«L’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito».
(E. Montale, L’anguilla)
Italia 1945: la memorialistica si afferma come genere letterario privilegiato per raccontare gli orrori del Nazifascismo. La fine della Seconda Guerra Mondiale, con l’apertura dei campi di concentramento e sterminio, sancisce l’inizio di un’indispensabile ricerca di verità. Ognuno vuole dire la sua, e il valore della testimonianza diretta è espresso dalla diffusione capillare di racconti autobiografici, diari di prigionia e corrispondenze private. Con queste parole, Italo Calvino riassume in modo lucido lo Zeitgeist del periodo immediatamente successivo alla fine del conflitto:
«L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. […] Si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare»11I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (Prefazione), Mondadori, Milano 1964, p. VI.
.
Siria 2011: con lo scoppio della guerra civile, la medesima «smania di raccontare», che altro non è che urgenza di convalidare la storia sociale e collettiva attraverso il racconto di chi ha vissuto i fatti in prima persona (la storia individuale), è espressa da un collettivo anonimo di attivisti e registi siriani che si fa chiamare Abounaddara (letteralmente “l’uomo con gli occhiali”).
Definito a più riprese dal collettivo e dal suo portavoce – Charif Kiwan – come «cinema d’emergenza», Abounaddara nasce a Damasco nel 2010 con il preciso intento di cambiare il modo in cui la società civile siriana è rappresentata dai media e dall’industria culturale del Paese, oggi diviso tra forze filogovernative (forze armate siriane, FND, shabiha ecc.), schieramenti antigovernativi (ESL, CNS) e organizzazioni terroristiche di matrice islamista (Fronte al-Nusra, IS e Fronte Islamico).
Nella recente classifica mondiale della libertà di stampa, stilata da Reporters Sans Frontières, la Siria figura al 177° posto su un totale di 180 Paesi censiti. Televisione, radio e accesso a Internet sono sotto il pieno controllo del regime autoritario di Bashar al-Assad. Dallo scoppio delle rivolte nel 2011, le persecuzioni di Stato nei confronti di giornalisti professionisti e citizen journalists sono state ulteriormente inasprite, causando l’arresto, la scomparsa e in molti casi la morte di numerosi civili.
In un simile contesto, Abounaddara, non percependo finanziamenti pubblici e non essendo sostenuto da alcuna casa di produzione, opera totalmente al di fuori del sistema economico cinematografico. Da cinque anni il collettivo distribuisce, dal proprio account Vimeo, un film nuovo a settimana e si auto-promuove attraverso il proprio sito web e i social network (Facebook, Twitter). Con quasi 400 cortometraggi all’attivo, con una durata che oscilla tra i 20 secondi e i 12 minuti all’incirca, Abounaddara è già stato insignito di numerosi riconoscimenti: nel 2014 ha vinto il Gran Premio della Giuria nella sezione ‘cortometraggi’ del Sundance Film Festival, per Of God and Dogs, un corto di 12 minuti in cui un giovane soldato dell’Esercito Siriano Libero confessa davanti alla telecamera di aver ucciso un prigioniero innocente; nello stesso anno, ha preso parte a Here and Elsewhere, una mostra sul mondo arabo contemporaneo presentata al New Museum di New York e curata da un team guidato da Massimiliano Gioni; al collettivo è stato inoltre assegnato il Vera List Center Prize for Art and Politics, e nel 2015 ha ricevuto una menzione speciale alla 56° edizione della Biennale di Venezia, dalla quale, tuttavia, ha deciso di ritirare all’ultimo i propri film poiché, stando alle dichiarazioni del collettivo, sottoposti a un’azione di censura.
Ma veniamo all’analisi della sua produzione cinematografica. In primo luogo, il cinema di Abounaddara si caratterizza per il suo eclettismo e per l’assenza di un linguaggio standard. Partendo dalla tradizione dei film documentari, di cui il collettivo intende esasperare i confini, le sue produzioni video rivelano una ricca varietà di registri stilistici ed espressivi, passando dal linguaggio della fotografia, a quello della pubblicità, dei videoclip, dei film di propaganda e dei reportage.
Tra le modalità narrative adottate notiamo la ripresa di scene di vita quotidiana e la manipolazione e rimontaggio – il più delle volte a fine satirico – di materiale video preesistente. Esempi di quest’ultimo tipo sono Kill Them (2015), un videoclip realizzato a partire da questo video raccapricciante in cui Jeanine Pirro suggerisce di «armare i mussulmani fino ai denti» [sic!] affinché fermino gli orrori dei terroristi, e My name is Bashar (2015), uno slideshow di 16 immagini che ritraggono il dittatore siriano dalla sua infanzia all’età adulta con una colonna sonora melensa e sentimentale.
Tuttavia la modalità narrativa più usata resta quella dell’intervista libera, in cui il protagonista si racconta in prima persona davanti alla telecamera, senza l’interruzione della voce dell’intervistatore, rimossa in fase di montaggio. In un Paese in cui le donne sono ridotte in schiavitù dagli uomini del Califfato, Abounaddara ci mostra i volti delle attiviste che combattono ogni giorno per il proprio diritto all’autodeterminazione, sono le voci della Resistenza siriana. Eccone alcuni esempi.
La protagonista di The Woman in Pants (2013) si chiama Suad Nofal. È un’ex insegnante di Raqqa, dal 2013 roccaforte delle milizie jihadiste. Dopo l’arresto dei suoi amici e collaboratori, la donna si è ritrovata sola a manifestare ogni giorno contro l’autoproclamato Stato Islamico («a small gang that takes advantage of people’s fear»). Stando alle parole di Suad, ciò che più infastidisce i miliziani sono i pantaloni che indossa, che alle donne di Raqqa sono vietati perché considerati immorali (ma si chiede la donna: «how can pants be sinful and not the mask?»).
In un altro video, Marcell (2014), un’attivista di Aleppo schierata contro il regime di Assad, dichiara a volto scoperto di aver smesso di indossare il velo da quando le truppe jihadiste della sua città hanno iniziato a imporlo («My goal today is to try to respect society’s traditions. But society must also respect the right to be different from those who think differently»).
In The Lady of Syria (2014), una classe di ragazzine è intenta a seguire un corso su come realizzare una perfetta acconciatura da sposa. Sembra una situazione canonica, l’insegnante conduce stoicamente la sua lezione rivolgendo alle ragazze un tono affabile e facendo dell’ironia («War or no war, we’re still hip, right?»), tuttavia la scena si svolge in un edificio fatiscente su cui grava lo spettro della guerra, e a fine filmato apprendiamo che il giorno successivo, per sfuggire alla minaccia di nuovi bombardamenti, non ci sarà alcuna lezione.
Alle voci della Resistenza, Abounaddara accosta inoltre quelle della controparte jihadista e di chi con essa ha avuto sfortunatamente a che fare. In The Islamic State for Dummies (2014), all’interno di quello che sembra un ufficio, un miliziano spiega la differenza tra un Islam tradizionale e uno moderno – quello che, secondo lui, incarnerebbe l’IS –, sostenendo la necessità di preservare la Shari’a per il bene della popolazione: ad esempio, per un ladro, la punizione prevista è il taglio della mano. Chi si oppone alla pena, per il miliziano, o è un ladro a sua volta o un individuo che non si assume la responsabilità delle proprie azioni («Whoever opposes cutting a thief’s hand… If you are against it, it means you’re a thief, or that you want to steal without accountability, or that you want punishment to be merely symbolic. That is not possible»).
In Voyage to the Islamic State (2015), un attivista di Raqqa, con il volto oscurato, racconta del suo rapimento da parte delle milizie jihadiste. Dopo il sequestro del cellulare e del computer, è stato caricato su un’auto bianca («Everyone from Raqqa has a phobia of those white cars, which they use for abducting activists») e portato nel quartier generale per l’interrogatorio. Non gli è stata fatta alcuna violenza fisica, il dormitorio in cui è stato trasferito era persino più grande delle celle sovraffollate usate dal regime. Tuttavia, negli ultimi giorni del suo sequestro, lui e gli altri detenuti hanno subìto un’intensa pressione psicologica, con la visione imposta del filmato dell’esecuzione di Mu’adh al-Kasasbeh, il pilota giordano arso vivo all’interno di una gabbia nel gennaio 2015.
Ancora, in The Child Who Saw the Islamic State (2015), un uomo ci racconta di com’è vivere in una città in cui le esecuzioni pubbliche avvengono quotidianamente, nelle principali piazze e vie del centro, e di come un giorno abbia sorpreso il proprio figlio nel tentativo di tagliare la gola alla sorella di appena due anni.
Muovendosi in una zona di confine tra finzione e realtà, tra documentario e fiction, Abounaddara ricostruisce il ritratto lucido di personaggi dalla quotidianità sconvolta, che in nessun caso tuttavia si trovano circoscritti al prevedibile ruolo di vittime. «Our first enemy is pity» ha dichiarato infatti Kiwan in un’intervista.
Nella recente lettera di apertura al settimo numero di South as a State of Mind, magazine ufficiale di documenta 14, i due editori Quinn Latimer e Adam Szymczyk, a proposito del lavoro svolto da Abounaddara, hanno dichiarato: «We believe that the struggle for the “right to a dignified image” […] should be supported»22Q. Latimer, A. Szymczyk, Editors’ Letter, South Magazine, Issue #7.
. Abounaddara non è infatti in cerca di pietà o compassione, ma di ciò che è stato appunto definito come il diritto a una «dignified image», punto cardine dell’importante campagna che dal 2011 il collettivo conduce sul piano etico, politico ed estetico attraverso la sua serie di corti e iniziative quali convegni, mostre e lecture.
Per capire in cosa consista una «dignified image», basta focalizzarsi sul modo in cui Abounaddara tratta i suoi personaggi. Ciò è visibile in film come Children of Halfaya (2013), in cui un bambino descrive i macabri dettagli della guerra, dalle bombe sganciate sui civili in fila per il pane alle atrocità commesse sui corpi smembrati e abbandonati in mezzo alle strade. L’ambientazione che fa da sfondo – una tenda con beni di prima necessità – rivela una condizione di precarietà e disagio, ma i sorrisi e le risate di altri bambini presenti in scena rovesciano i termini di queste vite in negativo ripristinando il valore positivo e inalienabile dell’esistenza.
O, ancora, in Without Man (2016) una donna si dichiara sollevata per la morte del marito dopo averne subìto a lungo i maltrattamenti. Non sappiamo chi fosse quest’uomo e come abbia trovato la morte. Mentre parla di lui, la donna s’interrompe per sgridare uno dei suoi figli: anche qui il gesto banale di un rimprovero, arrestando il flusso del discorso, ridimensiona il carattere di eccezionalità della scena, su cui non è posta alcuna enfasi.
In ognuno di questi video, è percepibile un alto grado di empatia tra intervistatori e intervistati. Ancora Kiwan, in questa intervista su Vice, ci fornisce alcune indicazioni sulle modalità di lavoro di Abounaddara, che ben chiariscono le ragioni di questo aspetto:
«We are shooting all the time. We shoot our friends, our neighbors – we are living amongst our subjects. We are not like the correspondents or the filmmakers who come to just shoot and leave. This is our home and our people. […] We listen, we shoot, we look over the footage, and we let our imagination make the rest. […] We are totally free, creatively».
Dunque «la carica esplosiva di libertà» – per usare ancora le parole di Calvino – che anima Abounaddara non è tanto «nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere»33Calvino, cit., p. VII.
. Ancora Calvino:
«Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo»44Ivi.
.
L’obiettivo non è infatti mostrare una verità, ma raccontare la Rivoluzione preservandone la molteplicità dei punti di vista e rappresentandone l’attore principale – il popolo siriano – senza alcun ricorso all’enfasi o al pathos, ampiamente adoperati, invece, nell’industria dei media.
Dallo scoppio della guerra civile, infatti, i media siriani hanno codificato una precisa narrazione del conflitto, presentando indiscriminatamente i “ribelli” come terroristi e strumentalizzando le immagini di corpi martoriati a mero scopo propagandistico. I media occidentali invece, se da un lato si sono premurati di onorare le vittime degli attentati in Francia, mostrandone le fotografie che le ritraevano prima delle stragi, dall’altro non hanno avuto alcuno scrupolo a diffondere immagini sensazionalistiche di corpi mutili e senza vita. Ne è un esempio il caso di Alan Kurdi, di 3 anni, il cui cadavere è stato fotografato sulla spiaggia di Bodrum (Turchia) e sbattuto in prima pagina su tutti i giornali.
In casi come questo, il diritto di cronaca viene inevitabilmente a scontrarsi, da un punto di vista etico, con il diritto all’immagine, per il quale Abounaddara ha proposto di aggiungere un emendamento alla Dichiarazione universale dei diritti umani per riconoscerlo come “diritto fondamentale e inalienabile”. Scrive in proposito Abounaddara:
«The time has come to seize the weapons of art, cinema and journalism in order to protect society and to allow it to produce its own image beyond power’s grasp. The scales must be shifted in such a way that there is a right to one’s own image that is based on the principle of human dignity and the right to self-determination».
La lotta per il diritto all’immagine passa necessariamente per il rispetto della dignità umana e del principio di autodeterminazione dell’individuo, entrambi violati da una rappresentazione mediatica che disumanizza le vittime presentandole come un’indistinta massa di “corpi” anziché come individui.
Scavalcando la semplicistica polarizzazione, veicolata dai media, tra vittime, da un lato, e carnefici, dall’altro, Abounaddara ci mostra pertanto un ritratto molto più ampio e complesso della Rivoluzione. Nei suoi video figurano uomini e donne di differenti età, classi sociali, fazioni politiche e appartenenze religiose. La narrazione non scade mai nel cliché e, nonostante la breve durata, fornisce allo spettatore un quadro sufficientemente esaustivo della psicologia del personaggio. Sebbene nei video gravi sempre il peso della guerra civile e della morte, i protagonisti non sono dipinti come oppressi, ma come uomini e donne comuni costretti ad affrontare e reagire a una situazione di emergenza. Il cinema di Abounaddara non crea vittime da compatire, ma mostra piuttosto un’umanità che, come è stato dichiarato in questa intervista, «is the same everywhere, whatever the views of those who defend “the complicated Middle East” and “the Syrian exception”». Il risultato è un ricco campionario umano che preserva l’individualità, ma il cui pieno valore si esprime nella sua coralità e polifonia, com’è stato anche notato da C. Lange su Frieze: «These are films that are absorbed slowly – their power accumulates through aggregation».
Svolgendosi sul piano della rappresentazione, la battaglia di Abounaddara per il riconoscimento del diritto a una «dignified image» coinvolge inevitabilmente diversi aspetti, da quello estetico a quello politico, legale ed etico, configurandosi pertanto come una conquista che il genere umano deve necessariamente ottenere55A. Mayyasi, A new kind of weapon in Syria: Film, interview, «The Brooklyn Quarterly».
:
«Our position is based on arguments that are aesthetic (death in close-up offers no more information about a crime than pornography does about love), political (Syrians are not victims of a natural disaster, but men and women who are fighting for an ideal of freedom and dignity), legal (individuals’ rights to their images must be respected in all circumstances), and ethical (pity is dangerous, especially when it is preached by a media with a vested interest in disseminating sensationalist images)».
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Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
Abounaddara, An Ideal, or We Will All Die, «documenta 14», 20 Nov. 2015.
Abounaddara, Syria: We Are Dying, «Zeit Online», 30 Apr. 2016.
C. Boëx, Un cinéma d’urgence, «La Vie des idées», 25 Sept. 2012.
I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, Milano 1964.
L. Feinstein, This Syrian Filmmaking Collective Shows the Banality of Life in War, «Vice», 24 June 2015.
C. Lange, Emergency Cinema, «Frieze», 18 Mar. 2016.
Q. Latimer, A. Szymczyk, Editors’ Letter, South Magazine, Issue #7.
A. Mayyasi, A new kind of weapon in Syria: Film, interview, «The Brooklyn Quarterly».
M. Ryzik, Syrian Film Collective Offers View of Life Behind a Conflict, «The New York Times», 18 Oct. 2015.
M. Serafini, Trasfusioni, droga, torture e stupri: voci da Raqqa, la capitale del Califfato, «Corriere della Sera».
D. Zabunyan, Le droit à l’image est-il égalitaires?, interview, «Artpress», n. 41, May-July 2016.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.