Recuperare la natura estinta
È il 1978, camminando per le vie di New York, ti ritrovi all’incrocio tra LaGuardia Place e West Houston Street. Proprio dove oggi troveresti Starbucks, sushi e cucina messicana, noti invece una strana dissonanza rispetto all’ambiente urbano, una sorta di giardino che sembra essersi smarcato dalla civilizzazione, una sorta di Eden isolato dal resto del mondo. Ti avvicini e noti una targhetta: “Time Landscape”.
L’ennesimo intervento artistico nello spazio pubblico, ti dirai, ma di che si tratta stavolta? Sarà forse più interessante rispetto alla moltitudine di performance e installazioni incomprensibili che popolano ormai la città? Dopo qualche passo all’interno del parco, ti rendi conto che di “artistico” non c’è assolutamente nulla, che nessuna costruzione, invenzione, stramberia del genio umano occupa il prezioso spazio pubblico. Si tratta, invece, di un luogo puro e incontaminato in cui querce, frassini, olmi, tulipani, viole e altre svariate specie vegetali esistono da un’età precoloniale, giunte fino a qui prima dell’avvio della civiltà, del popolamento e dell’irreparabile trasformazione apportata sulla natura dall’essere umano.
È il 2018, viaggiando per la Finlandia, vai a visitare il Lönnström Art Museum. Con un interesse più marcato per l’arte contemporanea, ti lasci trasportare da una visita che, tutto sommato, tra dipinti e nuove sperimentazioni, rispecchia il gusto del grande pubblico dell’epoca, ammaliando e compiacendo gli occhi. Al termine del tour, un ragazzo dello staff si avvicina e ti avvisa che a breve partirà una navetta gratuita diretta a Ortenoja, dove sarà possibile ammirare l’ultimo intervento artistico promosso dall’istituzione. Con piena fiducia, raggiungi il gruppo e, in meno di un’ora, ti ritrovi nel cuore della Finlandia ai più sconosciuta. La guida del museo vi conduce tra le vie e i principali punti d’interesse della piccola cittadina, fino a giungere alla tanto declamata attrazione artistica. Tuttavia, la sola cosa che vedi è una casupola con giardino circondata da una recinzione metallica, a quanto pare senza alcun cancello o via d’accesso. Sarebbe questa l’opera d’arte? Una proprietà nel mezzo del nulla che nemmeno è possibile visitare? La guida racconta di come il duo artistico, nel concepire l’intervento, abbia deliberatamente delimitato la proprietà, così da lasciare la natura crescere ed evolvere in libertà, senza interventi né intrusioni umane, in modo che nessuno possa interagire imprimendovi la propria impronta.
È il 2023. Le notizie allarmanti sul cambiamento climatico, il riscaldamento globale, l’inquinamento e l’estinzione di massa sono ormai all’ordine del giorno. Dall’arte contemporanea continuano a emergere opere e ricerche che attenzionano questi pericoli fondandosi sull’idea che la natura vada protetta, preservata e lasciata al suo corso. Ti siedi sulla poltrona in soggiorno e noti l’ultimo libro letto da tua figlia, a suo dire una vera e propria pietra miliare del pensiero ecologico contemporaneo: Le promesse dei mostri di Donna Haraway. Sfogli le prime pagine e ti imbatti in alcuni passi che contrastano drasticamente con le certezze dogmatiche su cui hai costruito la tua idea di realtà. Come può questo libro essere al centro del dibattito ecologico?
«Dunque, la natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere o violare. La natura non è nascosta e pertanto non necessita di essere svelata. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. E tuttavia la natura è un topos, un luogo, che nella sua accezione retorica indica uno spazio in cui si condensano temi condivisi: la natura è, strettamente, un luogo comune. […] La natura è anche un tropos, un tropo. È figura, costrutto, artefatto, movimento, dislocamento. La natura non può preesistere alla sua costruzione. […] Così la «natura» non può preesistere in sé, eppure la sua esistenza non è ideologica. La natura è un luogo comune e una potente costruzione discorsiva, che si concretizza nelle interazioni tra attori semiotici e materiali, umane/i e non».11Donna Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 40-49.
Che cosa rimane, dunque, della natura dopo questo breve itinerario spazio-tempo-artistico? Come ripensare il concetto di estinzione e come agire nel mondo per sopravvivere, vivere e morire bene?
Alan Sonfist, tra i pionieri dell’arte ambientale e tra i più citati artisti nei testi d’arte ed ecologia, realizza negli anni ’70 (il progetto, in realtà, fu proposto più di una decina d’anni prima, nel 1965) un intervento d’arte pubblica che sembra sottolineare marcatamente la distinzione tra civiltà e natura incontaminata. Time Landscape si pone come punto di partenza per una generazione di artisti che traducono l’impegno ecologico nella rappresentazione di un mondo altro, un regno naturale-vegetale-animale che nulla ha a che fare con le vicende umane. L’eco di questa concezione separatista si riverbera, tuttavia, ancora ai giorni nostri, come si nota bene in House of Khronos, l’opera realizzata dal duo finlandese IC-98, che (forse ingenuamente) tenta di dare forma a uno spazio autonomo in cui la natura e la materia organica possano prosperare in assenza del fare umano, proliferando e prendendosi una rivincita sugli ambienti costruiti a loro danno (in questo caso, l’abitazione situata all’interno della proprietà).
Da un lato il ritorno a un passato precoloniale, dall’altro il rilancio verso un futuro postumano e, ambo i lati, un tentativo di rimozione dell’ingerenza umana sulla terra. Ma una simile operazione è davvero possibile?
In primis, è chiaro che entrambe le opere siano frutto di un intervento artistico che, per quanto tenti di passare inosservato, ci guarda dritto negli occhi: per mano di chi sono giunte queste specie vegetali nel bel mezzo di New York? Chi le ha selezionate, piantate e posizionate entro il perimetro del parco? Chi ha recintato questa casa finlandese e chi ne sorveglia attualmente i confini? E, ancora, potremmo chiederci se queste ipotetiche capsule temporali siano effettivamente così intoccate: possibile che in periodo precoloniale l’essere umano non abbia avuto alcuna influenza sulla selezione, l’andamento e la crescita delle piante nordamericane? Davvero la natura presente nel recinto di Ortenoja non interagisce in alcun modo con le vicende umane (che, attenzione, non riguardano il solo scavalcamento fisico del recinto, ma talvolta anche dinamiche climatiche più subdole e apparentemente invisibili che forse, quel recinto, stanno già scavalcando)?
Quello che Haraway tenta di dirci è che considerare la natura come un altrove con cui non abbiamo o non vogliamo avere a che fare rischia di metterci in una posizione separata e distante, dalla quale è possibile guardare a quel paesaggio senza assumerci la responsabilità della nostra inevitabile implicazione. Preservando la natura in parchi e zone protette ci leviamo di torno il pensiero di una natura con cui conviviamo, una natura che non solo ci circonda, ma ci percorre, attraversandoci e abitandoci. L’idea secondo cui natura e cultura (umana) siano entità separate ha le sue origini in epoche lontane, dalla separazione platonica tra mondo sensibile e regno delle idee alla gerarchia cartesiana tra mente-interna e mondo-esterno, dal predominio giudaico-cristiano dell’uomo sul mondo animale e vegetale all’oggettivazione della natura operata dalla scienza moderna. Se ciascun interprete traccia una propria genealogia della separazione, quello di cui oggi siamo certi è che il suddetto dualismo ancora persiste e struttura il nostro modo di vedere il mondo e di interagirvi, così come le nostre azioni e reazioni rispetto alla crisi climatica.
Tuttavia, non tutti gli artisti prendono per buona questa dicotomia e, anzi, ne sfidano i presupposti teorici e le conseguenti sedimentazioni nella pratica e nel pensiero. Dove Sonfist eregge un monumento alla natura scomparsa (similmente a un monumento ai caduti di guerra), YoHa e il Critical Art Ensemble realizzano Graveyard of Lost Species, un monumento alle entità, situazioni e fenomeni che abitavano il mondo vissuto di Leigh-on-Sea, cittadina della contea dell’Essex, in Inghilterra. Dopo aver recuperato un peschereccio dalla fanghiglia di un estuario del Tamigi, gli artisti hanno intervistato la popolazione locale (all’incirca per due anni), per condensare le loro conoscenze e competenze riguardo alle “specie perdute”, dalla fauna agli animali marini, dai metodi di pesca ai dialetti locali, per poi inciderle sulla superficie della nave-monumento. Operazione simile è quella compiuta da Dane Mitchell per il padiglione Nuova Zelanda (Biennale di Venezia del 2019) con Post hoc, opera nata da una lista di 260 fenomeni estinti, dagli animali alle lingue morte, dai libri bruciati all’arte perduta, dagli antichi regni ai fiumi scomparsi.
Se il monumento fisico genera un sentimento di rispetto e distaccata riverenza, le ricostruzioni digitali di Jakob Kudsk Steensen ci portano dentro esperienze immersive che ci consentono di (ri)vivere ambienti scomparsi e fisicamente non più accessibili. L’ultima di queste installazioni è Berl-Berl, indagine e trasposizione di ciò che fu il paesaggio umido e paludoso di Berlino a partire da circa 100 mila anni fa fino al suo recente prosciugamento (fatto risalire al diciottesimo secolo). Piuttosto che limitarsi a uno studio scientifico delle condizioni di flora e fauna che hanno popolato per migliaia di anni la palude, Steensen decide di intrecciare tali conoscenze con la storia e le mitologie che informavano e informano l’ambiente. Ad accompagnare le rappresentazioni visive, è stata realizzata una colonna sonora che mescola i suoni prodotti dagli anfibi locali con le canzoni utilizzate nei secoli (in particolare dalle comunità slave che vi si insediarono) per navigare, attraversare e orientarsi nella palude. Ciò che l’artista tenta di portare in scena è dunque, piuttosto che un ritratto scientifico, oggettivo e pseudo-fedele della natura, un paesaggio vissuto, un modo di relazionarsi al mondo e di farlo emergere come significativo entro l’esperienza umana ed entro l’interazione con le ecologie non-strettamente-umane. In questo modo, le tradizioni, le mitologie e le narrazioni, così come le ricostruzioni delle stesse che oggi ne facciamo, entrano a far parte dell’ambiente come energie che lo co-costituiscono in quanto entità material-semiotica, fisica e significativa, e non soltanto come stratificazioni culturali apposte su un sostrato naturale immutabile: la palude è così presentata come l’esito dinamico di pratiche organiche e narrative.
Rappresentazioni di questo tipo aiutano a smuovere e ricalibrare il nostro modo di guardare al mondo e di interagire con lo stesso, riconcettualizzando categorie come quella di estinzione che vengono spesso connotate secondo modalità che mantengono e perpetuano le separazioni ontologiche. Ciò che è importante, però, è non fermarsi sul solo piano della consapevolezza e della riflessione in merito al dualismo, ma istituire strategie e implementare azioni creative capaci di rendere conto di questo nuovo riassetto ideologico, come afferma T.J. Demos in risposta alla posizione ontologicamente radicale di Morton:
«Insieme a Latour, teorici come Morton si sono impegnati a fondo per criticare il tradizionale concetto occidentale di natura, mobilitando termini post-antropocentrici che sono anche post-naturali. Considerata per lungo tempo come un monolite astorico in un regno separato dall’uomo, la definizione convenzionale di natura appare alla critica difettosa per aver fornito una base all’oggettivazione ontologica e al pensiero dualistico, divenendo piattaforma concettuale per la pratica estrattivista. Viene anche osteggiata per le sue manipolazioni ideologiche, in particolare quando agisce come forza di naturalizzazione, fissazione e dominio. L'”ecologia senza natura”, quindi, promette di dissolvere le forme di rappresentazione che permettono lo sfruttamento di un vasto regno da parte di agenti che esistono nella zona innaturale della cultura. Tuttavia, a mio avviso, rifiutare il termine natura non è un’opzione, anche se condivido gli sforzi volti al suo riorientamento concettuale per annullare l’oggettivazione e l’isolamento ontologico della natura. Inoltre, è fondamentale riconoscere l’importanza della natura quale grido d’appello all’interno della rinascita contemporanea dell’attivismo indigeno e ambientalista, che insiste anche sul fatto che gli esseri umani sono pienamente integrati nel regno naturale e ne fanno parte. […] Date queste tendenze, è necessario mettere in relazione queste formazioni con i principali contributi dell’ecologia politica e sociale, se vogliamo che acquistino un valore d’uso critico».22T.J. Demos, Decolonizing Nature: Contemporary Art and the Politics of Ecology, Sternberg Press, Berlin, 2016, pp. 20-21.
Due casi, in particolare, ritengo rilevanti per affrontare il discorso. Entrambi realizzati con la collaborazione del PAV (Parco Arte Vivente) di Torino, presentano due possibili vie per contrastare l’estinzione e ripensarla in termini pratici. Immigration di Francesco Mariotti presenta un’azione di ripopolamento tesa a creare le condizioni idonee perché una colonia di lucciole possa abitare parte del parco. A partire dagli anni ’60, infatti, abbiamo assistito a una progressiva diminuzione di questi piccoli coleotteri, in particolare a causa di urbanizzazione, pesticidi e produzione agricola intensiva, illuminazione artificiale e degrado delle aree a vegetazione spontanea. Il progetto si pone dunque l’obiettivo di agire su scala locale per testare l’efficacia di una soluzione umana e creativa al problema, senza fronteggiare le cause primarie che hanno causato e ancora causano tale spopolamento, ma aprendo comunque uno spazio di pensiero in cui riflettere sulla questione, così come nuove possibilità tecniche per arginare il problema in maniera semplice e rapida, seppur circoscritta. Suddiviso in quattro fasi, l’intervento dimostra chiaramente come il mondo animale-non-umano e quello degli animali-umani siano costantemente in interazione sinergica, mettendo in luce fin da subito il carattere artistico del salvataggio: alla preparazione del biotopo adeguato viene immediatamente accostata la creazione di un recinto sonoro-luminoso, così come in seguito verranno installate lucciole e fiori artificiali; dopo l’impianto delle larve di lucciole nel terreno e la comparsa delle prime nasciture nel mese di giugno, si provvederà alla rimozione graduale degli artefatti precedentemente inseriti nel parco. Questa trasformazione graduale dell’ambiente, che vede la comparsa di lucciole prima costruite e poi viventi, consente alla popolazione locale di entrare a contatto con il progetto, così come di attendere, prepararsi all’arrivo e, infine, relazionarsi ai nuovi co-abitanti dell’area verde.
L’altra modalità operativa è quella adottata dal Critical Art Ensemble, che non solo opera a livello locale generando nuovi modelli di convivenza e prosperità, ma va altresì ad affrontare le dinamiche di forza e di potere che generano disuguaglianze e scompensi, adottando un approccio assimilabile a quello che Demos definisce come Political Ecology (lo vedremo in seguito più nel dettaglio). Sulla scia della pratica affermativa di Yes Men, fondata non tanto sulla negazione e l’affronto frontale degli elementi repressivi del sistema, quanto piuttosto sull’appropriazione e riattivazione degli stessi in ottica oppositiva e riconfigurativa, il gruppo realizza tra il 2011 e il 2012 New Alliances, un workshop dedicato all’utilizzo positivo della precarietà (termine, categoria e produzione ormai pervasivi della società neoliberale odierna). Accanto a una pubblicazione teorica (strategia ricorrente nella pratica del gruppo) sulle forme e le cause della precarietà economica, politica ed ecologica, il progetto consiste nell’utilizzo di piante a rischio estinzione quali strumenti (vista la protezione legale di cui godono in molti paesi e dato il consenso pubblico, anche da parte conservatrice, verso la loro incontestabile salvaguardia) per proteggere “luoghi-umani a rischio estinzione”, come per esempio giardini comunitari e spazi pubblici, zone rurali e terreni agricoli, qualsiasi tipo di territorio occupato o minacciato dalle attività estrattive e commerciali. Dopo una serie di conversazioni e scambi con un avvocato ambientalista e con un botanico/agronomo (che hanno fornito rispettivamente un framework teorico-legale per l’azione e indicazioni pratiche su quali piante seminare e come), il workshop è proseguito con un’esplorazione dei territori torinesi e con il successivo impianto delle specie a rischio entro determinate zone critiche. In questo modo, la doppia natura dell’estinzione natural-culturale, operata e imposta spesso a livello sistemico, è affrontata generando alleanze multispecie tra animali-umani e specie vegetali, sfruttando la protezione legale di cui godono queste ultime per proteggersi a vicenda, portando i cittadini a piantarne sempre più e a farle prosperare nuovamente, al contempo difendendo e supportando realtà e spazi pubblici a rischio.
Come sostengono Anab Jain e Jon Ardern, cofondatori del duo artistico Superflux, l’estinzione può essere ripensata, non più come evento catastrofico irreversibile (per quanto resti necessario mantenersi vigili sui processi di spopolamento e sparizione delle specie), quanto piuttosto come manifestazione della permanente precarietà che caratterizza il vivente, precarietà che dovremmo imparare ad accogliere per convivere e prosperare: «Piuttosto che arretrare di fronte all’ansia di un punto finale singolare e apocalittico come l’estinzione, potremmo invece considerare la possibilità di una fioritura precaria?».33Dall’articolo apparso su «Dezeen» nel novembre 2021.
Allearsi e compostare il mondo
L’operazione effettuata dal CAE potrebbe far storcere il naso ad alcune frange antispeciste o antiantropocentriche, a causa del presunto carattere impositivo e unidirezionale che la strategia in atto comporta. Come può l’artista-umano decidere cosa sia meglio per la pianta in via d’estinzione? La pratica è davvero definibile come alleanza multispecie? Chi definisce i termini dell’alleanza e del contratto?
Mi torna in mente la curiosa presentazione delle migrazioni di animali e piante realizzata dall’Orto Botanico di Padova. Dopo una mappatura dei percorsi mondiali che hanno portato alla diffusione degli stessi interpretata secondo un’ottica di esportazione/importazione umana, i medesimi percorsi vengono riletti come strategie e azioni che tali entità-non-umane hanno adottato per viaggiare, diffondersi e prosperare, per sfruttare il trasporto umano a proprio vantaggio (ribaltamento che ad oggi non possiamo non notare attraverso le lenti della crisi pandemica). Chiaramente, gli esseri umani hanno avuto un ruolo predominante e un’agentività invasiva e prevaricante nei confronti dei non-umani in questione; ciò non toglie che questi ultimi possano essersi intrufolati su navi e velieri per salpare l’oceano a insaputa dei marinai.
Gli artisti del CAE promuovono una pratica che, alla luce di interessi umani, tenta di interpretare e prendere in considerazione interessi non-umani; la mancanza di una certezza in merito a ciò che la pianta voglia non impedisce però al gruppo di assumersi la responsabilità della costante co-implicazione e, dunque, di agire sul mondo secondo logiche di benessere condiviso. Quando Steve Kurtz, membro del Gruppo, afferma che «Sì, sono un essere umano. Ed evidentemente è questa la ragione per cui sono antropocentrico», ciò che intende dire è che l’abbandono totale di una prospettiva e di un interesse umani è mera illusione, che probabilmente tutto ciò che possiamo fare è ascoltare ciò che considero altro-da-me per ripensare e trasformare il mondo secondo alleanze più o meno egualitarie ed equilibrate.
Similmente, il collettivo danese Superflex ci invita ad aprire i nostri sensi alla ricezione empatica di tutte quelle entità che ci circondano e popolano l’ambiente, imparando ad “ascoltare” per «riconoscere agencies e voci di altre forme di vita».44https://superflex.net/works/interspecies_assembly
Diverse sculture in marmo rosa si dispongono al Central Park di New York secondo una struttura a cerchio “spezzato”, andando a comporre Interspecies Assembly, possibile luogo di incontro tra specie, volto a promuoverne le relazioni amichevoli. La rottura della circolarità, sia nella forma delle statue che nella loro disposizione, rimanda a quella situazione di incompletezza e impossibilità di assoluta comprensione, lasciando spazio “sia al consenso che al dissenso”.
Ancor più marcatamente, Cyborg di Lynn Randolph spinge a chiederci quali siano i confini tra umano e non-umano, se sia davvero possibile guardare, ascoltare e assimilare le istanze dell’alterità come un qualcosa di esterno alla composizione e allo sviluppo dell’umano. Donna Haraway porta questo esempio al termine di Le promosse dei mostri, sottolineando come:
«Il dipinto mappa le articolazioni tra il cosmo, l’animale, l’umano, la macchina e il paesaggio tracciando i contorni dei loro scheletri siderali, ossei, elettronici e geologici. […] Generata, insieme ad altre/i cyborg, dal collasso reciproco di tecnico/organico/mitico/testuale/politico, viene costituita dentro e fuori ogni figura da articolazioni di differenze critiche».55Haraway, cit., pp. 132-135.
Proseguendo il discorso iniziato con Chthulucene, dove la forza propulsiva della simpoiesi dimostra come «le specie compagne non fanno che con-divenire», come «i partner non esistono prima dei nodi», Haraway condensa nei suoi ultimi scritti una serie di istanze critiche avanzate su più fronti e da molteplici autori, portatrici di un’idea di mescolanza e articolazione intrecciata, di un’impossibilità di pensarsi come entità e specie conchiuse e autonome rispetto al divenire tecnico e organico, naturale e culturale, mitico e politico, che penetra e filtra nella materializzazione dei corpi. Siamo compositi, siamo funghi e muffe, siamo animali e protesi tecnologiche, siamo immaginari e narrazioni.
È forse a partire da queste provocazioni che possiamo leggere il lavoro di Giacomo Bianco, UMANALACUNA, progetto fotografico che presenta una possibilità utopica di “inabissamento volontario” della città di Venezia, uno spaziotempo in cui entità postumane possano prosperare in armonia con l’acqua, piuttosto che affrontare i suoi mutamenti e innalzamenti attraverso un approccio oppositivo e guerrigliero. Un’apertura verso la molteplicità dell’avvenire, una “futurabilità” (più allegorica e speculativa che politicamente militante) che consentirà all’umano di entrare in un processo di corrispondenza e metamorfosi con la laguna, con l’acqua, con le animalità che la abitano e con le possibilità di un nuovo “vivere anfibio”.
Non solo generare kin, parentele impreviste ed eccentriche, ma compostarsi, farsi sostanza comune che progredisce e prospera nell’humusità, nell’inscindibilità dei filamenti, delle polveri e dei movimenti che la compongono: la distinzione tra umano e non-umano, tra cultura e natura, tra dentro e fuori, prima e dopo, diviene così molto più problematica e questionabile di quanto non pensassimo. L’essere umano viene qui pensato come sempre contaminato e percorso da alterità-non-umane, disgiungibile ed estraibile da tale ongoingness solo in seconda istanza, attraverso un movimento che lo isola dalle intersezioni e lo reifica a scapito del con-divenire incessante.
Un simile approccio alla questione è offerto da Karen Barad, teorica femminista e studiosa di fisica quantistica. A partire da una riflessione in merito alle intuizioni di Niels Bohr, Barad mette in crisi le strutture dicotomiche soggetto(umano)-oggetto(non-umano) e natura(materia)-cultura(significato). Piuttosto che focalizzarsi su cose-già-date, con proprietà e limiti intrinsecamente determinati, e su parole che ne disvelano i confini, il focus si sposta sui fenomeni e sulle dinamiche e pratiche che producono e ri-configurano confini, identità e differenze.
La dicotomia natura-cultura non si risolve così né in un’esteriorità assoluta (distinzione ontologica tra le due) che vede la natura-materialità preesistente alla cultura-significazione o prodotto finale e distinto di una costruzione culturale, né in un’interiorità assoluta che vede una riduzione dell’una nell’altra (la natura non esiste, non è che produzione discorsiva; la cultura non esiste, non è altro che prosieguo della natura, elevato poi a entità autonoma dall’eccezionalismo umano). Vi è al contrario un’esteriorità interna: l’emergenza delle due in quanto “natura” e “cultura” si dà nel divenire del mondo attraverso pratiche material-discorsive che vanno a dare forma ai confini, alle proprietà e ai significati di natura e cultura, a costituirle nel tempo in quanto separate fin da principio.
È a partire da questa riflessione che Barad giunge a sostenere come la differenziazione (che essa si operi sul binarismo soggetto/oggetto, su quello di umano/non-umano o di natura/cultura) non consista in realtà in una “separazione radicale”, pre-esistente e in attesa di essere scoperta e definita, quanto piuttosto nella “creazione di legami e di responsabilità”, nell’impegno consapevole verso l’incessante co-costituzione di identità e differenze performative.
Già negli anni ’60, Robert Smithson lavora ai suoi Site/Non-Site, contenitori sagomati che uniscono campioni di materiali raccolti presso siti esterni alla galleria, così come mappe, note e fotografie che forniscono informazioni, descrizioni e misure del sito originale. A differenza di diversi suoi colleghi legati alla land art e alle prime riflessioni ambientaliste dell’epoca, Smithson non sembra interessato a lavorare con una sorta di “natura incontaminata”: egli osserva, preleva materiali e rende intelligibile qualsiasi parte del mondo che lo sappia intrigare, che si tratti di New York o del Grand Canyon. La dialettica che crea tra il materiale grezzo e il significato, che sembra apporvisi in seconda battuta attraverso testi e fotografie, rivela in realtà un’ambiguità di fondo tra la presunta oggettività delle cose e la loro emergenza e manifestazione in quanto presenze significative, ricche di proprietà e materializzate attraverso confini. Come sostiene Judith Butler, «se possiamo attribuire significato solo a ciò che è rappresentabile attraverso il linguaggio, allora è impossibile attribuire significato alle pulsioni [natura] prima che emergano nel linguaggio [cultura]».66Judith Butler, Questione di genere: il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari, 2017, p. 127.
Traslando il discorso che la teorica sostiene in merito alla distinzione tra sesso naturale e genere culturale, potremmo allora chiederci: se la natura si manifesta solo in forma significativa e attraverso forme culturali, come possiamo verificarne la purezza pre-culturale, lo statuto ontologico pre-discorsivo?
Simile ambiguità si crea, per esempio, anche nella distinzione tra soggetto e ambiente nel rovesciamento degli occhi di Penone, che incorporano al loro interno l’ambiente e quella parte dell’ambiente, ovvero il fotografo, che sta rendendo possibile la manifestazione stessa del soggetto. Penone rappresenta fotograficamente la sua presenza materiale grazie al collega, il quale a sua volta rappresenta fotograficamente la sua presenza materiale grazie a Penone, condensando la necessaria co-implicazione tra materia e rappresentazione, tra identità e alterità.
Come possiamo verificarne la purezza pre-culturale
Similmente, troviamo nella pratica contemporanea esperienze capaci di presentare l’ambiente palesando al contempo il carattere di selezione, articolazione e costruzione di quella natura mai “innocentemente” presentata. Da Fallen Forest di Henrik Håkansson, prelevamento ed esposizione verticale di una sezione boschiva, dove gli alberi si vedono costretti a crescere sotto le luci artificiali, immersi in un ambiente palesemente tecnologico e costruito, passando per Pleasant Places Diptych, dittico video di Davide Quayola (esposto a Palazzo Cipolla) che presenta una serie di immagini iperrealistiche o altamente rielaborate e astratte (il tutto a partire da paesaggi del sud della Francia scannerizzati in 3D), accompagnate poi da suoni alternativamente “naturali” e “digitali”, fino ad arrivare agli scavi di Lara Almarcegui, la quale preleva dal Parco Arte Vivente una superficie di circa 20 mq facendo così emergere «le vecchie fondazioni della fabbrica preesistente, un inaspettato pozzo in mattoni antecedente l’insediamento industriale e stratificazioni geologiche testimoni del tempo questo preciso luogo»,77http://parcoartevivente.it/mostre/installazioni-temporanee/scavo/
dimostrando come anche quel terreno pensato come puramente naturale sia un compost di organico e artificiale, di natura e storia sociale e industriale.
Diversamente dalle passate operazioni di prelievo e presentazione asettica della natura (Earth Room, Walter de Maria), troviamo oggi interventi come Untitled (Plastic Cups) di Tara Donovan, installazione composta da 500 mila bicchieri disposti in colonne di diverse altezze che, accostate, si presentano secondo strutture geomorfiche, forme fluide organiche che ricordano il terreno o il movimento delle onde, o il più audace Donation Box di Gabriel Kuri, ricostruzione di una spiaggia costellata da mozziconi dall’odore nauseabondo, installazione che chiede al pubblico di contribuire al degrado dell’ambiente lasciando monetine sulla superficie. Quest’ultimo intervento riesce così a rimuovere quella distanza di sicurezza che separa attività umana e ambiente, rendendo partecipi gli spettatori della stessa sporcizia che li disturba penetrando nelle narici e chiamando ciascuno alla presa di responsabilità per l’effettiva implicazione nella costituzione, non soltanto semiotica ma anche e soprattutto materiale, dell’ambiente vissuto.
A proposito di distanza di sicurezza, riecheggiano le parole di Morton:
«Bene: il problema con il riscaldamento globale è che è proprio qui. Non è dietro a uno schermo: è lo schermo. Ma uno schermo che inizia a sporgere verso di te: inquietante e spaventoso, viola le sue stesse proprietà estetiche, quelle di cui parlavano filosofi come Kant, le proprietà che dovrebbero garantire una distanza di sicurezza tra me e l’oggetto d’arte, né troppo vicino né troppo lontano. […]
La cornice inizia a sciogliersi e a sconfinare in modo piuttosto inquietante: ci lambisce e inizia a bruciare i nostri vestiti. Non era quello per cui avevamo pagato il biglietto quando siamo entrati nel museo. L’arte, alla faccia di questo schermo di vetro che si scioglie, non consiste nel fare public relations. Deve piuttosto essere scienza, parte integrante dell’impresa scientifica. L’arte deve essere parte dello schermo, perché tutto, all’interno della biosfera, è intaccato dal riscaldamento globale».88Timothy Morton, Iperoggetti, NERO Editions, Roma, 2018, pp. 172-173.
Affrontare l’inquinamento praticando ecologie politiche
Accingendoci alla conclusione del viaggio, sorge però una domanda: dopo aver discusso delle separazioni tra natura e cultura, tra umano e non-umano, tra soggetto e ambiente, e dopo averne presentato differenti modalità creative capaci di sfidarle, in che modo questi atti destabilizzanti ci aiutano a far fronte a quelle che ad oggi sembrano essere le più gravi minacce alla “natura”, ovvero il riscaldamento globale, l’estinzione delle specie e la riduzione della biodiversità, l’inquinamento e il degrado dell’ecosistema? Come può l’arte divenire “parte dello schermo”?
T.J. Demos ripercorre la storia dell’arte ambientale dividendola in tre momenti critici. In primis, troviamo le pratiche di Fragile Ecologies, avviate attorno agli anni ’60 e incentrate su un’idea di natura separata da salvaguardare, natura fragile e in pericolo appunto (come potrebbe essere l’opera di Sonfist). A partire dagli anni ’70, emergono poi pratiche di System Ecology, legate a una nuova ondata di pensiero ecologico e allo sviluppo della cibernetica e fondate su un’idea di ambiente quale sistema complesso e integrato (biologico, tecnico, sociale, politico). In questo caso gli artisti, consci dell’interazione che intercorre tra loro e l’ambiente, lavorano “sullo” stesso per regolarlo e gestirlo, mantenendo comunque una certa volontà di imposizione e un approccio più compositivo e sommatorio (essere umano + ambiente, cultura + natura) che non immersivo o amalgamato. È con l’ultima fase che, da quanto traspare dal testo di Demos, si giunge a una più marcata consapevolezza di tale amalgama, considerando l’ambiente come un tessuto complesso e caratterizzato da crisi che lo attraversano su molteplici livelli. L’approccio alle Political Ecologies tenta di sviluppare strategie, rappresentazioni e pratiche (individuali e collettive) capaci di legare le sfide ambientali con la giustizia globale, un duplice movimento ecologico e sociopolitico. Non solo affrontare il greenwashing, l’occultamento delle criticità, la gestione centralizzata e guidata da urgenza, neoliberalismo e scientismo, ma anche prendere in considerazione il modo in cui il fenomeno “crisi ambientale” si ripercuote in maniere differenti su vari gruppi secondo logiche di discriminazione razziale e territoriale, economica e di classe, sociale e di genere, e via dicendo, così come interrogarsi sulle modalità di intersezione e interazione reciproca tra le varie forze repressive. Come ricorda Morton: «La popolazione povera – attualmente la maggioranza sul pianeta – percepisce l’emergenza ecologica come un accumulo di violenza che le sta alle calcagna, non certo come il degradarsi di un’immagine estetica come quella di mondo».99Ibid.
Piuttosto che focalizzarsi dunque sulla riproposizione o il salvataggio di questa “immagine”, gli artisti pongono oggi nuove questioni: i benefici e i rischi del cambiamento climatico si distribuiscono in maniera eguale? Secondo quali determinanti avviene la loro ripartizione e diffusione? A quali logiche e interessi rispondono i concetti di ambiente e sostenibilità? Che cosa stiamo cercando di rendere “sostenibile”?
Potremmo profilare allora due principali canalizzazioni dell’energia creativa dell’arte in grado di affrontare tali intersezioni, canalizzazioni non reciprocamente esclusive, ovviamente, anzi spesso convergenti e mescolanti.
Da un lato abbiamo un’attitudine critica, espressa sia nei confronti di dinamiche e soggettività prettamente politiche ed economiche, sia verso quelle stesse istituzioni culturali che parrebbero promuovere valori “ecologici”.
La critica istituzionale si declina quindi in quella che da alcuni viene oggi definita come Eco-Institutional Critique, capace di indagare le relazioni di potere e i finanziamenti che legano musei e istituzioni artistiche a compagnie e multinazionali in prima linea nell’inquinamento ambientale. Già il noto Hans Haacke, tra i pionieri della critica istituzionale, muove in questa direzione, realizzando per esempio Mobilization (1975), serigrafia che palesa la sponsorizzazione artistica strategica della Mobil Oil e il suo legame con lo Smithsonian, o Recording of Climate in Art Exhibition (1969-1970), installazione comprensiva di un igrotermografo, barografo e idrografo (strumenti utilizzati per monitorare le condizioni atmosferiche nel museo) volta a registrare il clima della mostra in tempo reale, evidenziando come la preservazione del capitale simbolico e finanziario delle opere vada a scapito dell’ambiente (a causa dei sistemi di raffreddamento e riscaldamento volti al mantenimento di una temperatura stabile). Continua il discorso Tue Greenfort, che attraverso Exceeding 2 Degrees, esposto alla Biennale di Sharjah, ripropone un’installazione simile accompagnata però dall’aumento della temperatura interna alla struttura di due gradi e dalla donazione del denaro risparmiato (evitando il raffreddamento) per acquistare e proteggere una porzione di foresta pluviale in Ecuador (questionando al contempo il modo con cui tali trasferimenti si profilino spesso come strategie per “pulirsi la coscienza” senza intervenire in maniera più radicale sulle fonti del problema). Immancabile, infine, il collettivo artistico Liberate Tate, costituitosi in occasione di un workshop alla Tate su arte e attivismo del 2010, e rivoltatosi poi contro la stessa istituzione che in cui ebbe vita. Dopo aver analizzato e indagato le origini e lo sviluppo dei flussi finanziari giunti alla Tate da parte della BP (British Petroleum), il gruppo ha intrapreso una serie di performance e azioni volte a innalzare la consapevolezza del pubblico in merito al problema, fino a raggiungere l’obiettivo principale di liberare ufficialmente l’istituzione dai legami economici con la corporation nel 2017.
Torniamo ora a Hans Haacke, per aprire però a quella che potremmo definire come la seconda modalità di intervento. Se la critica tenta di svelare le problematicità che caratterizzano il sistema e l’ambiente contemporaneo, un approccio pragmatico, interventista e trasformativo si rivolge invece alle difficoltà materiali e all’implementazione di soluzioni capaci di affrontarle in maniera immediata e diretta. Nel 1972 l’artista, invitato alla creazione di un progetto a medio termine (circa due mesi) presso il Museum Haus Lange in Krefeld, realizza Rhine-Water Purification Plant, sistema di filtraggio volto a purificare l’acqua contaminata del Reno, accompagnato poi da Krefeld Sewage Triptych, uno studio sulle cause dell’inquinamento del fiume che mette in luce ruoli e responsabilità nel processo, sia dei privati cittadini che delle industrie (con tanto di nomi dei principali inquinatori). Il progetto si configura come azione (o prefigurazione) trasformativa, mantenendo al contempo una vena critica che indaga le cause del problema. Nonostante ciò, Demos inserisce l’opera entro il secondo periodo, quello delle System Ecologies, non soltanto per un discorso di temporalità, ma anche e soprattutto per un’assenza di coinvolgimento collettivo e multilivello nella costituzione dell’opera, così come per la mancata individuazione e tematizzazione delle cause strutturali e delocalizzate che generano il problema dell’inquinamento idrico.
Un processo più inclusivo e ugualmente connotato dal punto di vista pragmatico si ritrova, per esempio, nel progetto Water Ekiden-Manosogewa River Art Project, realizzato da Ichi Ikeda a partire dal 1999. Il lavoro si concentra sul fiume Manosegawa, che scorre per circa 26 km nel sud dell’isola di Kyushu. Il deflusso delle acque reflue, gli scarichi di fabbriche e allevamenti di maiali hanno generato negli anni seri problemi di inquinamento, portando così l’artista a confrontarsi con la popolazione locale per affrontare la questione secondo una logica di responsabilità collettiva. Dopo anni di colloqui, ha preso forma un progetto capace di includere quattro comunità situate lungo il fiume e i suoi affluenti, per realizzare una serie di “stazioni dell’acqua”, volte allo stoccaggio di acqua piovana, acqua di sorgente, acqua purificata e acqua per l’irrigazione agricola.
Altro esempio interessante è l’intervento di Yes Men relativo al disastro avvenuto a Bhopal nel 1984, quando un impianto di pesticidi della Union Carbide esplose, uccidendo 18.000 lavoratori. La risposta alla catastrofe si risolse in un irrisorio tentativo di risarcimento, ovvero nel trasferimento di una somma inferiore ai 1.000 dollari alla maggior parte delle famiglie in lutto. A 20 anni dall’incidente, Yes Men ha deciso di creare una pagina web (DowEthics.com) dove la Dow, multinazionale proprietaria della Union Carbide, dichiarava la propria volontà di assumersi le responsabilità e di risarcire a pieno il danno. Convinta dell’affidabilità del sito, la BBC invitò Jude Finisterra, rappresentante della Dow (impersonato però da Andy Bichlbaum, membro di Yes Men), a parlare sulle proprie reti (con un pubblico stimato attorno ai 300 milioni di spettatori); l’artista affermò che la società avrebbe provveduto alla liquidazione della Union Carbide, alla bonifica del sito Bhopal e al risarcimento di 12 miliardi di dollari alle vittime, aggiungendo inoltre:
«È la prima volta nella storia che un’azienda pubblica delle dimensioni della Dow compie un’azione che va significativamente a discapito dei suoi profitti, semplicemente perché è la cosa giusta da fare. I nostri azionisti potrebbero risentirne… ma credo che, se sono come me, saranno entusiasti di far parte di un’occasione storica di fare la cosa giusta nei confronti di coloro a cui abbiamo fatto un torto».
La notizia circolò velocemente attraverso i media di tutto il mondo, facendo crollare in pochi minuti le azioni della Dow del 4,24% (2 miliardi di dollari) e costringendo poi l’azienda a palesarsi pubblicamente per ritrattare la buona volontà espressa dal duo, precipitando in una situazione inevitabilmente scomoda e riprovevole. Se da un lato Ikeda riesce a coinvolgere il pubblico nella sua azione, Yes Men si concentra invece sull’individuazione dei più grandi responsabili e sul bersagliamento degli stessi.
Un’azione che è stata in grado di unire tutti questi aspetti (dalla critica alla trasformazione, dalla partecipazione all’analisi sistemica delle crisi) è il progetto realizzato da Ravi Agarwal per la protezione del fiume Yamuna, importante affluente del Gange. Irriducibile a una singola “opera”, l’intreccio di pratiche messe in atto da Agarwal si sviluppa su più livelli: l’istituzione di Toxics Link (1996), ONG focalizzata sul problema della gestione dei rifiuti e tra le principali partecipanti alla Living Yamuna Campaign, parte di un movimento cittadino che è stato in grado di portare il caso in tribunale (2015) per sfidare i responsabili delle pratiche inquinanti di “sviluppo”; la realizzazione di serie fotografiche come Have you seen the flowers on the river? (2007) e Alien Waters (2004-2006), che presentano rispettivamente le possibilità di coltivazione offerte dalle acque prima del passaggio attraverso la città di Delhi e il progressivo degrado delle acque durante il passaggio in città (responsabile di circa l’80% dell’inquinamento dell’intero corso d’acqua); la creazione, infine, di Yamuna Manifesto (2013) in collaborazione con l’artista Till Krause, che unisce documentazioni fotografiche, progetti creativi di diversi artisti e proposte volte sia all’implementazione di soluzioni immediate e situate, sia al ripensamento del paradigma economico dominante (in particolare grazie all’aiuto del sociologo ambientale Manoj Misra e dell’ingegnere e attivista Himanshu Thakkar).
Da ultimo, è importante notare come Demos apra a una desublimazione dell’arte entro il campo militante e politico (sulla scia di operazioni come quella compiuta da Peter Weibel con il progetto global aCtIVISm presso lo ZKM), considerando la portata creativa ed ecologica di movimenti politici e militanti quali per esempio l’Unità di Protezione Popolare (YPG) e l’Unità di Protezione delle Donne (YPJ), l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e la resistenza operata in Cile dai Mapuche (tutti movimenti studiati a livello estetico-politico dal GIAP, Grupo de Investigación en Arte y Política).
Mi torna così alla mente un passaggio del Saggio sulla liberazione di Marcuse:
«Nella ricostruzione della società intesa a raggiungere codesta meta l’intera realtà assumerebbe una forma che ne sarebbe l’espressione. La qualità essenzialmente estetica di questa forma ne farebbe un’opera d’arte, ma nella misura in cui la forma deve emergere dal processo sociale di produzione, l’arte avrebbe cambiato la sua collocazione e funzione tradizionali nella società; sarebbe diventata una forza produttiva nella trasformazione sia materiale che culturale. E in quanto tale, l’arte sarebbe un fattore cruciale nel foggiare la qualità e “l’aspetto” delle cose, nel foggiare la realtà, il modo di vivere».1111Herbert Marcuse, Saggio sulla liberazione. Dall’«uomo a una dimensione» all’utopia, Einaudi, Torino, 1969, p. 44.
Le modalità con cui l’arte contemporanea si è interfacciata alla separazione tra natura e cultura ci dimostrano la contingenza con cui tali termini e strutture emergono e si fanno politicamente operativi; tale riflessione, tuttavia, non intende spingere a un abbandono dei termini natura e cultura e del loro binarismo quali artefatti entrambi di “natura” artificiosa e “culturale”, quanto piuttosto a una consapevolezza critica della loro costante articolazione come concetti, strumenti e pratiche che rendono intelligibile e danno forma al mondo, pratiche alle quali noi stessi partecipiamo, consapevolmente o meno, e delle quali è importante prendere responsabilità. Come ricorda Butler:
«Le politiche sessuali che costruiscono e conservano questa distinzione vengono efficacemente occultate attraverso la produzione discorsiva di una natura e, di fatto, di un sesso naturale, che si pone come fondazione indiscussa della cultura. Chi ha criticato lo strutturalismo, come Clifford Geertz, ha sostenuto che questo quadro universalizzante non tiene conto delle molteplici configurazioni culturali della “natura”. L’analisi che parte dal presupposto che la natura sia singolare e pre-discorsiva non può avanzare la domanda: che cosa si qualifica come natura entro un determinato contesto culturale e a quali scopi risponde? Il dualismo è davvero necessario? Come vengono costruiti e naturalizzati i dualismi sesso/genere e natura/cultura l’uno nell’altro e l’uno attraverso l’altro?».1212Butler, cit., p. 56.
Postulare un passato naturale autentico o una possibile wilderness, pura e intoccata, significa reificare la natura e renderla operativa in quanto nozione restrittiva, potenziale strumento utile a scopi conservatori e a pratiche di esclusione aprioristiche all’interno del pensiero, del movimento e della pratica ecologista. Non è “necessario” tornare o dar forma a una “natura-senza-di-noi” (formazione apparentemente depoliticizzata e disinteressata), ma riarticolare secondo nuove direzioni, valori e interessi. Liberandoci della necessità di costruzione di un futuro utopico sul modello di un passato pre-culturale idealizzato e irrealizzabile, si eviterebbe la reificazione di una naturalità vergine quale paradigma normativo, lasciando piuttosto libertà all’immaginazione e alle multidimensionali futurabilità che si dispiegano in un mondo che non è bianco o nero, naturale o culturale, ma sempre è comunque compostato e queer, amalgamato e metamorfico, intrecciato e viscoso.
Concepirsi come umani-non-umani, performance ibride in co-divenire con le alterità, ci permette di scendere dal piedistallo dell’eccezionalismo umano e liberarci dalla volontà assoluta di strumentalizzazione e sfruttamento incontrollato delle risorse del pianeta, così come di ripensare tali dinamiche di interazione attraverso alleanze e compostaggi. Allearsi e compostarsi con ciò che considero (e costituisco) come altro-da-me è un primo passo per disgregare una concezione di soggetto-umano come completo, conchiuso e unitario; evitando di disintegrarsi in una dispersione totale del sé (e della propria responsabilità), questa nuova alleanza, intreccio di interessi diffusi e pratiche multiple, permette e necessita un ripensamento del mondo (/dei mondi) e un’azione costante sulle sue articolazioni aperte.
Nulla, né la natura né la cultura, è già dato
Nulla, né la natura né la cultura, è già dato o pre-discorsivo; ogni manifestazione degli stessi si dà in un contesto e risponde inevitabilmente a determinati scopi e desideri: compostiamoci dunque con gli interessi a noi laterali, a quelli esclusi e poco considerati, per aprire nuove possibilità di pensiero e di azione ecologica, nuovi modi di performare e di vivere, che permettano il prosperare e proliferare di pratiche prossimali e promiscue di coesistenza e di cura, pratiche collettive, immaginifiche e militanti di giustizia e di sfida alla crisi ambientale.
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"Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. But sharing isn’t immoral – it’s a moral imperative” (Aaron Swartz)
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Matteo Savoldelli nasce a Brescia, prosegue gli studi tra Milano, Venezia e Bruxelles. Dopo un percorso formativo variegato, che spazia dallo studio dell'economia politica e dell'arte contemporanea, fino all'organizzazione di esposizioni, eventi musicali e conferenze in territorio veneziano, attualmente svolge presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia un PhD interdisciplinare legato al cambiamento climatico e allo sviluppo sostenibile. Gli attuali ambiti di ricerca riguardano le teorie queer e la filosofia della scienza, l’estetica e l’arte ambientale, così come i risvolti politici e filosofici connessi a tali pratiche e discorsi.
Judith Butler, Questione di genere: il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari, 2017.
T.J. Demos, Decolonizing Nature: Contemporary Art and the Politics of Ecology, Sternberg Press, Berlin, 2016.
Donna Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, Roma, 2019.
Herbert Marcuse, Saggio sulla liberazione. Dall’«uomo a una dimensione» all’utopia, Einaudi, Torino, 1969.
Timothy Morton, Iperoggetti, NERO Editions, Roma, 2018.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.