Partendo dall’assunto che l’era contemporanea è caratterizzata da una netta discrepanza tra la politica, l’azione politica e il gesto simbolico, Irmgard Emmelhainz traccia un parallelismo tra la storia politica militante e l’arte contemporanea. Se, da un lato, focalizza l’attenzione e porta in evidenza il dibattito internazionale su temi di rilevanza sociale come l’esclusione, il bisogno di individuare politiche di integrazione più ponderate ed efficaci, il paradigma garantista dello stato di diritto, dall’altro lato, evidenzia la progressiva perdita di identità della politica tradizionale. La cosiddetta post-politica ha portato con sé un appiattimento ideologico, «un appassimento neoliberale», spiega l’autrice, che ha portato a un inevitabile svuotamento dei presupposti politici su cui si è basata finora la nostra società, riflettendosi poi anche in campo artistico.
Il testo ci accompagna nella visione tagliente dell’autrice, che, passando in rassegna esponenti dell’attivismo politico, artisti tuttora attivi e impegnati politicamente, teorici e critici che hanno caratterizzato il pensiero contemporaneo, non soltanto mette in discussione il sistema dell’arte, ma invita a riflettere sul ruolo dell’arte contemporanea in tali passaggi della storia occidentale.
Introduzione di Francesca Vason
Nel testo che segue vorrei affrontare le trasformazioni che si sono manifestate nel processo di politicizzazione dell’arte degli ultimi decenni, in ambito militantistico nel passaggio dalla rappresentazione alla post-politica e alla post-ideologia. Questo cambiamento si è esplicato nel passaggio dalla rovina della rappresentazione a una politica sensibile: dall’internazionalismo al multiculturalismo, l’antiglobalizzazione e la recente produzione artistica che, oltre ad assumere il compito di rendere visibile l’invisibile, ha proposto delle forme di recupero della realtà, di auto-organizzazione per le comunità transitorie, migliorandone le condizioni di vita e di lavoro e immaginando nuove forme di organizzazione, nuovi percorsi e progettualità basate sull’arte utile. Una delle domande più urgenti che dovremmo porci riguarda il ruolo che l’arte contemporanea gioca nella geopolitica, se consideriamo il mondo dell’arte come industria, come il precursore del neoliberalismo e come uno strumento di pacificazione, normalizzazione e gentrificazione. A tal proposito, lo stato-nazione può ancora svolgere la funzione di contenitore delle lotte globali? Come contribuiscono l’arte politica e la militanza degli anni ’60 e ’7011Questi sono stati alcuni dei quesiti posti in occasione del Sharjah March Meeting del maggio 2015.
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La rovina della rappresentazione
Nel secolo scorso, fino agli anni ’60, l’azione politica era inquadrata all’interno dei sindacati, dei partiti e delle associazioni politiche e si risolveva nell’organizzazione e nella partecipazione a raduni, scioperi, manifestazioni. In questo contesto, divulgare materiale stampato e tenere comizi rappresentava ciò che oggi viene riconosciuto come agitazionismo. Ne è stata un esempio Lucy Parsons (1853-1942, N.d.T.), attivista instancabile, membro del partito comunista, nonché dell’Unione delle donne lavoratrici di Chicago e dal 1877 unita al Partito Socialista dei Lavoratori. Lucy Parsons ha fatto il giro degli Stati Uniti diventando uno dei principali leader della classe operaia e uno dei principali difensori dell’anarco-sindacalismo, a favore dei diritti dei neri e di quelli legati alla prostituzione22Cf. A. Y. Davis, Mujeres, raza y clase (Madrid: AKAL, 2004), pp. 157–159.
. La filosofa francese Simone Weil (1909-1943, N.d.T.), anch’essa militante, ha cercato di andare oltre il comizio politico (sebbene fosse nota per i suoi discorsi ai lavoratori a Le Puy, dove insegnava filosofia), impegnandosi fisicamente nel lavoro in fabbrica, nelle fattorie, così come nella lotta armata con l’esercito repubblicano nella guerra civile spagnola. Negli anni ’60, si evidenzia un importante cambiamento nell’impegno politico, soprattutto dopo il maggio ’68. Seguendo le orme di Weil – e in opposizione a Jean-Paul Sartre, che ha sempre mantenuto ben separate l’azione militante dall’attività filosofica – personaggi come il giornalista Ulrike Meinhof, il filosofo Régis Debray e il regista Masao Adachi hanno scavalcato la concezione del partito politico come contenitore per la politica progressista e si sono impegnati direttamente nella lotta armata, cercando di unire teoria e pratica. Anche studenti maoisti hanno respinto l’etichetta partitistica per lavorare al fianco di operai e contadini, non tanto per cercare di persuaderli (come Lenin aveva prescritto nel suo Che fare?), ma per imparare da loro.
Gilles Deleuze e Michel Foucault hanno dibattuto sui cambiamenti della politica militante e le relative implicazioni in un dialogo pubblico avvenuto il 4 marzo 1972.33G. Deleuze e M. Foucault, Intellectuals and Power: A Conversation Between Michel Foucault and Gilles Deleuze in Language, Counter-memory, Practice, ed. Donald F. Bouchard (Ithaca: Cornell University Press, 1977).
I due hanno posto l’attenzione sul ruolo degli intellettuali in relazione alle lotte degli studenti, dei lavoratori e dei prigionieri. Nel corso della discussione Foucault ha individuato due tipi di intellettuali politicamente coinvolti: gli emarginati, che si impegnano in azioni considerate sovversive o ‘immorali’ dalla società borghese (come ad esempio Jean Genet) e i socialisti, che usano il discorso per rivelare verità specifiche (come ad esempio Rosa Luxemburg). La maggior parte degli intellettuali ha tradizionalmente assunto quest’ultimo ruolo, al servizio della ‘coscienza del popolo’. Gli eventi del maggio ’68, tuttavia, hanno sancito che le masse non avessero più bisogno della classe intellettuale per sentirsi rappresentati o per vedere descritte le varie forme di oppressione. Secondo Deleuze, il ruolo dell’intellettuale non si poneva più davanti a quello del lavoratore, ma aveva il compito di mettere in discussione le stesse forme di potere, assumendo la posizione di produttori di conoscenza. Così, ciò che è stato problematizzato in quel maggio ’68 fu proprio il concetto di ‘coscienza rappresentativa’. Gli intellettuali si erano resi conto di come era possibile diffondere discorsi di potere mascherandoli come ‘conoscenza’, ‘coscienza’ e ‘verità’. Foucault e Deleuze sostenevano che non fosse più possibile una rappresentazione, non tanto perché mancava un significante in grado di unire un gruppo sulla base di interessi comuni, ma perché in questo ‘parlare per gli altri’ si evidenziava il desiderio inconscio di operatività: di conoscere, di appropriarsi e imporre il proprio potere sugli altri, negando il diritto di auto-coscienza. Foucault e Deleuze, pertanto, hanno offerto agli intellettuali il compito di organizzare delle lotte politiche al di là della coscienza di classe. Essi hanno presentato la politica militante come una questione di denuncia, un modo di parlare apertamente, individuando obiettivi, e di creare gli strumenti per combattere diverse forme di potere e oppressione.
Questo ha dato vita a un percorso rivolto all’esposizione di diverse lotte al di là della coscienza di classe, radicate nella cultura e nelle arene sociali, da aggiungersi a una politica di contro-informazione che ha privilegiato i mass media come luoghi di intervento propagandistico. Le nuove lotte micropolitiche hanno mirato a sviluppare processi di soggettivazione (subjectivation) e assoggettamento (in francese assujettisement o sujétion), i quali hanno definito ruoli, funzioni e identità di individui subordinati a una data forma di potere. Queste lotte hanno tentato di sfruttare la logica della soggettivazione per organizzare l’auto-coscienza militante, la costruzione di un soggetto (o di una soggettività) politico attivo che potrebbe andare contro questo processo di sottomissione.
Nel campo dell’arte, dopo i cambiamenti portati dalla caduta della rappresentazione estetico-politica (e manifestata in filosofia come teoria post-strutturalista), gli artisti hanno sviluppato strategie e pratiche concettuali, smaterializzando l’oggetto, come resistenza alla crescente mercificazione. Attraverso la critica istituzionale hanno cominciato a mettere in discussione le condizioni legate alla produzione artistica e attraverso l’educazione del pubblico sono state prodotte opere d’arte (in particolare video) che hanno cercato di contrastare la spettacolarizzazione.
Dall’antimperialismo alla celebrazione globale della differenza
Contemporaneamente alle lotte studentesche e dei lavoratori in Europa, erano in corso nel terzo mondo delle battaglie anti-imperialiste, contrarie alla colonizzazione, tentando di stabilire delle alternative possibili al capitalismo occidentale. Negli anni ’70, Cuba, Cina, Palestina, Cile e Vietnam ne rappresentano gli esempi principali. Il comunismo era una ‘ipotesi vivente’, un orizzonte capace di muovere le convinzioni, le passioni e le volontà di gran parte delle rivoluzioni e della solidarietà che ha spinto il mondo occidentale.44Cf. M. Lazzarato, From Knowledge to Belief, from Critique to the Production of Subjectivity, in «Transversal», Aprile 2008.
I personaggi creati dall’anti-imperialismo erano perlopiù contadini o esponenti dei bassifondi, quei soggetti colonizzati in lotta per la propria emancipazione contro l’impero. Dagli anni ’80, tuttavia, il progetto rivoluzionario antimperialista è stato rinnegato come una sorta di aberrazione del socialismo decadente. Una nuova forma deideologizzata di emancipazione del terzo mondo, al di là della divisione internazionale del lavoro e della figura del lavoratore come soggetto politico autonomo definito, è salita in primo piano. L’anti-imperialismo possedeva implicitamente il potenziale di universalizzare qualsiasi causa o di dare un nome a un errore politico; i Dannati della terra (libro di Frantz Fanon, edito nel 1961, con la prefazione di Jean-Paul Sartre, N.d.T.) è uscito in un particolare periodo di tempo portando una nuova raffigurazione di ‘popolo’ in senso politico. Ma un nuovo umanesimo etico è subentrato, sostituendo la compassione rivoluzionaria con la pietà e l’indignazione morale e trasformando quest’ultima in sentimenti politici all’interno del riquadro dei diritti umani.55I. Emmelhainz, From Third Worldism to Empire: Jean‐Luc Godard and the Palestine Question, in Third Text (2009), pp. 649–656.
Ciò, tra gli anni ’80 e ’90, ha indotto all’emersione di nuove figure basate sull’alterità: la ‘sofferenza dell’altro’, di chi ha bisogno di aiuto, esigendo un risarcimento per la subalternità postcoloniale, presuppone che la visibilità dovrebbe essere una conseguenza dell’emancipazione. Queste figure, etnicamente definite e auto-rappresentate, in lotta per il riconoscimento sociale e per l’ottenimento di un luogo in cui narrare le proprie storie soppresse, sconosciute, dimenticate, hanno ridefinito il soggetto postcoloniale: «Parlo dunque sono» asseriva l’artista Guillermo Gómez-Peña nella sua Declaration of Poetic Disobedience (2006). Per evitare la rappresentazione di identità basate su arcaismi (o ‘essenzialismi’, come direbbe Gayatri Spivak), che potrebbero perpetuare i discorsi sull’Altro della società occidentale attraverso nazionalismi, miti, e altri tipi di credenze etniche, negli anni ’80 i teorici della postcolonizzazione hanno postulato la differential structure of identification, secondo cui l’identità sarebbe un processo in continua formazione, che si costituisce attraverso ambivalenze e «scissioni».66S. Hall, Old and New Identities, Old and New Ethnicities, in Culture, Globalization and the World-System: Contemporary Conditions for the Representations of Identity, ed. Anthony D. King (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1997), p. 43.
Ciò che è diventato cruciale politicamente, secondo Homi Bhabha, è l’articolazione dei ‘momenti interstiziali’, di quei processi prodotti attraverso le differenze. Per Bhabha, questi cosiddetti «terzi spazi» possono consentire l’elaborazione di una rappresentazione comune, la generazione di ‘nuovi segni’ di differenza culturale come «luoghi di collaborazione».77H. Bhabha, Frontlines/Borderposts, in Displacements: Cultural Identities in Question, ed. Angelika Bammer (Bloomington: Indiana University Press, 1994), p. 269.
Il concetto di ‘differenza’, tuttavia, ha finito per essere oggetto di banalizzazioni. Entro la fine degli anni ’90 esso si è manifestato nel mondo dell’arte all’interno delle Biennali che si sono svolte anche negli angoli marginali del mondo, quasi a voler appagare l’utopia multiculturale della globalizzazione.
Sotto il modello di intervento site-specific portato avanti dalle Biennali, lo spazio ha via via preso considerazione come un luogo epistemicamente ricco; la necessità di offrire esperienze o di intervenire direttamente nei processi quotidiani si è sostituita alla rappresentazione. Il concetto di site-specific ha tentato di infondere e sviluppare una critica sociale nel quotidiano. Tuttavia, come una dichiarazione morale, l’attitudine al site-specific ha limitato gli effetti sulla politica. Restando tra i confini dell’arte contemporanea, ne ha messo in luce le contraddizioni e le potenzialità, senza però riuscire a modificare lo sfondo del trambusto politico presente.
Questa tendenza verso la site-specificità si è presentata come una forma di liberazione in quanto ha permesso la destituzione di un’unica identità nazionalistica e introdotto la possibilità di accogliere molteplici identità e significati nuovi. Questo è stato suggerito da Susan Buck-Morss, che ne parla come di una fantasia di compensazione che ha risposto alla frammentazione intensificata e all’alienazione di un’economia di mercato allargata.88S. Buck-Morss, Thinking Past Terror: Islamism and Critical Theory on the Left (London: Verso, 2003), p. 64.
Così, nel mondo dell’arte biennalizzato, il multiculturalismo, la polifonia, e la marginalità in realtà si sono effettivamente venute ad affermare come white hegemony, nella misura in cui hanno espresso una lotta morale per il loro riconoscimento. Considerando che le identità fluide sono rese possibili dal privilegio della mobilitazione e che perciò sostengono una specifica relazione con il potere, è stata istituita una nuova divisione di classe sulla base di diversi livelli di mobilità: da un lato, una classe transnazionale di operatori culturali con facile e sicura libertà di circolazione, che riflette sull’altrove dei processi globali; dall’altro lato, i lavoratori migranti e i rifugiati che attraversano le frontiere illegalmente, per sopravvivere.
Estetica globalfobica e mediattivismo
Con il disfacimento dell’Unione Sovietica avvenuto dall’89, è scemato anche l’orizzonte politico del comunismo, da intendersi come una promessa, un’utopia, una base intellettuale e una visione politica, per rivelarsi invece un esperimento disastroso di espressione dittatoriale.99Boris Groys, The Post-Communist Condition.
Mentre si attuavano le politiche neoliberiste e in tutto il mondo si firmavano accordi di libero scambio, verso la metà degli anni ’90 si assiste all’affermazione del movimento antiglobalizzazione, in opposizione alle riforme neoliberali e a favore di un commercio equo, dello sviluppo sostenibile, della regolamentazione dei diritti umani e di una maggiore responsabilità delle imprese. Secondo Brian Holmes, tale movimento è stato il primo tentativo di rispondere, in modo diffuso e capillare, al caos del sistema mondiale post-’89. In questa cornice, gli anticapitalisti hanno criticato i fallimenti dei governi neoliberisti da una serie di diverse posizioni: i sostenitori della sovranità democratica, i liberali contro le frontiere, e i più tradizionali keinesiani.1010B. Holmes, Continental Drift: Activist Research, From Geopolitics to Geopoetics, in «framework X ephemera», 5 X (2005), p. 741.
Il movimento antiglobalizzazione è stato concepito come una base sociale per mettere in discussione il sistema capitalistico delle corporazioni bancarie, la globalizzazione stessa e il crescente potere accentrato nelle mani delle multinazionali, esercitato attraverso accordi commerciali e la deregolamentazione dei mercati finanziari.
Le manifestazioni sono confluite nei principali raduni internazionali dei leader mondiali, il caso più noto è quello di Genova nel 2001 o il World Social Forum di Porto Alegre, in Brasile, che si è tenuto nello stesso anno. La soggettività politica incarnata dal movimento è stata teorizzata da Michael Hardt e Antonio Negri, i quali hanno tentato di superare l’identità del lavoratore ‘proletario’ e l’omogeneità insita nel concetto di ‘popolo’, per introdurre quello di ‘moltitudine’. Per Hardt e Negri, la moltitudine è un essere sociale che si forma nel non-luogo del capitalismo. Si tratta di una rete decentrata di singole cellule all’interno dell’Impero in grado di produrre ‘senso comune’, che è anche la sostanza della moltitudine, la condizione e la fine della produzione (il locus del plusvalore). La moltitudine esiste all’interno del dominio imperiale del biopotere, una forma di controllo sociale che regola e gestisce la vita dall’interno, che si estende attraverso la coscienza, i corpi, e la totalità delle relazioni sociali. Anziché mirare a prese di potere e ai mezzi di produzione, come prescriveva il Marxismo nel ventesimo secolo, per Hardt e Negri il compito della moltitudine è quello di democratizzare la comunità, sfruttare le reti di produzione sociale con lo scopo di raggiungere un’autonomia e minare la sovranità. Tuttavia, la natura della moltitudine porta con sé una serie di contraddizioni che possono diventare pericolose in quanto, se da un lato la produzione orizzontale può portare alla liberazione e all’emancipazione, dall’altro può costringere a un nuovo regime di sfruttamento e di controllo, alimentando così il biopotere.
Parallelamente al movimento no global, la produzione artistica ha virato verso la rappresentazione della politica anticapitalista, portando avanti valori legati all’interdisciplinarietà e all’adozione di una serie di posizioni controculturali e di carattere politico, con l’obiettivo di creare zone autonome, sia pure solo a livello simbolico. In questa direzione molti collettivi artistici hanno realizzato interventi contro-informativi, con finalità didattiche e simboliche o azioni contro il capitalismo nella sfera pubblica, tra questi: REPOhistory, Group Material, Guerrilla Girls, WochenKlausur, Colectivo Cambalache, Las Agencias (Yomango, Prêt à Revolter, e così via), Ne Pas Pinza, Haha, the Yes Men, Superflex, Mejor Vida Corp., The Center for Land Use Interpretation, il Gruppo Atlas, Raqs Media Collective e Chto Delat. Allo stesso tempo, il mediattivismo si è attivato con strategie d’attacco ai server, agendo come una sorta di ‘sit-in’ digitali. Ma questa forma di attivismo creativo è durata solo fino a quando il sistema integrato globale di sorveglianza elettronica è stato implementato a seguito dei fatti dell’11 settembre (quando la clandestinità è diventata impossibile e questa forma di attacco è stata criminalizzata), dove antiglobalizzazione, arte e attivismo sono stati rimessi in discussione per non essere supportati da un programma politico o per averne uno molto vago.1111G. Sholette, Art Out of Joint: Artists’ Activism Before and After the Cultural Turn in The GULF: High Culture/Hard Labor, ed. Andrew Ross (New York: OR Books, 2015), p. 80.
Per Hardt e Negri, la moltitudine nasce dal desiderio di uguaglianza, di libertà, di una società democratica sul piano globale. La moltitudine ha il potere di realizzare questi obiettivi, ma il suo programma non è in alcun modo distinguibile o capace di andare oltre l’opposizione al capitalismo.
I limiti del programma no global sono presentati attraverso una delle azioni realizzate nell’ambito di Yomango, un progetto artistico spagnolo di disobbedienza sociale. Yomango ha proposto e divulgato alcune istruzioni su com’è possibile appropriarsi (spesso illegalmente, N.d.T.) di beni commerciali disponibili nei negozi di capillarità globale, organizzando dei momenti di incontro nei quali tali beni possono poi essere ricondivisi. Seppur pensato per mettere in evidenza la necessità di una redistribuzione della ricchezza e dei beni comuni, tuttavia questa azione ha trascurato la divisione internazionale del lavoro e delle modalità di produzione che stavano dietro a quelle merci di cui si appropriavano illegalmente.
Secondo Brian Holmes, il movimento no global ha vacillato a causa delle conseguenze culturali della globalizzazione stessa, o meglio, a causa del successo su scala globale della cultura di massa americana che ha messo a tacere le culture locali solo per farle risorgere in forma di disneyficazione. Il movimento antiglobalizzazione è stato sconfitto anche dal programma neoliberista che inizialmente aveva sostenuto e che si manifestava come un ritorno all’ordine sul piano militare, morale e religioso, come un’espansione massiva del capitale e come un provvedimento su scala globale delle libertà civili.1212Holmes, Continental Drift, cit., p. 741.
Nel dominio della high culture, l’espansione della cultura di massa americana è cresciuta di pari passo con la globalizzazione del modernismo occidentale, come una sorta di lingua franca dell’arte contemporanea, derivata dal graduale svuotamento della postmodernità come categoria critica e temporale e la sua sostituzione con una singolare e internamente differenziata modernità globale.1313P. Osborne, The Postconceptual Condition or the Cultural Logic of High Capitalism Today, in «Radical Philosophy», 184 (Marzo-Aprile 2014), p. 19; concetto simile a quello che Nicolas Bourriaud ha definito ‘Altermodern’ nel suo Altermodern (London: Tate Publishing, 2009).
Relazionalità e recupero dell’arte
Insieme al programma sviluppato dal movimento antiglobalizzazione, va menzionata una corrente che, nella produzione artistica, ha cercato di sperimentare diverse forme di collettività e di comunità al di là delle identità e dei processi di identificazione. L’arte relazionale degli anni ’90 ha saputo porsi come un catalizzatore di momenti di comunità transitorie, cercando di far rivivere le relazioni sociali e contrastare lo stato di alienazione provocata dallo spettacolo. Questa forma artistica, descritta da Nicolas Bourriaud, ha immaginato il pubblico come una comunità e si inserisce nel contesto delle interazioni umane, elaborando così dei significati espressi collettivamente. Prendendo le distanze da programmi ‘utopistici’, gli artisti relazionali hanno cercato di trovare delle soluzioni temporanee nel qui e ora; questo è il motivo per cui le opere d’arte relazionali insistono sulla possibilità di essere fruite, usate, anziché contemplate.1414C. Bishop, Antagonism and Relational Aesthetics in «October», 110 (2004), pp. 51–79.
Una forma estetica basata sulla partecipazione, è stato detto da Claire Bishop, che ha posto il concetto di antagonismo al centro di situazioni in cui i membri di una collettività sono chiamati a confrontarsi, mettendo in luce in questo modo i limiti che possiede un gruppo sociale di autocostituirsi e definirsi pienamente come tale.1515Come in Confrontations di Santiago Sierra o in Bataille Monument di Thomas Hirschhorn (2002), parte di Documenta 11.
La tensione a mettere in atto pratiche ‘dialogiche’ è esemplificata nel lavoro di Suzanne Lacy, che ha riunito un gruppo di persone provenienti da categorie sociali diverse (ad esempio, studenti, poliziotti, giornalisti) e dispositivi, riadattati per la creazione di spazi trasversali di dialogo.1616G. Kester, Conversation Pieces: Community and Communication in Modern Art (Los Angeles: University of California Press, 2004).
Nell’opera The Roof is On Fire (1994), parte del lavoro che ha svolto a Oakland, Suzanne Lacy coinvolge 220 studenti delle scuole superiori pubbliche a prendere parte a conversazioni improvvisate, prive di copione, sui temi della famiglia, della cultura, della razza e dell’istruzione. L’azione si è svolta in un parcheggio, sul tetto di un edificio, tutti seduti in un centinaio di macchine, con i residenti di Oakland ad ascoltare le loro conversazioni. Il lavoro di Lacy ha la capacità di unire strumenti istituzionali e sociali con quelli propri della didattica laboratoriale, facendo interagire mass media con l’elaborazione di politiche.
Possiamo considerare relazionali, partecipative e basate sul dialogo, le pratiche artistiche che sperimentano nuovi modelli di organizzazione sociale e politica. Queste sperimentazioni sono emerse a fronte della frammentazione, la distruzione dei legami sociali e la conseguente alienazione provocata dalla globalizzazione. Queste pratiche hanno anche evidenziato come l’arte sia diventata una forma di sperimentazione capace di attraversare trasversalmente le questioni contemporanee del nostro mondo, grazie alla sua capacità di toccare, aprire e rifugiarsi in altre discipline, dispositivi e altri regimi, con lo scopo di affrontare ed entrare nel merito delle questioni sociopolitiche.
La partecipazione, tuttavia, ha i suoi limiti, in quanto è una delle forme di potere e di governo neoliberale. Secondo Eyal Weizman, sull’orizzonte della partecipazione c’è collaborazione, la tendenza ad «allineare, con forza o volontariamente, le proprie azioni agli obiettivi del potere, sia esso politico, militare, economico o una loro combinazione».1717E. Weizman, The Paradox of Participation, introduction to Markus Miessen, in The Nightmare of Participation (Frankfurt: Sternberg Press, 2011), p. 9.
Il problema è che tra le opzioni cui ci è consentito scegliere non vi è la possibilità di mettere in discussione se stessi, e così la partecipazione finisce per costringere il soggetto a conformarsi al potere dominante. Questa forma di potere è stata teorizzata da Wendy Brown, che l’ha definita come ‘governo neoliberista’, la cui attenzione è la creazione di incentivi per negoziare obiettivi comuni.1818W. Brown, Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution (New York: Zone Books, 2015).
In questo senso, l’azione di un governo implica la necessità di creare dei sistemi che consentono di regolare o controllare l’inclusione attraverso la feticizzazione della democrazia. Tramite l’integrazione, l’individuazione e la cooperazione, la democrazia si riduce a ‘partecipazione’, pur avendo malgrado tutto divorziato dalla giustizia. Il malcontento in questo modo si placa.191921 Ibid., p. 129.
E la partecipazione, dunque, solleva dilemmi politici ed etici, chiedendo che i rapporti di potere, che ne consentano l’esistenza, vengano urgentemente posti in discussione. L’arte partecipativa, tuttavia, può essere intesa come un tentativo di sperimentare delle modalità per ripristinare i legami sociali che le politiche neoliberiste hanno distrutto o minato. Come Jean-Luc Godard, che ha postulato l’immagine come una forma di ‘recupero del reale’, WJT Mitchell ha postulato la pratica artistica relazionale e site-specific come una forma ‘recupero’, capace di scavare al fondo delle cose, riportarne in luce i resti, e salvare quartieri, coinvolgendo l’arte e creando virtuose collaborazioni tra istituzioni e comunità.2020Mitchell ha espresso queste osservazioni durante la conferenza del 2015 al Sharjah marzo Meeting. La voce fuori campo in Godard Histoire(s) du cinéma (1998) afferma quanto segue: «Anche se fatalmente graffiato, un piccolo rettangolo di 35 millimetri è in grado di salvare l’onore di tutta la realtà».
L’arte ha il compito di ‘salvare’ la realtà facendo rivivere la singolarità dei luoghi e delle persone, qui possiamo ricordare l’attenzione alla dimensione locale, alla sua specificità culturale con interventi site-specific che hanno caratterizzato gli anni ’90. Il punto non è che il mondo o la realtà sono andati perduti, ma piuttosto che la nostra fiducia in essi è stata profondamente minata e ora è necessario recuperarla. L’arte in questo può venire in aiuto. Secondo Mitchell, la nuova vocazione dell’arte è quella di ricostruire il mondo, letteralmente e simbolicamente, come un modo per risaldare la solidarietà sociale e per alimentare immaginari comuni. Ad esempio, Pedro Reyes trasforma delle armi in strumenti musicali, oppure in Dorchester Project Theaster Gates acquista e ristruttura degli edifici del South Side di Chicago precedentemente abbandonati per riutilizzarli socialmente. Il compito di questi artisti e di questo approccio verso l’arte è quello di sperimentare delle vie per ristabilire il contatto vitale con il reale, mettendo in evidenza l’attuale difficoltà di manifestare la propria presenza nel mondo a causa della condizione di estrema alienazione che stiamo registrando in Occidente.
La politica nell’arte e le politiche di resistenza
L’antiglobalizzazione, le pratiche estetiche di natura relazionale e quelle più interventiste esemplificano i diversi modi in cui l’arte e la politica si sono legate l’una all’altra all’interno di estetiche politicizzate. Ma è possibile individuare altri modi attraverso cui politica ed estetica convergono. Ad esempio, come dimostra Hito Steyerl in Is the Museum a Battlefield? (2013), esiste una politica dell’arte. In questa video-performance, che è anche una sorta di documentario, Steyerl collega eloquentemente un bossolo trovato su un campo di battaglia in Turchia alla complessa macchina industriale del museo, rivelando i legami tra l’industria delle armi, le multinazionali, le cosiddette ‘archistar’ e le biennali globali. La genealogia del video di Steyerl può essere fatta risalire alla critica istituzionale degli anni ’70, ’80 e ’90, che mirava a chiarire i discorsi dietro le pratiche espositive e sollevare le prime preoccupazioni relative alla sponsorizzazione nell’arte.
Recentemente ci sono state mobilitazioni che trascendono il dominio della produzione artistica e che sono da concepire come azioni politiche avvenute direttamente all’interno dei musei. Ad esempio, l’occupazione temporanea che la coalizione di artisti e attivisti del Gulf Labor ha messo in atto lo scorso giugno al Guggenheim di New York per protestare contro le condizioni di lavoro degli operai impegnati nella costruzione del nuovo museo Guggenheim di Abu Dhabi. Anche il gruppo Liberate Tate si è impegnato in diverse azioni volte a far luce sulla sponsorizzazione della compagnia British Petroleum al museo inglese (pare infatti che il sodalizio tra il museo e la Bp si interromperà nel 2017, N.d.T.). Molti artisti sono sempre meno desiderosi di tenere separata la creatività dai luoghi in cui espongono e dagli sponsor che li supportano. Si evidenzia una certa riluttanza a dare credibilità a sponsor privati che cercano nell’arte un modo per ripulirsi dai propri crimini.2121Global Ultra Luxury Faction (G.U.L.F.), On Direct Action: An Address to Cultural Workers,in The GULF, p. 134.
Queste azioni politiche – che obbligano a prendere una posizione, avanzare delle esigenze, spronare al boicottaggio – sono modalità differenti dalle pratiche politicamente impegnate che ho descritto sopra. Queste infatti hanno utilizzato il mondo dell’arte come uno spazio strategico di sperimentazione per la discussione politica.
Gruppi come Gulf Labor e Liberate Tate, attraverso la loro azione di disturbo, manifestano contro lo sfruttamento del lavoro, l’uso improprio di uno spazio pubblico, le ingiustizie climatiche e la gentrificazione. Si tratta di una denuncia mossa contro il mondo dell’arte come ‘un sottosistema di spettacolarizzazione del capitalismo globale che ruota attorno al display, al consumo e alla finanziarizzazione dei beni culturali a vantaggio dell’1%, ovvero di una piccola frazione di umanità.2222Global Ultra Luxury Faction (G.U.L.F.) Manifesto, 25 Giugno 2015.
In occasione della Biennale di Istanbul 2015, alcuni artisti hanno indetto 15 minuti di ‘interruzione produttiva’ (productive disruption) per evidenziare l’escalation di violenza registrata in Turchia e per invocare un ritorno alla negoziazione di pace tra il governo turco e il PKK (partito dei lavoratori curdo2323Cf. Artists at Istanbul Biennial plan ‘Productive disruption’ to demand resumption of peace talks, in «e-flux conversations», 1 Settembre 2015.
). In occasione della Biennale di Venezia del 2015, alcuni artisti hanno redatto la Lettera per la Palestina, con l’obiettivo di portare l’attenzione sulla campagna per il boicottaggio accademico e culturale di Israele.2424Cf. H. Vartanian, Artists Launch Letter for Palestine Campaign at Venice Biennale, in «Hyperallergic», 13 Agosto 2015.
Un’espressione di solidarietà verso la Palestina è giunta nel 2014 anche dalla Biennale di San Paolo, quando 176 su 199 artisti partecipanti alla manifestazione hanno firmato una lettera aperta contraria alla ‘sponsorizzazione culturale’ da parte dello Stato di Israele. I curatori della Biennale hanno sostenuto l’iniziativa e, in risposta alla Fundação Bienal de São Paulo, hanno accettato di ‘dissociarsi con chiarezza’ dal finanziamento di Israele come sponsor assoluto dell’evento2525Cf. G. Mannes-Abbott, The Emergent Wave of Artworld Activism, in The GULF, p. 98.
.
Gli artisti sono ora più sensibili e stanno sensibilizzando il pubblico verso ogni forma di violenza epistemica e fisica commessa all’interno dei luoghi di produzione artistica, e altrove. Il loro impegno è rivolto a ristabilire un contatto con la vera politica per indagare e denunciare le nuove forme di sfruttamento che riducono in schiavitù: la figura del lavoratore come luogo per fare politica sta tornando alla ribalta.
Tracciando una connessione tra attori del mondo dell’arte e progetti orientati verso l’azione politica, si cerca di creare una soggettività e un terreno fertile per atti politici, individuando le lotte di potere (istanze di soggettivazione). Questi attori sono talvolta legati a movimenti sociali e politici, a collettivi autonomi e a media alternativi. Il problema è tuttavia, secondo Gregory Sholette, che queste forme d’arte tendono a essere caratterizzate dall’assenza di qualsiasi contro-narrativa ideologica al capitalismo e dalla convinzione (sempre minore) che «i produttori culturali possono portare qualcosa di straordinario alle masse svantaggiate tramite i i benefici dell’arte impegnata»2626G. Sholette, Art Out of Joint, p. 83.
. Molte delle pratiche descritte finora non costituiscono azioni politiche fini a se stesse: immagini e gesti simbolici sono serviti come back-up per aiutare attivisti a guadagnare influenza politica e maggiore visibilità. Mentre l’arte e il sistema dell’arte rappresentano indiscutibilmente degli spazi di autoriflessione, utili a chiarire i processi globali di oppressione e di esproprio, i laboratori sperimentali o le piattaforme comuni, le terapie collettive, le politiche speculative, come veicoli per ottenere visibilità, l’estetica politicizzata non sono di per sé un mezzo per resistere. Inoltre, bisogna considerare che le critiche al capitalismo hanno bisogno di una base sociale, così come le forme di resistenza contro la distruzione neoliberista ha bisogno di nuovi modi di vivere e di esperienze comuni. Dobbiamo anche tener conto che, al giorno d’oggi, il potere è insito negli ambienti e negli oggetti di uso quotidiano, che il potere è presente nell’ordine delle cose stesso: non solo tra le strutture, ma il modo stesso in cui opera è controllato, costruito.2727Comité Invisible, A nos amis, pp. 84–86.
Queste forme di potere rendono lo stato-nazione sordo a tutte le richieste che potremmo avanzare. Lo stato-nazione oggi non è legittimato mediante processi democratici, ma neutralizzando le richieste dei cittadini e governando le sue popolazioni in modo differente, come vedremo nel seconda parte di questo saggio.
Rif. bibl. I. Emmelhainz, Geopolitics and Contemporary Art, Part I: From Representation’s Ruin to Salvaging the Real, «e-flux Journal», #69, Gennaio 2016.
© 2016 e-flux e l’autrice.
Francesca Vason è curatrice e storica dell’arte. Lavora con M+B Studio a Venezia come curatrice e project coordinator di progetti espositivi internazionali. Collabora con TBA21-Academy e Ocean Space, La Biennale di Venezia, Danish Art Foundation, OCA – Office for Contemporary Art Norway, Singapore Design Council, oltre a sviluppare progetti indipendenti. Prende parte a Campo – programma per curatori italiani della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e, dopo aver scritto per magazine come Juliet e InsideArt, è tra i fondatori di KABUL magazine, dove attualmente opera come autrice e referente per le sezioni Project ed Editions.
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Irmgard Emmelhainz è una scrittrice e traduttrice oltre che ricercatrice indipendente di base a Città del Messico. La sua ricerca di concentra sullo studio delle implicazioni politiche e sociali dei fenomeni contemporanei legati alla lotta al neoliberismo. È autrice di La tirannia del buon senso: la riconversione neoliberale del Messico (2016). La sua ricerca è stata presentata in diverse università e istituzione tra quali: Harvard Graduate School of Design, la Sharjah Biennial negli Emirati Arabi Uniti e all' Americas Society di New York. Ha tenuto diversi seminari, conversazioni e corsi: presso Casa Comal della Città del Guatemala, alla York University di Toronto, 2010, alla The Americas Society di New York e altri ancora.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.