUHKA, Antwerp, 1994.
scritto a seguito di numerose conversazioni con l’artista, ho sostenuto che Swennen crea dipinti in cui figurazione e astrazione possono incontrarsi, e che aboliscono le cosiddette differenze tra i due approcci. Nel 2007 ho raffinato questa affermazione suggerendo che questo incontro era reso possibile dallo spazio non modellato e senza prospettiva tipico dei dipinti di Swennen.5252Hans Theys, Congé annuel, L’usine à stars, Liège, 2007, p. 52.
Credo ancora oggi che ciò sia vero, anche se non lo esprimerei più in questo modo; semplicemente perché questi termini sono troppo restrittivi per aiutarci a riflettere sulla pittura. In primo luogo, essi ci impediscono di vedere che Swennen intreccia delle texture, e che è il materiale da lui usato, siano essi rettangoli, disegni, lettere, che determina primariamente dove applicare la pittura. Che questi disegni e queste lettere possano anche significare qualcosa e possano evocare nell’osservatore (e in Swennen) immagini, narrazioni, pensieri e sentimenti, e allo stesso tempo costituire una parte della genesi del dipinto, è ugualmente importante. Ma la distinzione terminologica tra figurazione e astrazione ci fa dimenticare che la questione va ricondotta sempre al fatto che un quadro è sempre, e in primo luogo, un oggetto materiale. Tutto ciò che la distinzione tra figurazione e astrazione significa, in definitiva, è che una cosa è riconoscibile e “dice” qualcosa mentre l’altra no. Ma anche colori, forme e texture possono dire qualcosa; sembrano solo parlare meno forte.
Composizione
Alcuni pittori cercano di ottenere composizioni bilanciate, mentre altri cercano di opporsi a qualsiasi composizione bilanciata ottenuta troppo facilmente. Swennen si sforza di dare vita a composizioni che non avrebbe mai potuto concepire in anticipo, sia applicando parametri intrinseci che esterni. Se guardiamo Spider (small) (2014, Fig. 13) e Spin van Marius (Il ragno di Marius, 2014, Fig. 14), due dipinti basati su un disegno quadrato del nipote di Swennen, Marius, notiamo che la prima volta il disegno è stato trasferito sulla copertura di un fornello di forma quadrata. La seconda volta, la parte della tela al di fuori della superficie quadrata è stata dipinta di blu. Quanto inatteso è ritrovare questa superficie nella parte alta del dipinto! In Stolen Name (2016), le linee verticali e poi le linee di lettere inclinate verso sinistra sono state ridipinte. (Da qui l’immagine dell’ago della bussola). In Le diamant de Juju (2016, Fig. 15), un disegno viene decorato con quelle brevi linee che si usano, nei fumetti, per aggiungere forza espressiva a un’apparizione straordinaria. Alcune di queste piccole linee vengono utilizzate come bordi dell’ultimo strato di vernice. Nel dipinto In the Kitchen (2016, Fig. 16), le proporzioni della tela non corrispondono alle proporzioni del disegno imitato (un oggetto trovato). Di conseguenza, il disegno riprodotto si sovrappone al bordo rosso dipinto, che segue le proporzioni della tela. Il risultato ricorda una stampa imprecisa. Dunque molte composizioni rispettano leggi o accordi che esulano dal campo dell’estetica. Ma non tutti. In Mature (2016, Fig. 17), un certo colore giallo appare tre volte: una volta come imitazione della lumeggiatura di una forma ovale astratta, una volta come forma ovale e un’altra come striscia di colore. Quando gli faccio notare questa divertente lumeggiatura e la ricorrenza altrettanto divertente dello stesso colore nella striscia, il pittore mi dice che Claire Fontaine credeva che ogni colore usato dovesse riapparire altrove nello stesso dipinto. L’ovale, aggiunse, era la forma non angolare più semplice che poteva fare se voleva ottenere un’area ben rifinita con una spatola.
In Scrumble 2 (2006, Fig. 18), la spatola è stata usata per nascondere le parti malriuscite di un quadro (diverse linee colorate che danno vita a incroci “sporchi”).5353In un altro quadro del 2006, Red Cloud (Fig. 19), si vede uno strato rosa composto da strisce di pittura che si intersecano. I contorni della superficie sono stati ottenuti applicando della pittura bianca sopra le singole linee che si staccano dallo sfondo. In Scrumble 2 succede il contrario, nel senso che le intersezioni sporche sono state coperte e le linee separate sono state mantenute.
La composizione che ne risulta ricorda il modo in cui le pareti della galleria vengono riparate dopo una mostra: tutti i fori vengono riempiti e nascosti sotto un piano liscio e rettangolare. Poiché questa “composizione” è controllata da una struttura non premeditata, ma alla fine inevitabile, Swennen la definisce una composizione “autogenica”.5454Theys, cit., p. 48.
Così vediamo come lo stato particolare di un dipinto (linee colorate che danno vita a incroci “sporchi”), combinato con una certa tecnica (l’applicazione della vernice con una spatola), può portare a una nuova composizione non casuale.
Disegni
Molti dei dipinti di Swennen consistono in ricostruzioni ingrandite di disegni trovati o fatti da lui, i cui elementi figurativi vengono generalmente descritti, anche dall’artista, come “immagini”. Ho il sospetto che lo faccia perché, ovviamente, non sono disegni: non sono disegnati, ma riprodotti con la pittura. Alcuni autori pensano che i disegni siano derivati da fumetti, ma questo è vero solo raramente. Né si può dire che assomiglino a “disegni dei libri a fumetti” perché, dopo tutto, non tutti i fumetti sono disegnati usando linee definite. I disegni usati da Swennen possiedono quasi sempre una grande chiarezza lineare (senza ombreggiature od ombre portate) e spesso mostrano sagome solide. Una delle loro caratteristiche principali è la mancanza di prospettiva o di modellazione, così che sembrano esistere all’interno di uno spazio piatto. Se i disegni si discostano da questa formula, è perché i primissimi dipinti sono un’eccezione a questa “regola” o perché il disegno usato è stato trovato e contiene un difetto particolare. Per esempio Nan’s Still Life (2015, Fig. 20), che si basa su un disegno della moglie di Swennen, in cui la divisione della parola “français” in sillabe indica che il disegnatore stava pensando invece di guardare. (Come commento, Swennen ha aggiunto un’ombra smussata). Alcuni disegni provengono da copertine di libri, scatole da gioco, adesivi, imballaggi e così via. Altri sono derivati da scarabocchi oppure da opere su carta di piccole dimensioni che assomigliano a scarabocchi.
Alcuni autori elencano e organizzano questi disegni per temi, più o meno allo stesso modo in cui altri sommano il numero di metafore nell’opera di Mallarmé. A questo proposito, Mannoni scrive: «L’errore dell’analisi tematica sta […] nel fatto che le immagini vengono affrontate, in primo luogo, come significato; e solo successivamente come significante, quando è ormai troppo tardi». E poche pagine dopo aggiunge: «Non possiamo immaginare come l’analisi tematica […] possa rendere conto dell’ironia».5555Mannoni, cit., p. 261.
Alcuni esegeti vedono, per esempio, l’immagine di un re che regge una sigaretta accesa in prossimità dei suoi genitali. Altri vedono un disegno piatto basato su una carta da gioco che è stata abbellita con la rappresentazione di due oggetti in movimento: una sigaretta che brilla accesa e una nuvola di fumo. Alcune persone ci vedono un fantasma. Altri individuano una figura i cui occhi non dipinti offrono uno scorcio dello sfondo del dipinto. Come ho accennato in precedenza in una nota, Swennen dice oggi che potrebbe aggiungere “immagini” ai suoi dipinti per soddisfare lo spettatore, così da poter continuare a dipingere (proprio come Mallarmé che, secondo Mannoni, ha introdotto immagini riconoscibili nelle sue opere solo per poter giocare con le parole). Questa osservazione, tuttavia, ignora il ruolo svolto dai disegni e dalle lettere nella creazione del dipinto, come indicatori fortuiti ma essenziali su dove applicare la vernice. In questo senso, la questione riguarda i “significanti” in modo molto letterale: forme vuote che possono essere riempite con colori e texture.
Naturalmente, niente di tutto ciò significa che i disegni non possono, o non potrebbero, significare qualcosa per l’artista e lo spettatore. È proprio questa insolita convergenza di forme, trame e significati che conferisce ai dipinti di Swennen la loro ricchezza. Questa ricchezza, tuttavia, è data dal complesso intreccio di tutti questi livelli, e dal tentativo di ottenere questo intreccio in modo nuovo per ogni quadro. Ogni quadro cerca di essere diverso; ogni quadro si sforza di rivelare, ancora una volta, come è stato realizzato; ogni quadro si sforza, allo stesso tempo, di rimanere oltre la nostra portata.
Colori
Swennen utilizza principalmente i colori nero, bianco, grigio, giallo, azzurro, rosso e variazioni di rosso, oltre all’arancione, il rosso inglese e il marrone. Molto spesso mescola questi colori con piccole quantità di altri colori per renderli leggermente impuri. «Non esistono colori primari», mi disse una volta. In pratica, ciò significa che se un tipo di pigmento contiene una tonalità che ricorda i colori primari, è già sufficiente. In retrospettiva, si potrebbe dire che Swennen dipinge principalmente con i colori di Mondrian, sebbene abbia sostituito il blu scuro con il blu chiaro. Scrivo “in retrospettiva” perché probabilmente ciò non era intenzionale, e forse è più il risultato di un desiderio di usare per lo più dei colori primari (o sfumature che li ricordano). A volte, quando sta completando un dipinto, rovina i colori appena stesi. Two Egyptians (2015, Fig. 21) è stato completato spremendo i colori direttamente dal tubetto, mescolandoli con acqua e ripulendo poi la tela, strofinando maggiormente attorno alle figure. Il punto rosso che ricorda un succhiotto è il risultato imprevisto di questa azione. Alcuni anni fa, Swennen si è posto altri limiti, definendo uno spettro di colori le cui sfumature avrebbe sempre usato nello stesso ordine. Questo spettro era appeso al muro dello studio sotto forma di striscia, per ricordarne l’ordine. Ciò è tipico di come lavora: definisce le regole, si sforza di applicarle e poi imbroglia. L’uso di un numero limitato di colori conferisce grande coerenza alla sua opera, dando un’impressione vivace e ordinata. Sono proprio queste limitazioni che permettono di ottenere una diversità impressionante, ma al contempo leggibile.
Parole e lettere
Nei paragrafi precedenti ho fatto notare che quando Swennen aveva cinque anni i suoi genitori decisero di parlare un’altra lingua e di mandarlo, di conseguenza, in una scuola diversa: da un giorno all’altro il suo mondo era diventato incomprensibile. Con tutta probabilità, la lingua parlata deve avergli fatto un’impressione assurda e ostile. E a scuola, la lingua scritta probabilmente sembrava molto strana, o almeno all’inizio, quando non era in grado di collegare i caratteri scritti con un suono o un significato familiari. Queste circostanze hanno avuto un impatto innegabile sulla sua relazione con il linguaggio, ma non credo che forniscano una spiegazione sufficiente per il suo virtuosismo.5656Possiamo discutere infinitamente su questo punto, ma non potremo mai definire con precisione la verità. Chiunque può avere un’autocoscienza contaminata, scheggiata, disturbata e simile a un collage, ma non tutti sono artisti. Una personalità frantumata non è condizione sufficiente per essere artisti.
«Il belga ha paura della presunzione», scrive Simon Leys in un saggio sulla “belgitudine” di Henri Michaux, «in particolare la presunzione delle parole dette o scritte. Da qui il suo accento e il famoso modo di parlare francese. Il segreto è questo: i belgi pensano che le parole siano presuntuose».5757Simon Leys, Le studio de l’inutilité, Flammarion, 2012, p. 18. L’antipatia di Leys per le espressioni pompose sembra permeare tutto il suo pensiero. Altrove, egli spiega che il suo pseudonimo è preso in prestito da un personaggio immaginario creato da Victor Segalen, e aggiunge immediatamente che se avesse saputo che il romanzo di Segalen sarebbe stato riscoperto, avrebbe optato per un banale patronimico fiammingo, come Beulemans o Coppenolle. Alla fine di un saggio su Lu Xiaobo e l’interdipendenza tra il partito di governo e la criminalità organizzata, Leys si chiede perché i diplomatici belgi si siano scusati solo ufficiosamente per gli abusi diplomatici che sono stati commessi nei riguardi dei suoi figli. Credo che avrebbe dovuto essere meno sofisticato e umile, e scegliersi uno pseudonimo più pomposo. Infine, poiché stiamo parlando di lui, vorrei anche sottolineare che Leys, come Hannah Arendt, credeva che l’opera migliore di Nabokov fosse il suo libro su Gogol. Approvo vivamente questo punto di vista, non esiste uno scritto migliore sul primato della forma in letteratura. Ivi, pp. 120 e 156.
Leys ha ragione e torto allo stesso tempo. Ciò che sembra caratterizzare i belgi (e non solo i francofoni, ma anche i fiamminghi con il loro cosiddetto buffo olandese) è probabilmente comune a tutte le persone che parlano o scrivono una lingua che, in una diversa posizione geografica, è legata a un cultura dominante (con la sua specifica influenza sociale, economica e politica). Non c’è bisogno che i due luoghi siano vicini, come la Francia e i Paesi Bassi nel caso dei belgi. Ho il sospetto che alcuni abitanti di lingua inglese del Nord America, nei secoli passati, abbiano deliberatamente respinto le norme linguistiche standard nel loro uso della lingua, proprio come oggi canadesi, australiani, sudafricani e indiani di lingua inglese oppongono resistenza all’influenza dell’inglese-americano. Ovunque un elemento del linguaggio sia associato al dominio sociale, economico, politico o culturale, una versione deviante prima o poi emergerà. Questo è certamente vero nei ghetti degli Stati Uniti, o in Bretagna, in Alsazia, in Provenza, nei Paesi Baschi francesi e nel Canada francofono. Un uso deviante del linguaggio esprime un diverso insieme di valori.
Quando Swennen parla, a volte si nota che il suo accento belga diventa più pronunciato. In sociolinguistica, l’atto di passare a una variante linguistica che si discosta maggiormente dalla norma è descritto come divergenza verso il basso. È usato, per esempio, per enfatizzare la pedanteria del tuo interlocutore. Swennen, che è affascinato dall’argot (come quello nelle traduzioni francesi dei romanzi polizieschi americani, per esempio), è infastidito dal fatto che i suoi conoscenti di lingua francese ascoltino le stazioni radio francesi. Il linguaggio deviante non è irrazionale, dà semplicemente forma a un diverso insieme di valori. Ciò che Leys ha notato è un fenomeno che esiste senza dubbio anche in Cina, ma che non possiamo sentire. Probabilmente puoi ascoltarlo solo nella tua lingua, così come puoi davvero cogliere solo opere letterarie scritte nella tua lingua madre. E qui sta la verità dell’osservazione di Leys, poiché un linguaggio poetico può essere apprezzato solo come una deviazione da un linguaggio standard. Ogni lingua letteraria è perversa, capricciosa o quantomeno insolita.
Ciò che Swennen fa con le parole è meraviglioso. Permette loro di scontrarsi e fondersi, le isola o le sopprime, le capovolge o le ribalta specularmente (o ribalta solo le lettere, mantenendole nella sequenza originale). Fa uso di tutte le tecniche descritte da Freud e Šklovskij: spostamento, inversione, duplicazione, ripetizione e condensazione.5858Negli anni ’70, Swennen realizzò un romanzo fotografico su una donna con una macchina da scrivere, che conteneva solo una frase: “Je m’en vais” (“Me ne vado”). Una figura ricorrente nei suoi scritti era Latham Scholes (1819-1890), l’inventore della prima macchina da scrivere pratica e della tastiera qwerty. Quando ho chiesto a Swennen, alcuni anni fa, se gli piaceva la musica di Serge Gainsbourg, mi ha risposto che poteva azzardare un certo apprezzamento per la canzone Laetitia, che si apre così: “Sulla mia Remington portatile / Ho scritto il tuo nome Laetitia / Elaeudanla Téïtéïa”. Una macchina da scrivere è, in definitiva, uno strumento molto adatto con cui creare poesie concrete, perché gli errori arrivano facilmente. «Mi piacciono anche le macchine da scrivere perché consentono il posizionamento di un carattere un po’ troppo a sinistra o a destra», mi ha detto Swennen, «come se si trattasse di un attacco di Thelonious Monk».
Usa le parole per il loro suono e per la loro forma, e le usa per il loro significato. Le lascia girare e inclinare, le usa e ne abusa, racconta bugie e dice quello che pensa. La lingua diventa forma: una raccolta di suoni inaffidabili che possono sempre significare qualcos’altro, come nei nostri sogni, ma anche una raccolta quasi infinita di tipografie e caratteri (romani, cirillici, cinesi…). Vediamo le parole e le leggiamo. Pensiamo di vedere delle parole, ma in realtà vediamo superfici colorate che nessun pittore “astratto” potrebbe mai immaginare o giustificare. Connard (2014, Fig. 22) contiene tre invettive, in cui alcune lettere sono capovolte o ribaltate specularmente. «Ho pensato che se avessi reso le parole un po’ meno leggibili», mi disse Swennen, «avrei regalato al quadro qualche secondo in più per mettersi alla prova. Perché quando le persone riconoscono un’immagine in un quadro o vi leggono una parola, passano immediatamente oltre. Adesso il marito si fermerà per qualche secondo per decifrare le parole, e sua moglie avrà il tempo sufficiente per dargli un colpo di gomito e sussurrargli: “Guarda che bei colori!”».
Chiunque guardi questi resti frammentari delle nostre lingue potrebbe considerarli come una forma di resistenza alla razionalità e agli imperativi morali, letali, a essa connessi. Ciò rispecchierebbe le opinioni di Freud, che riteneva il soddisfacimento delle pulsioni sessuali incompatibile con le condizioni della civiltà, rendendo così obbligatorio per i nostri impulsi inconsci il ricorso al segreto (come quando nascondiamo la verità in battute illogiche). Osserviamo parole composte come “famillionaire” (Heine citato da Freud) o “mendicante-milionario” (Šklovskij): potrebbero senz’altro sembrare illogiche ma, a mio avviso, sono costruite secondo leggi usate anche dal “pensiero razionale” o da qualsiasi altra forma di pensiero produttivo. Sono il risultato della stessa “condensazione” che porta Francis Bacon a dire a Sylvester che Michelangelo e Muybridge sono diventati lo stesso artista nella sua mente. In definitiva, anche le leggi della natura, che sono tra i più elevati frutti del pensiero razionale, sono forme di condensazione, perché collegano due o più diverse entità fisiche in un’equazione. Non importa come si arriva a un’idea o una formulazione, a patto che il pensiero o la formulazione sia fruttuosa.
Se non consideriamo questi giochi linguistici come un’opposizione irrazionale alla ragione e alla moralità, ma piuttosto come un modo inaffidabile, testardo, irritabile, sporco, contaminato, disordinato, bizzarro, idiosincratico e indipendente di pensare, un modo indissolubilmente legato ai concetti materiali del quadro, allora notiamo una connessione con la filosofia di Max Stirner, da cui Swennen ha recentemente tratto una nuova massima: “Mein Widerwille bleibt frei”, ovvero “La mia avversione rimane libera”.5959Max Stirner, The Ego and His Own, Verso, Londra, New York, 2014, p. 182 (ed. it.: L’unico e la sua proprietà, trad. di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano, 1999).
Contrariamente al ragionamento comune, Stirner ha difeso il diritto a un “irragionevole” personale, che per lui era reale tanto quanto lui stesso si sentiva reale. In difesa dell’immaturità e dell’opposizione alla Forma, Gombrowicz scrisse:
«Il pensiero del giusto è originariamente il mio pensiero; o ha la sua origine in me. Ma quando è sorto da me, quando la “Parola” è uscita, allora è “diventata carne”, è un’idea ormai fissata. A quel punto non riesco più a liberarmi da quel pensiero; ovunque guardi, esso mi sta dinnanzi. Così, gli uomini non sono diventati nuovamente padroni del pensiero “giusto” che essi stessi hanno creato; la loro creatura sta scappando con loro».6060Max Stirner, The Ego and His Own, Jonathan Cape, London, 1971, p. 137.
Il linguaggio recalcitrante di Swennen può essere letto sullo sfondo della convinzione di Lacan che siamo fatti di linguaggio e che il linguaggio ci ha alienati sia dal nostro corpo che dal mondo. L’uomo sarebbe un “essere-linguaggio” (parlêtre) con una sessualità disastrosa, irreparabilmente distorta, un uomo esiliato in un mondo di parole manipolatorie, inaffidabili, incapaci di toccare il nucleo della realtà – le réel. Leggere Lacan è un’avventura meravigliosa e divertente, e non per caso Swennen ne è stato influenzato, ma preferisco non soffermarmi qui su questo argomento.
A proposito di quadri piatti e dello spazio pittorico
La mancanza di modellato e di prospettiva (correttamente applicata) nei disegni usati da Swennen farebbe pensare a un suo desiderio di creare dipinti piatti. A essere precisi, questo non è vero. I suoi dipinti non sono all-over o polifocali. Né evocano un’immagine piatta che sembra librarsi davanti alla tela, come desiderato da Greenberg. Ma allora cosa succede in realtà? I disegni, in sé, sono piatti, e costituiscono uno dei piani che vengono combinati nel dipinto. Alle volte questi piani sembrano situarsi a diverse distanze dallo spettatore, creando così uno spazio pittorico, ma altre volte questo non succede.
Nel suo libro su Bacon, Deleuze distingue tra l’uso ottico e l’uso aptico del colore. L’uso ottico del colore va dalla luce allo scuro, include sfumature (valori) dello stesso tono, ed è usato in quello che Greenberg chiamava pittura “scultorea” (che raggiunse il suo apogeo nel diciassettesimo secolo). L’uso aptico del colore non implica sfumature dello stesso tono, ma giustappone colori diversi nella consapevolezza che il loro carattere “freddo” o “caldo” creerà un’impressione di leggerezza o di oscurità, e di vicinanza o distanza.6161Si può anche modellare con questa tecnica, come ha dimostrato Cézanne, ma questo non è qui in discussione. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, Éditions du Seuil, Paris, 1981 (2002), p. 131.
Poiché i dipinti di Swennen mancano di elementi prospettici e non si basano sull’uso ottico del colore (valori della stessa tonalità, ombre), a meno che egli lo faccia per scherzo (per esempio l’ombra di una lettera o le ombre nei disegni trovati che di solito sono selezionati perché contengono un difetto), si potrebbe dire che il suo lavoro è una variante innovativa delle tradizioni artistiche che hanno rinunciato consapevolmente alla “modellazione” (attraverso effetti di lumeggiatura) come approccio alla realtà, e che «hanno continuato a ridurre la profondità fittizia del quadro».6262Clement Greenberg, Art and Culture, Thames and Hudson, London, 1973, p. 155 (ed. it.: Clement Greenberg, Arte e cultura, trad. di E. N. Monateri, Allemandi, Torino, 1991. Cf. anche: Clement Greenberg, L’avventura del modernismo. Antologia critica, a cura di G. Di Salvatore e L. Fassi, Johan&Levi, Milano, 2011).
Greenberg notò che questa deliberata negazione dell’approccio “realistico” era avvenuta solo due volte: prima nell’arte bizantina e poi nei dipinti radicali tardo-impressionisti (compresi quelli di Monet), che possono essere considerati i primi dipinti “all-over”. Secondo Greenberg, pittori quali Cézanne, Gauguin, Matisse, Picasso, Braque e Klee furono i primi ad adottare questo approccio, seguiti più tardi da Mondrian. Ma l’idea di «riaffermare la piattezza dello spazio pittorico»6363Ivi, p. 168.
venne pienamente realizzata, dal suo punto di vista, solo nel lavoro dei pittori da lui sostenuti personalmente, come Pollock, Rothko, Newman e Still.
Alcuni sostengono che Mondrian si sforzò di realizzare quadri “piatti”: opere in cui, agli occhi dello spettatore, le superfici blu e rosse non sembrano retrocedere o avanzare; al contrario, grazie all’aggiunta di una griglia nera o grigia, tutte le campiture colorate sembrano situarsi alla stessa profondità pittorica. Non so se questa fosse in realtà l’intenzione di Mondrian, perché non ho letto i suoi scritti, ma è innegabile che in alcuni quadri il rosso e il blu sembrano effettivamente situarsi alla stessa profondità. Per Greenberg, tuttavia, Mondrian non era che un precursore, il cui lavoro non faceva altro che puntare alla pittura “all-over”:
«Le forme dominanti e contrapposte, determinate da linee rette intersecantisi e blocchi di colore, sono ancora rimarcate, e la superficie si presenta ancora come teatro o messa in scena di forme piuttosto che come un singolo pezzo indivisibile di texture».6464Ivi, p. 155.
Greenberg non apprezzava i quadri in cui alcune aree si distinguevano dalle altre e quindi assomigliavano a una “figura”, o quelli in cui macchie di colore erano sparse in modo contrappuntistico. Né gli piacevano i quadri che sembravano sprofondare nel muro, come una finestra. Preferiva i dipinti in cui “l’effetto pittorico” era uniformemente diffuso e sembrava librarsi davanti alla tela.
Se usiamo i criteri di Greenberg in modo da comprendere meglio i quadri di Swennen, scopriamo che l’artista gioca, in effetti, con ognuno di questi elementi. L’assenza di modellazione e di prospettiva (correttamente applicata) potrebbe dare l’impressione che Swennen voglia fare dei quadri piatti, ma spesso questi contengono elementi importanti che sembrano emergere in primo piano. Non usa la resa plastica o la profondità prospettica, ma evoca la profondità pittorica attraverso l’uso aptico del colore (contrasti tonali). In un dialogo pubblicato nel 2007, egli disse:
«Ho sempre considerato deplorevole la condanna dell’illusionismo e della profondità. Anche una tela bianca ha profondità. La cosa positiva della pittura è che si può decidere se si vuole usare la profondità oppure no».6565Theys, cit., p. 52.
Nell’aprile 2016, Swennen e io ci trovammo a osservare un quadro non-finito che conteneva quattro diverse tonalità di bianco [→In the Kitchen, 2016], di cui una, di tonalità avorio, sembrava spiccare più delle altre. Chiesi a Swennen se ciò fosse intenzionale, e se avesse notato questo effetto. Per due volte rispose negativamente. Anzi, fu infastidito dalla domanda. Non sapevo forse che i dipinti sono piatti? E che hanno una consistenza di pasta sfoglia?
Il punto è che Swennen si opporrà sempre all’abitudine di confondere il risultato di una pratica con la cosiddetta intenzione. Se un quadro finito contiene una certa immagine, ciò non significa che tale immagine si trovi all’origine di quel quadro. Lo stesso vale per la texture e lo spazio pittorico. È certamente illuminante vedere i quadri di Swennen dalla prospettiva di Greenberg, ma allo stesso tempo dobbiamo renderci conto che ciò che vediamo non è mai stato ricercato dal pittore come parte di un programma. Il suo tentativo è sempre stato quello di dipingere una cosa qualsiasi.“…Il suo tentativo è sempre stato quello di dipingere una cosa qualsiasi.” Rifiutando qualsiasi tipo di programmazione, sia in termini di contenuto che di espressione personale,6666Il “reale”, o ciò che non può essere rappresentato, prende quindi la forma sia della “personalità” di Swennen sia dei quadri stessi, che rimangono oltre la nostra portata. I quadri raddoppiano l’inconoscibilità del mondo. Tentano di sfuggire a ogni significato.
Swennen ha escogitato una modalità di lavoro molto libera, che gli permette di generare quadri sempre diversi. Anche se abbiamo l’impressione che “giochi”, questo non è il risultato di un’intenzione. I suoi quadri non sono anti-prospettici o anti-plastici in modo programmatico, ma sono, in modo decisamente concreto, pro-pittura. Non sono il risultato di intenzioni, ma i risultati di un certo numero di parametri che usa per costruire i suoi oggetti-quadri.
Quali sono questi parametri? In realtà, si tratta principalmente di abitudini. Nel 1990, disse a Bart De Baere che i suoi disegni ricordano dei fumetti perché ha imparato a disegnare copiandoli. Per lo “spazio” specifico dei suoi quadri, sembra essenziale che Swennen utilizzi una linea chiara che non suggerisce volume (l’opposto della pittura cinese). Ma lui stesso non la definirà mai linea chiara.6767La linea chiara (ligne claire, in francese) è un particolare stile di disegno impiegato nella realizzazione di fumetti caratterizzato da un segno sottile, pulito ed elegante. [N.d.T.]
Non la formulerà mai come obiettivo. È semplicemente un’abitudine che può essere messa a frutto.
Secondo me, i quadri di Swennen riflettono6868«E questo è ciò che mi disturba a proposito della pittura: attraverso i suoi materiali e le sue forme qualcosa sta pensando, e io non ho che parole per parlarne» (Daniel Arasse, Histoires de peintures, Gallimard, 2004, p. 26. Ed. it.: Storie di pitture, trad. di Frédéric Ieva, Einaudi, Torino, 2014).
sulle possibilità della “piattezza” della pittura e sullo spazio pittorico. Questo pensiero è libero. Non è obbligato da intenzioni, da principi stilistici, o da un programma. Deriva dall’intento, radicale, di dipingere una cosa qualsiasi, oltre che da una serie di abitudini e da un approccio tattico che permette di ottenere incidenti provocati.
Natura Morta
Nel lavoro di Swennen troviamo macchine in movimento, sigarette fumanti, uomini che cadono e atleti scattanti [Fig. 23: Voiture rouge, 1998]. Vedo sempre queste figure come allusioni divertenti all’impossibilità di rappresentare il movimento in un dipinto.
Malcolm Morley – un pittore che Swennen ammira (per esempio a causa dei bordi bianchi, che indicano che egli non rappresenta uno spazio tridimensionale [Fig. 24: Le congé annuelle de H.T., 2007] nelle sue opere, bensì immagini bidimensionali6969«Non ho interesse per il soggetto in quanto tale, o per la satira o il commento sociale o qualsiasi altra cosa invischiata con il soggetto. […] Accetto il soggetto come un sottoprodotto della superficie» (Jean-Claude Lebensztejn, Malcolm Morley. Itineraries, Reaktion Books, London, 2001, p. 51).
) – descrive i propri dipinti, basati su modelli, cartoline e altre immagini, come nature morte.7070«A partire dai suoi anni Super-realisti, quando ha rinunciato a dipingere dal vivo un transatlantico e lo ha sostituito con delle cartoline, Morley è stato essenzialmente un pittore di nature morte…» (ivi, p. 182).
Gilson considera la natura morta come un genere «in cui la pittura rivela la sua stessa essenza e raggiunge uno dei suoi punti di perfezione».7171Gilson, cit., p. 26.
Descrive Le Sabine di David come un tentativo insoddisfacente di suggerire il movimento. Ma probabilmente, continua, questa non è mai stata l’intenzione dell’artista. Accettando l’immobilità dei dipinti, probabilmente ha cercato di evocare un’illusione di movimento attraverso un gioco di linee: non sono le persone raffigurate a muoversi, ma la composizione. Questo effetto è ancora più pronunciato, dice Gilson, quando confrontiamo il quadro di David con La resa di Breda di Velázquez. «In questo capolavoro», scrive, «non rimane quasi più traccia di movimento. Il tempo sembra essersi fermato. Gli stessi esseri umani, per quanto ben dipinti possano essere, sono di secondaria importanza rispetto ai pattern di linee e al bilanciamento delle masse».7272Ivi, p. 23.
Quando di recente ho chiesto a Swennen di chiarire due quadri che contengono l’immagine di un’elica, mi ha detto che erano nature morte, perché basate su un ventilatore realmente esistente. In Schroef (2014, Fig. 25), si distinguono una serie di punti bianchi lungo il bordo delle lame. Perché sono lì? Rimuginando sull’esistenza di eliche per destri e per mancini, Swennen aveva avuto l’idea di coprire l’immagine di un’elica (un contorno) con un disegno bianco dello stesso oggetto, ma speculare. Non contento del risultato, aveva cancellato il secondo contorno. Nei punti in cui si intersecava con il primo contorno, che era ancora bagnato, la vernice non poteva essere cancellata, quindi le macchie bianche rimasero. Perché un’elica? Probabilmente perché l’oggetto finito nello studio di Swennen ha una forma piacevole. Forse perché gli ricordava suo padre, che era un ingegnere e lavorò per molto tempo al porto. Forse perché l’elica è un invito a dedicarsi al bricolage. O forse perché un’elica è essenzialmente un oggetto in movimento e i quadri non possono rappresentare il movimento. Il movimento non è raffigurato, ma è contenuto all’interno del quadro, che porta tracce di un gesto cancellato.
La prospettiva imperfetta
Il modo irriverente in cui Swennen affronta la prospettiva ricorda i trucchi che Rogier van der Weyden utilizzò nel Trittico dei sette sacramenti e nella Deposizione dalla Croce. Nel primo dipinto, le figure centrali sono molto più grandi delle altre. Messo a confronto con l’architettura, il Cristo risulterebbe in proporzione alto cinque metri. Il risultato del trucco di van der Weyden è un’impressione di grande vicinanza che, incomprensibilmente, sembra abbastanza naturale.7373È stato Griet Steyaert, storico dell’arte e restauratore del dipinto a farmelo notare. Cf. con la seguente annotazione dello storico dell’arte Dirk De Vos a proposito del Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck: «La vista della stanza corrisponde a quella che si avrebbe stando sulla soglia, come fanno le due figure in blu e rosso. E tuttavia questo è impossibile. La prospettiva è lineare, le figure sembrano toccare il soffitto e il lampadario pende troppo in basso, sebbene lo specchio sembri riflettere ogni cosa nelle giuste proporzioni. L’artificio pittorico crea un incredibile impressione di vicinanza e di compattezza spaziale, qualcosa che, mutatis mutandis, si può ottenere in fotografia solo con un teleobiettivo» (Dirk De Vos, De Vlaamse Primitieven. De meesterwerken, Mercator, Antwerp, 2002, p. 59, corsivo dell’autore; ed. it.: Capolavori fiamminghi XV secolo, Jaca Book, Milano, 2002).
Nella deposizione, l’intera narrazione si svolge all’interno di una pala d’altare che [sembra] profonda all’incirca come la distanza tra le spalle. Eppure questa scena si svolge su cinque livelli successivi: il più vicino allo spettatore è l’apostolo Giovanni, che sostiene Maria. Dietro Maria, già un po’ più in profondità nella scena, vediamo il corpo di Cristo, che è stato passato a Giuseppe d’Arimatea e viene già portato via da Nicodemo. Dietro questi uomini si trova la croce e, ancora più in profondità, il servo che, in cima a una scala, ha liberato Cristo e lo ha calato giù. Laddove questo servitore dovrebbe, per coerenza, essere situato due metri più indietro, il chiodo che tiene nella mano destra avanza fuori dalla cornice della pala d’altare.7474Dirk De Vos, al quale devo queste informazioni, spiega anche che il dipinto raffigura una sequenza di eventi (ivi, p. 77).
Quest’uso della prospettiva per creare uno spazio fantasmagorico aveva probabilmente una funzione simbolica legata a una specifica visione del mondo.
Secondo lo storico dell’arte Dirk De Vos, non c’era una chiarezza di significato nel simbolismo del Medioevo.
«Tutto poteva essere utilizzato o interpretato in più direzioni. In effetti, il mondo in tutte le sue sfaccettature era l’essenza di Dio sotto molteplici travestimenti. Se leggiamo i trattati filosofici, teologici o moralisti, o gli scritti mistici, ci troviamo di fronte a una profusione di immagini e di simbolismi in quanto unica possibilità per comunicare l’indicibile. […] Man mano che la padronanza di questa tecnica fosse progredita, la comprensione del mondo sarebbe diventata sempre più complessa e ambigua, portando in ultima istanza alla rivelazione divina».7575Ivi, p. 10. Huizinga dice la stessa cosa riguardo al simbolismo medievale del colore in L’autunno del medioevo (1919).
«Erwin Panofsky», scrive De Vos, «lo ha definito “simbolismo nascosto”, a causa degli eventi che la rappresentazione non rivela immediatamente. Questa locuzione, tuttavia, sembra incentivare un lavoro troppo investigativo sui simboli, che sfocia spesso in discorsi di carattere iconografico che negano lo spirito della rivelazione visiva».7676Ivi, p. 11. In un saggio su Michel François, ho messo in relazione questa idea con Freud. Lo scorso anno ho saputo che Daniel Arasse aveva fatto la stessa cosa. «Sono rimasto sorpreso di leggere su un manuale di iconografia di Vincenzo Cartari, pubblicato a Venezia nel 1556 e intitolato Le imagini dei Dei degli antichi: “Non dovrebbe sorprenderci che gli dei degli antichi fossero intrecciati, che lo stesso dio mostri volta per volta aspetti differenti e che nomi diversi denotino talvolta la stessa cosa”, che mi ha subito fatto pensare a un testo di Freud…» (cit. Arasse, cit., p. 309, e Hans Theys, Michel François. Carnet d’expositions 1997-2002, Ursula Blickle Stiftung, Kraichtal, 2002, p. 14).
Nessuno conosce le origini tecniche e stilistiche dell’uso della pittura a olio utilizzata dai Primitivi fiamminghi. A volte sembrerebbe che questi pittori abbiano avuto l’impulso improvviso di rappresentare sculture policrome in modo bidimensionale, altre volte sembrerebbe che le somiglianze tra queste due forme d’arte siano maggiormente legate a una ricercata ambiguità dei quadri. Secondo De Vos, i dipinti ebbero probabilmente origine nei fiorenti laboratori dei pittori fiammingo-francesi specializzati in miniature, la cui «natura e perfezione può spiegare (gli inizi) della pittura su tavola».7777Dirk De Vos, cit., p. 14.
Egli indica fattori formali come l’evoluzione «illusionistica, anti-decorativa e anti-ieratica della miniatura: la dimensione ridotta, per esempio, implica una chiarezza che intensifica le possibilità dell’immagine; il fatto che una miniatura assomigli sempre a una “finestra”, a causa della cornice sporgente che serve a evidenziare la natura illusoria dell’immagine». Qualsiasi siano le sue origini, «l’indipendenza dell’immagine dipinta finalmente si manifestò nella sua forma materiale. Fu creato un oggetto mobile, pensile, specificamente progettato per ospitare una rappresentazione dipinta. Si tratta di una forma comune nella pittura del XV secolo: un pannello montato e gessato, liscio e levigato come uno specchio, incastonato come un pezzo di vetro in una cornice, una sorta di scatola di visualizzazione che permette all’incantesimo visivo di essere trasportato da stanza a stanza».7878Ivi, pp. 12-13.
In altre parole, questi quadri non sono nati dal desiderio di staccare gli affreschi dai loro supporti architettonici, o per ottenere riproduzioni bidimensionali di gruppi scultorei policromi, ma ingegnose illustrazioni da libro trasformate in dipinti monumentali. E se fosse successo qualcosa di simile con Walter Swennen? Forse lo specifico spazio piatto dei suoi quadri, in cui superfici colorate incontrano parole e disegni a linea chiara, scaturisce dagli scarabocchi di un lettore distratto? No, forse questo è troppo. Ma un granello di verità deve contenerlo. La straordinaria libertà dei suoi lavori, su un livello materiale, compositivo e “non-programmatico”, si può, in parte, spiegare meglio considerando le libertà di certi libri a fumetti, degli scarabocchi ai margini di testi faticosi, e delle parole e frasi sparpagliate che ci rimangono in mente dopo la lettura di un libro stimolante.
Infine, vorrei condividere alcune sciocchezze sullo spazio pittorico senza prospettiva dei dipinti di Swennen, a partire da alcune riflessioni di Daniel Arasse sull’invenzione della prospettiva nel XV secolo. Secondo Arasse, la prospettiva non può semplicemente essere considerata un simbolo di un mondo senza Dio, come Panofsky ha proposto, e neppure come un mero prerequisito per un luogo che faciliti l’azione (come Pierre Francastel ha postulato). Secondo l’opinione di Arasse, la prospettiva, originariamente chiamata commensuratio, era usata per dare forma al mondo secondo le proporzioni della figura umana, un mondo che fosse misurabile. Per questa ragione, la prospettiva era spesso usata per dare forma al mistero dell’Incarnazione: il Dio infinito che diventa misurabile e tangibile. Egli indica, per esempio, una colonna in un’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti datata 1344. La colonna, un comune simbolo di Cristo, è resa, alla base, secondo prospettiva, ma man mano che si sviluppa verticalmente essa va a unirsi gradualmente alla Divina foglia d’oro dello sfondo.7979Arasse, cit., p. 76.
Nello spazio senza prospettiva di Swennen, sembra che nessuna incarnazione sia possibile. Per fortuna, sospirerebbe Lacan, poiché l’Incarnazione è la fonte di ogni miseria.8080«È quando la Parola si fa carne che le cose si mettono davvero male» (Jacques Lacan, Le triomphe de la religion, Éditions du Seuil, Paris, p. 90; ed. it.: Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2006).
E ricordiamo che Freud, secondo Lacan, era attratto dal Dio dell’Antico Testamento, poiché rappresentava la Parola e l’invisibile Legge maschile in contrasto con la Realtà femminile, che è rotonda e fatta di carne. Nell’opera di Swennen sembra non esserci posto per la realtà femminile: tutto sembra essere spettrale e sottile, come un’avventura spirituale, pneumatica (cosa mentale). Tutto? No, in questo mondo spettrale, c’è qualcosa che offre resistenza, come un calcolo biliare. E quel qualcosa è il quadro.
Trasformare il nonsense in enigma
In Hic Haec Hoc Swennen sostiene che fare un quadro è trasformare il nonsense in enigma. Prima di analizzare più da vicino questa affermazione ci converrà ricordare quanto Mannoni scrisse su Baudelaire: il suo destino fu quello di «menzionare continuamente oscure questioni senza promettere alcun chiarimento».8282Mannoni, cit., p. 264.
Il che mi fa pensare a quando, in un’osservazione, Swennen dava ragione allo storico dell’arte Paul Ilegemns che lo chiamava una “seccatura”. Così come un enigma è una sfida lanciata da un dio agli uomini,8383Giorgio Colli, Naissance de la philosophie, Editions de l’Aire, 1981, p. 84 (ed. it.: La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975).
allo stesso modo Swennen ci presenta dei quadri-aporia, opere che ci costringono ad accettare una specie di “significato differito”, del tipo di quello che Mannoni ha rintracciato nella poesia di Mallarmé. «Fin dalla prima lettura», scrive Mannoni, «c’è una promessa di significato, c’è il mistero delle ventiquattro lettere: fin tanto che la frase non è conclusa, abbiamo apparentemente a disposizione significati multipli… tale stato, in cui ci sentiamo più indecisi che persi, si condensa e si disfa man mano che avanziamo. È ciò che si chiama lettura. Solo, Mallarmé rende questo stato perpetuo…».
In cosa consisterebbe l’esperienza del nonsenso? Swennen ha senza dubbio vissuto la sua prima esperienza in assenza di senso a casa e a scuola, quando i suoi genitori, dall’oggi al domani, si misero a parlare un’altra lingua per rompere con il passato di guerra. È capitato a molti, da bambini, di dover imparare una nuova lingua. Ma a quanti è successo durante l’infanzia di non riuscire più a capire i propri genitori? Questa esperienza dev’essere stata terribile.8585Oltre a quest’esperienza, ci furono altre circostanze che devono essergli sembrate vuote di senso: la morte della sorella appena prima che lui nascesse e l’imprigionamento dei suoi nonni materni. Come ho scritto altrove, la sorellina deceduta può essere stata più reale, per la madre, che non Swennen stesso, nato subito dopo quel lutto e che ha poi fatto di tutto per rendersi visibile agli occhi della madre. Avendo percepito la venerazione che sua madre provava verso uno zio pittore, cominciò a fantasticare di diventarlo lui stesso. Quello che gli era sfuggito è che quell’affinità di sua madre con lo zio, più che con il fatto che lui fosse un pittore aveva a che vedere con la comune perdita di un figlio piccolo. In ogni caso, Swennen sviluppò il suo personale approccio alla pittura applicando la logica tecnico-tattica di suo padre ingegnere, per creare nuove forme… “E suo padre lo apprezzò?”, ci si potrebbe chiedere. No. E infatti quando sua moglie morì, ebbe parole di biasimo per lo stile di vita bohémien del figlio, che secondo lui era stato la causa di quella morte prematura. Probabilmente pensava che all’esistenza di suo figlio mancasse ancora qualche nota cupa.
Eppure, sembrerebbe che Swennen sia sopravvissuto a essa non prendendola troppo seriamente o girandola a suo favore. Lettere, suoni e frasi sconnesse dai loro significati potrebbero aver generato in lui un mondo interiore in continuo spostamento che altri non scopriranno mai.8686Swennen non ama l’idea che esista un “mondo interiore”, specialmente se questo deve essere “espresso”. Non gli piace nemmeno il concetto di “identità”, il che ricorda un po’ Nietzsche.
Questo potrebbe rappresentare la base per una seconda importante esperienza di “nonsense”, la sua scoperta cioè che le parti non figurative di quadro («tra il sottovaso in terracotta e la firma») non “significano” niente, non sono altro che “quadro”. All’improvviso gli si è rivelata un’attività piacevole e infinita che si estendeva al di là del linguaggio e della significazione.8787Il linguaggio non aveva solamente perso il suo carattere assoluto, ovvio, di utile e affidabile strumento, ma era allo stesso tempo collegato a un passato vergognoso che, paradossalmente, era fondato sul rifiuto della lingua che alla fine era parlata. E quando questa lingua viene finalmente parlata, risulta imperfetta. Non è il vero francese. Quando il padre di Swennen ascolta una registrazione della propria voce, è sconcertato dal proprio accento, che credeva essere impeccabile fino a quel momento.
Forse Swennen non aveva ancora scoperto la libertà di giocare con le parole, il che può essere una conseguenza della sua scoperta della pittura “senza significato”.
Le cose possono suggerirci delle immagini o dei pensieri, non perché esse parlino, ma perché siamo noi a parlare con noi stessi quando le guardiamo. Per questo le percepiamo come significanti. Anche le opere d’arte possono significare qualcosa, senonché tale significato non deve risultare dall’intenzione dell’artista. Il senso non deriva dalle cose ma da un bisogno tutto umano.“…Il senso non deriva dalle cose ma da un bisogno tutto umano.” Il significato ci protegge dalle nostre paure.
Mannoni rileva che il senso di un motto di spirito serve a rendere sopportabile il gioco che si fa con le parole.8888Cit. in Mannoni, cit., p. 253. Freud è d’accordo con la comune credenza che l’effetto comico di una battuta provenga dall’iniziale impressione di ortodossia, che è poi immediatamente rimpiazzata da un’impressione di assurdità: «Ciò che un momento fa abbiamo visto pieno di significato», scrive citando Kraepelin, «ci sta ora davanti del tutto privo di significato» (Sigmund Freud, Jokes and their relation to the unconscious, Penguin Books, 1981, p. 42. Ed. it.: Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 1980; cf. anche Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, ed. integrale, Newton Compton Editori, Roma, 1988; e BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1883). Freud lo chiama il senso nel non-senso. Ritorna sull’argomento più avanti, sostenendo che la battuta protegge il piacere del gioco di parole dalla critica della ragione conferendo alla battuta un significato apparente (Freud, cit., p. 180).
Evidentemente non riusciamo a sopportare che si faccia confusione con le parole. Il disordine ci mette in ansia. Le parole con cui si gioca perdono di significato. E un mondo designato da parole senza significato diventa insensato. Ma se non si armeggia con le parole si rimane impigliati in esse. Lo psicoanalista armeggia, il poeta armeggia. Sebbene lo ammettano raramente. E molto spesso ne sono inconsapevoli.
In Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Freud prova a dimostrare con dovizia di particolari che il motto di spirito si forma nella stessa maniera del sogno, diretto dall’inconscio. In effetti, attraverso un percorso segreto cerca di addurre nuove prove dell’esistenza dell’inconscio, che considera come dato, come ammette alla fine del libro. Se mi è permesso lasciare momentaneamente da parte la topologia freudiana (la questione di dove si trovino in effetti le pulsioni, di come vengano represse, quale posto occupi l’energia psichica e da quali aperture essa riesca a fuoriuscire per saziare un desiderio proibito), allora capiamo che considera il motto di spirito come un’affermazione che all’inizio sembra avere senso, poi risulta insensata, e infine si intuisce possedere un senso più profondo, per quanto nascosto. Questo significato nascosto, che differenzia il motto di spirito dai giochi infantili e dal puro diletto, neutralizza la critica razionale, permettendo l’esplicitazione di pensieri osceni, aggressivi, cinici e scettici attraverso un registro comico (una forma che sembra avere senso per un breve lasso di tempo e poi risulta insensata).
Secondo Freud, il motto di spirito ha sempre come obiettivo la morale corrente, i cui principi ci impediscono di dare libero sfogo al piacere, dal momento che tutte le forme di società esigono una gratificazione differita dei nostri desideri personali. Il bello è che Freud, secondo me, non si ferma qui ma sembra voler sovvertire il mondo intero. «Quello che questi motti di spirito sussurrano», scrive, «può essere detto a voce alta: che i piaceri e i desideri degli uomini hanno il diritto di rendersi accettabili parallelamente ai gravosi e spietati valori morali. E ai nostri giorni è stato detto in toni energici ed entusiasmanti che tale moralità sia solo un’egoistica regolamentazione messa a punto da quei pochi, ricchi e potenti, che possono comunque soddisfare i propri desideri in ogni momento senza bisogno di posticiparli…». Nell’introduzione al capitolo che riguarda i fini nascosti del motto di spirito, ricorda al lettore la battuta di Heinrich Heine in cui quest’ultimo paragona i preti cattolici e i pastori protestanti rispettivamente a impiegati di un supermercato e a negozianti indipendenti. Freud dice di aver esitato a includere questa battuta nel libro poiché supponeva che «tra i miei lettori ce ne sarebbero stati probabilmente alcuni che provano rispetto non solo per la religione ma anche per i suoi manager e per il consiglio di amministrazione».9090Ivi, p. 132.
Secondo Freud, il motto di spirito è diretto contro figure autoritarie, rivali in campo sessuale e istituzioni come il matrimonio, di cui dice: «Non ci si arrischia a dire apertamente che il matrimonio non è un accordo mirato a soddisfare la sessualità di un individuo…». Al lettore rimane l’impressione che ci siano sempre stati i motivi addotti da Freud per difendere il diritto di essere diversi: il diritto di essere un poeta, un pittore, un omosessuale o un ebreo. Freud è un furfante benedetto. L’intera psicoanalisi freudiana è una specie di motto di spirito che punta a una critica sociale riuscendo a bypassare ogni resistenza autoritaria e morale. Sempre nel capitolo sui fini nascosti del motto di spirito, Freud analizza una storiella su un ebreo sordo a cui il medico spiega che la sua sordità è dovuta a un eccessivo consumo di alcolici. L’ebreo decide di smettere di bere. Quando appare chiaro che ci è ricaduto dentro, l’ebreo spiega che in effetti aveva sì recuperato un po’ di udito quando era sobrio, ma che alla fine aveva deciso di ricominciare a bere perché le cose che aveva ascoltato erano terribili. Conclude Freud:
«Rimane la triste questione se l’uomo non avesse ragione nella sua scelta. È sulla scorta delle allusioni fatte da queste storielle pessimistiche alle innumerevoli miserie degli ebrei che io devo classificarle come motti di spirito tendenziosi».9292Ivi, p. 160.
Sebbene il motto di spirito abbia fini più elevati, secondo Freud la cosa notevole è che esso abbia origine dal desiderio infantile di gratificazione, che prende la forma di piacere per le parole e di desiderio di nonsense (la condensazione di parole o lo sfruttamento delle somiglianze, per esempio, risparmierebbero energia psichica equivalente a quella dell’esperienza della libido). «Ma la tipica tendenza dei ragazzi», scrive Freud (tacendo delle ragazze), «mi pare derivare direttamente dal piacere per il nonsense».9393Ivi, p. 175.
I bambini (proprio come gli adulti “in uno stato mentale alterato”9494Ivi, p. 174.
) amano giocare con i significati, le parole e le frasi. Successivamente, si comincia a pagare un prezzo in nome della ragione (volezza) e “rimangono permesse solo quelle combinazioni di parole che fanno senso”. In tal modo, quel desiderio rimarrebbe sepolto e cercherebbe una propria gratificazione ricorrendo ai motti di spirito, e riuscendo così a esprimere una dimensione critica.
Il ragionamento non è convincente. Sembrerebbe piuttosto che i motti di spirito siano resi possibili e siano entrati nella nostra esistenza a causa del nostro abnorme bisogno di significato. Quando il nostro cervello a caccia di significato scova, erroneamente, un interesse sessuale o di altro genere in una combinazione di suoni o forme, troviamo questa combinazione divertente. Alla fin fine, ridiamo di questo cervello sempre intento a frugare e, per estensione, di tutte le istituzioni che sono scaturite dal nostro pericoloso bisogno di significati specifici e definiti: regole di giochi, sport club, rituali sociali, mode, scuole, chiese, partiti politici e così via.
Per via del suo carattere perturbante, il motto di spirito viene messo in relazione all’oracolo greco, secondo la descrizione che ne fa Giorgio Colli in La nascita della filosofia: un pronunciamento ambiguo ed elusivo di un Dio apparentemente malizioso e crudele. Gli oracoli ci sono forniti da indovini e hanno spesso le sembianze di indovinelli. Solo i saggi riescono a interpretare questi rompicapi. «Per i greci», scrive Colli, «la formulazione di un enigma contiene in sé una tremenda carica di ostilità».9595Ivi, p. 52.
Gli dei rivelano la loro saggezza attraverso le parole, scrive, «da cui la natura esteriore dell’oracolo: ambiguità, oscurità, allusività, incertezza».9696Ivi, p. 15.
Per Colli l’origine divina dell’oracolo rappresenta in se stessa una spiegazione sufficiente per la sua oscurità. Ma perché la parola di Dio dovrebbe essere oscura (ambigua, incerta e allusiva)? Forse che Dio ha un qualche disturbo di parola? Oppure si tratta semplicemente del fatto che le parole, intrinsecamente faziose e di natura umana, non sono adatte per i pensieri divini? Noi conosciamo le vere parole del Dio cristiano, è vero. Ma perché le parole del nostro onnipotente e infallibile Dio sono così ambigue, contraddittorie e confuse? Ci sono parecchie risposte per questa domanda. Prima di tutto, i libri sacri non sarebbero mai sopravvissuti né avrebbero ispirato così tante persone se fossero stati senza ambiguità. L’inconsistenza [logica, N.d.T.] e la natura confusionaria sono un prerequisito per l’attuabilità e l’efficacia dei testi spirituali. In secondo luogo, la parola di Dio è contraddittoria e confusa affinché non si creda di conoscere Dio. Gli dei sono un utile strumento di potere nel momento che le loro parole possono essere comprese e tradotte solo da pochi selezionati. Inoltre, le persone spirituali vedono gli dei in quanto immagini dell’inconoscibilità del mondo e dell’inadeguatezza della conoscenza. Un Dio conoscibile non può essere un Dio.9797«Tale è il concetto di divinità secondo Eraclito: “l’unità, l’unica sapienza vuole e non vuole essere chiamata con il nome di Zeus. Il nome di Zeus è accettabile come simbolo, come designazione umana del dio supremo, ma non è accettabile come designazione adeguata, proprio perché il dio supremo è qualcosa di nascosto, inaccessibile» (Colli, cit., p. 73). Tuttavia, Colli non si domanda perché Dio debba restare inconoscibile.
Solo in quanto costruzione inconoscibile Dio può guidarci verso l’umiltà e la consapevolezza duratura della nostra conoscenza imperfetta. Le società sono state rese possibili dall’invenzione di dei inconoscibili. Un uomo non smette di essere un animale quando impara a parlare ma quando impara a ricordare che le sue percezioni sono relative, le sue parole inadeguate e i suoi pensieri non potranno mai aspirare a essere fondati su verità universali. Terzo punto, dunque, le parole degli dei sono nebulose al fine di ricordarci che le nostre osservazioni, le nostre parole e i nostri pensieri sono confusi e relativi.
Gradualmente, tuttavia, l’enigma si staccò dall’oracolo divino per assumere la forma di una sfida intellettuale da uomo a uomo. E con il passare del tempo, dice Colli, nacque la dialettica. Una contesa dialettica nell’antica Grecia iniziava sempre a partire da due affermazioni contraddittorie tra loro (L’essere è e l’Essere non è). Il contendente era invitato a difendere una di queste proposizioni e si dimostrava poi che questa posizione (non importa quale delle due) era indifendibile. Lo sfidante – colui che formulava la questione – vinceva sempre.9898Poiché egli poteva sempre dimostrare l’impossibilità di assegnare un valore di verità assoluta a qualsiasi posizione. [N.d.T.]
Secondo Colli, la dialettica greca era distruttiva perché minava ogni forma di certezza o convinzione. Eppure mi sembra che per superare il pregiudizio, la stupidità, la demagogia, la dittatura, la monarchia assolutista e il fanatismo religioso tale distruttività sia necessaria. Nel confronto dialettico, la “vittoria” predestinata allo sfidante non dipende dai suoi argomenti, bensì dal fatto che la difesa di qualsiasi posizione conduce sempre a una contraddizione. Nessuna realtà può essere colta da due sole prospettive. In quasi tutte le scienze il progresso risulta da più approcci che si fertilizzano vicendevolmente, approcci che in precedenza pretendevano di essere esclusivi. Forse che questo ci impedisce di prendere delle posizioni? Certamente no, ma è poi così difficile ricordare che qualsiasi posizione è fondamentalmente relativa? «Eraclito non criticava i sensi», ha scritto Colli,9999Ivi, p. 71.
«al contrario lodava la vista e l’udito, ma condannava la tendenza a trasformare le nostre percezioni in qualcosa di stabile che esisterebbe al di fuori di noi».
«L’essenza dell’enigma», disse Aristotele, «sta nel mettere insieme cose apparentemente incompatibili».100100Ivi, p. 61.
Come ha dimostrato Šklovskij, si può dire la stessa cosa di una narrazione costruita attraverso l’uso di priom: tecniche o dispositivi che permettono svolte e scarti inattesi. In maniera simile funzionano anche il lavoro onirico e la produzione dei motti di spirito, che sembrano parlare per il tramite di una conoscenza segreta che guida il nostro comportamento. Anche “le réel” di Lacan parla per indovinelli.101101Vedi un confronto con l’osservazione di Colli secondo cui le parole greche “arco” e “vita” sono composte dagli stessi fonemi (cambia solamente l’enfasi). Di conseguenza il dio con l’arco, cioè Apollo, diventa il dio della vita e della morte. Nel frammento 51, Eraclito parla di “un’armonia contrastante come dell’arco e della lira”. La lira, che era ricavata dalle corna della capra, era il secondo attributo di Apollo. Si può allora capirne il motivo: il suono identico delle parole “arco” e “vita” e la similitudine formale tra arco e lira non potevano fare altro che produrre un’efficace immagine ambigua (ivi, p. 42).
Tentare di indovinare cosa sia la Volontà di Schopenhauer o l’Inconscio di Freud diventa ridicolo se crediamo che queste Cose esistano realmente. Ma lo sconcertante, il gioco con le parole e con le immagini, la riorganizzazione delle frasi e l’oscillazione di narrazioni alternative possono trasformare una vita incontrollabile in una gestibile. Non perché il nevrotico viene domato dallo psichiatra, come credono i lacaniani, e nemmeno perché la vera natura dei suoi desideri è stata rivelata, bensì perché un’interazione proficua con una realtà mobile (interna o esterna) richiede un gioco con il linguaggio in costante rinnovamento.
Swennen, che indubbiamente ha scoperto un “diritto al nonsense” negli scritti di Lacan, non crede all’esistenza dell’inconscio. «Tutto quello che possiamo dire è che c’è pensiero», dice. Nei dipinti di Swennen c’è pensiero. Ça pense. Colori, forme, texture, lettere, parole e figure sono intrecciate tra loro a formare un nuovo, concreto pensiero. Che non fornisce un resoconto di una realtà che sta al di là del quadro, ma ha il solo scopo di “essere”: essere visibile, essere stato fatto, essere stato pensato attraverso un’azione e dunque, come un enigma, dare testimonianza indiretta dei miracoli del pensiero (attraverso l’azione).
«Sto facendo ricerca di base quando non so cosa sto facendo», ha scritto Wernher von Braun sul «The New York Times».102102In data 16 dicembre 1957. Citato da Hannah Arendt in Vita activa, Boom, Amsterdam, 1994, p. 229 (ed. it.: Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1966).
«Non c’è idea, per quanto antica o assurda, che non sia in grado di accrescere la nostra conoscenza» ha scritto Feyerabend.103103Paul Feyerabend, Tegen de methode, Lemniscaat, Rotterdam, 2008, pp. 206-207 (ed. it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1981).
Come ha dimostrato Claude Lévi-Strauss, per ottenere la pace varie tribù o nazioni della foresta brasiliana non ebbero bisogno della scienza occidentale, ma di un insieme di concetti, immagini e rituali a essi associati che, a loro modo, producevano armonia.
Swennen dà forma a pensieri concreti che rivelano i priom e la struttura a collage di ogni pensiero. Il giovane Swennen voleva diventare un filosofo. È diventato poi un pittore per poter pensare liberamente. O almeno così la vedo io. Ognuno è libero di pensare diversamente.
Montagne de Miel, 30 giugno 2016
Traduzione di Luca Bertolo e Giuditta Gentile
Una versione ridotta di questo testo è stata precedentemente pubblicata su «ATP Diary».
Walter Swennen è un artista eccezionale. Nato nel 1946 a Bruxelles, ha avuto solo negli ultimi anni la fama che merita. Nel 2017 si è tenuta la sua prima mostra in un’istituzione pubblica italiana. Il titolo suonava come una piccola profezia: La pittura farà da sé.
Luca Bertolo (1968) è un artista visivo. Recentemente ha pubblicato I baffi del bambino. Scritti sull’arte e sugli artisti, Quodlibet, 2018.
Paolo Berti è attualmente dottorando in storia dell’arte contemporanea alla Sapienza di Roma. Si occupa di nuovi media, estetiche dei sistemi di controllo e società delle reti.
Giuditta Gentile è appassionata di pittura e studiosa di storia dell’arte. Dopo essersi diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha conseguito un Master in storia dell’arte Rinascimentale presso il Warburg Institute di Londra con una tesi sul valore apotropaico di certe immagini sacre nell’Italia del XVI secolo. Dal 2018 fa parte del team della galleria londinese Arcade.
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Hans Theys è un filosofo, storico dell’arte e curatore belga. Ha pubblicato numerosi saggi, interviste e recensioni su libri, cataloghi e riviste, tra cui alcuni dedicati all’artista Walter Swennen: Walter Swennen, Muhka, 1994; Le Cow-boy, Willy D’Huysser Gallery, 1997; Congé annual, Usine à Stars, 2007. Attualmente insegna alle Accademie Reali di Belle Arti di Anversa e Gent.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.