L’articolo che segue è l’estratto di un testo che è stato scritto nel 2019 e pubblicato nello stesso anno all’interno del volume La casa editrice Trieb. Accademia di Belle Arti di Brera 1970-1978, curato da Loredana Parmesani e Patrizia Gillo e pubblicato da Postmedia Books.
Ho accolto l’invito di Loredana Parmesani a contribuire al volume con una mia riflessione sull’editoria indipendente italiana contemporanea, attraverso la lente delle trasformazioni culturali della nostra società. Accogliendo il suo invito, ho cercato di rispondere alle seguenti domande: come si è sviluppato il mondo dell’editoria indipendente italiana dopo gli anni Settanta? L’editoria indipendente può essere ancora considerata il prodotto di una sottocultura? Può ancora l’editoria portare contenuti alternativi e di controcultura?
Ho ritenuto necessario fare un breve excursus storico partendo dalla fine degli anni Settanta fino ad arrivare agli esiti più contemporanei.
Questa ricerca non ha l’ambizione di analizzare tutte le realtà editoriali indipendenti italiane, non vuole essere tassonomica, ma si limitata a prendere in esame alcune esperienze editoriali, soprattutto milanesi e romane, legate al mondo dell’arte: esperienze significative, alcune più di altre, capaci di incarnare il radicale cambiamento di prospettive, desideri e punti di vista dei giovani italiani avvenuto negli ultimi cinquant’anni, per vedere come questi abbiano risposto alle istanze di cambiamento poste dalla generazione operante nel decennio che va dal ’68’ al ’78.
L’incremento dell’editoria italiana, indipendente e non, si è avuto in seguito a un fenomeno conosciuto come “massificazione dell’istruzione e della cultura”, iniziato nel nostro Paese durante gli anni Sessanta. Da quel momento, e per quasi un ventennio, si avvia una forte domanda di accesso alla cultura e all’istruzione. L’Italia e gli italiani hanno fame di progresso, e lo inseguono. A provocarne la domanda e ad agevolarne l’offerta sono anche delle leggi precise, in grado di cambiare il volto della società. Fondamentali sono la riforma che vede l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino alla scuola media e la sua gratuità, così come il contestatissimo disegno di legge 2314, conosciuto come Riforma Gui, nata dall’esigenza di far fronte alla massificazione dell’istruzione. Nonostante le accese critiche che attira, si tratta di un tentativo di modernizzare il sistema educativo, che ha portato, un anno dopo, alla liberalizzazione dell’accesso alle università. Questi sono gli anni di un incremento del settore editoriale, in cui si assiste alla nascita della larga distribuzione e dove iniziano a essere vendute nelle edicole dispense ed edizioni tascabili; ancora in questo periodo, si diffonde la vendita a rate delle enciclopedie.
Dopo il boom economico che ha investito l’industria editoriale, è la crisi petrolifera del 1973 a frenare la sua fortunata crescita, provocando un doppio risultato: la chiusura di grandi imprese editoriali e l’emergere di piccole case editrici di qualità.
È solo a partire dagli anni ’80 che il settore librario inizia a concentrare in sé le reti televisive e la stampa periodica. Cominciano così a delinearsi quelle leadership finanziarie che monopolizzeranno le società editoriali più piccole; ci troviamo nella cosiddetta “epoca delle grandi concentrazioni”.11Matteo Mammoli, La grande concentrazione. Breve storia dei maggiori gruppi editoriali italiani, Unicopli, Milano, 2017.
È il decennio in cui i nuovi media diventano sempre più pervasivi e in cui inizia a farsi largo quel fenomeno noto come spettacolarizzazione mediatica dell’esistenza“…È il decennio in cui i nuovi media diventano sempre più pervasivi e in cui inizia a farsi largo quel fenomeno noto come spettacolarizzazione mediatica dell’esistenza”, che porterà alla nascita dei reality show e dei contemporanei youtuber, influencer e blogger. Lo sviluppo del sistema digitale nel settore editoriale, dal punto di vista sia della produzione sia della distribuzione, è un fenomeno avviato durante gli anni ’90, mentre le vere e proprie realtà editoriali del web (siti Internet di quotidiani, riviste specializzate, blog ecc.) si diffondono all’incirca dal 2000, per poi esplodere nel 2005.
Questa premessa fa da cornice: si tratta di una prospettiva per illuminare alcuni non detti di questo mio contributo e di quelli che l’hanno preceduto. Il testo che segue è una panoramica soggettiva, che esplora alcuni fenomeni legati alla controcultura giovanile ed editoriale italiana; a partire dalla stagione delle punkzine e darkzine che si apre alla fine degli anni ’70 e si conclude alla fine dei ’90, inizi anni Duemila, con la chiusura di «Torazine» – la rivista di culto dell’underground romano –, procedo fino alla rivoluzione digitale che si afferma nella seconda metà della prima decade del Duemila; concludo quindi con una panoramica sull’editoria d’arte indipendente, nata negli anni Duemila, mediante un’analisi di quelle esperienze editoriali che attraverso i loro contenuti e forme hanno interpretato, provocato o semplicemente registrato un cambiamento.
No Dreams no future
No dreams no future è lo slogan che i punk milanesi urlavano al Virus durante i loro concerti, stampato dietro i giubbotti di pelle e con cui “imbrattavano” i muri della periferia urbana. I punk sono la sottocultura giovanile internazionale più iconica e significativa di un decennio, e loro contemporanei sono i dark, i rockabilly, gli skin, i paninari, gli skater e i metallari. Ciò che li accomuna è l’identificazione con un codice di abbigliamento specifico, precise scelte musicali e un atteggiamento situato nei confronti della società. Fin da subito sono recepiti con una certa diffidenza sia dal mondo “ufficiale” che da quello delle altre sottoculture, soprattutto dai “compagni”, che li osteggiano identificandoli come neofascisti. Provengono dalle periferie, sono figli disillusi del proletariato che dal cosiddetto “mondo civile” sono percepiti come una battuta d’arresto rispetto ai movimenti giovanili profusi di impegno sociale e politico che animavano il decennio precedente; da una certa distanza storica ci accorgiamo invece come il movimento punk italiano non sia altro che l’erede prossimo di quella generazione, ma anche ciò che ha sancito i limiti e il fallimento di quei movimenti politici e culturali. È un sintomo, la manifestazione tangibile di quelle promesse disattese, nonché uno dei risultati del fenomeno noto come “riflusso”. Ogni sottocultura manifesta attraverso i suoi segni e simboli una specifica presa di posizione nei confronti del presente: quindi qual è il presente di un giovane ventenne all’alba degli anni ’80?
La società italiana ha attraversato gli anni di piombo ed è scossa da una violenta repressione nei confronti dei movimenti politici. L’estate del 1980 viene inaugurata dalla strage di Bologna; a lacerare il tessuto sociale è anche l’epidemia di HIV, che viene fatta iniziare nel 1981; non meno rilevante è la diffusione dell’eroina: l’81 è infatti anche l’anno della prima edizione italiana di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino – libro cult di una generazione –, che uscirà nello stesso anno nelle sale cinematografiche; il decennio, poi, si chiude con la caduta del muro di Berlino. È in questi anni che comincia a delinearsi il volto della futura società, contrassegnata da un forte edonismo e dall’esaltazione del successo e della ricchezza quali valori fondamentali. Sono anni in cui la dimensione privata e domestica della vita inizia a configurarsi come rifugio da una società diventata sempre più individualistica. Il ricercatore Simone Tosoni e la giornalista Emanuela Zuccalà parlano di «ritorno al privato e disintegrazione delle forme di socialità costruite nel decennio precedente».22Creature simili [Parte II-A]. Poetica dei primi dark degli anni Ottanta: le pubblicazioni autoprodotte, «Kainowska», 2014.
È il decennio del dilagare delle droghe sintetiche, delle girl e delle boy band.
Milano è la città simbolo di questo cambiamento: da centro cittadino operaio si trasforma nella città del terziario, nella Milano da bere, nella città del Produci-Consuma-Crepa e della moda, che disseminerà i suoi linguaggi fino a contaminare, ancora oggi, la scena artistica ed editoriale dell’arte.
Meno rassicuranti degli hippy, i punk, così come i dark, si dissociano dal dilagante ottimismo di questi anni, rifiutando le mode dominanti attraverso i loro codici di abbagliamento. È il caso, per esempio, delle ragazze punk, che si allontanano dallo stereotipo della donna simbolo degli anni ’80: vincente, indipendente, ginnica e disponibile.
Anche questi aspetti di ribellione riescono a essere intercettati dall’industria del consumo, in particolare dalle case di moda e discografiche; mentre a restare del tutto aliena al controllo economico e ideologico è un certo tipo di editoria indipendente, assemblata a partire da fogli fotocopiati, così florida da diventare oggi un vero e proprio caso studio. Si tratta di punkzine e darkzine distribuite nei centri sociali e nella libreria simbolo di una generazione: la Calusca di Milano. Tra le più iconiche ricordiamo «FAME», che opera come trait d’union tra le tendenze politiche, il punk appena nascente e il fumetto. Gli artéfici di «FAME» – Angela Valcavi, Atomo e Vincillo – la ricordano come una via di mezzo tra una fanzina punk e un giornaletto di controinformazione post ’77, un ibrido “politik-dada-punk”. Ricorda Valcavi:
«Un’esperienza indimenticabile di amicizia, sbronze di frizzantino e grande divertimento. […] Per la copertina avevamo deciso di fotografarci intenti a scalare un muro con una scritta enorme: Fame. Fame perché avevamo fame di tutto, ma anche perché era uscito da poco il film americano Fame – Saranno Famosi, e Atomo continuava a ripetere: “E che cazzo, voglio diventare famoso anch’io!”. La scritta per la copertina l’abbiamo tracciata a pennarello su un muro di fianco al supermercato a Baggio e la gente si domandava perché ci fosse quell’enorme Fame fuori dal supermercato».33Creature simili, cit.
Meno note, anche le darkzine, così come le punkzine, si occupano di musica, approfondendo maggiormente temi tratti dalla lettura, dall’arte, dalla sociologia, ma anche dall’antropologia e dalla filosofia. «Amen» (1983-1988) di Angela Valcavi è la darkzine più letta in quel periodo, venduta insieme a una musicassetta allegata:
«Amen è nata per caso […], è stata una non fanzine nel panorama delle fanzine. Una rivista alternativa dopo la scomparsa dei fogli di movimento. Un diario aperto sulla coscienza. Una ferita, una provocazione, un’occasione di scambio, di confronto e di dibattito».44Angela Valcavi, Amen. This is religgion.
Si tratta di un progetto graficamente ben confezionato e ricco di contenuti; tra le sue pagine, infatti, trovano posto temi di carattere politico, come la lotta anticlericale o temi di scottante attualità quale l’epidemia di AIDS, ma anche approfondimenti legati alla sessualità, all’omosessualità o al mito della coppia eterosessuale, così come racconti gotici e poesie esistenziali. Nel primo numero, in un contributo sulla società parcellizzata, si legge un pensiero che oggi appare come un epitaffio:
«L’atomizzazione e la parcellizzazione (anche sui posti di lavoro), fanno parte di un complesso meccanismo sociale tendente a portare l’individuo all’isolamento, a viversi le sue storie e a soddisfare i suoi interessi. […] Ed è in questa situazione di completa caduta dei valori, di sfiducia verso gli ideali e le grandi lotte, di crisi di identità collettiva, che si colloca la presenza delle sottoculture».55«Amen», La società parcellizzata, Milano, 1983.
Molte di queste esperienze confluiranno più avanti in «DECODER», rivista italiana underground dal respiro internazionale e tra le prime a essere realizzata in stampa digitale, distribuita fino alla fine degli anni ’90 e resa famosa grazie alle illustrazioni realizzate da Professor Bad Trip. Nonostante a metà degli anni ’80 ancora pochi usassero il computer, la rivista, tirata fino a diecimila esemplari per numero, porta avanti riflessioni incentrate sulla tecnologia. I temi affrontati sono ancora legati a quel ribollire causato dal riflusso, da quella difficoltà di immaginare alternative possibili all’esistente: «DECODER» non è altro che un decodificatore che ha il compito di decifrare e rovesciare il presente. I numeri della rivista vengono portati in tour per l’Italia in biblioteche, librerie, festival e centri sociali, e anche per questa realtà la libreria Calusca di Milano rappresenta il centro propulsore della sua distribuzione. Alla Calusca si organizzano dei “media party”, «degli eventi in cui i contenuti delle pagine diventavano live, i vari redattori presentavano i loro articoli. Portavamo con noi anche i computer per fare un po’ di alfabetizzazione in giro».66Antonella Di Biase, Alle origini della rivista DECODER, nella Milano underground anni Ottanta, «Motherboard», 27/11/2017.
Questa esperienza, come altre simili, si trascina fino alla fine degli anni ’90, momento storico in cui si avvia la rivoluzione digitale, che segnerà a livello globale un drastico cambiamento nel sistema editoriale. Come preannunciato da Guy Debord e da Jean Baudrillard, i nuovi media portano in modo spettacolare ed estetizzato dentro le nostre case persino gli eventi più drammatici, influenzando e dominando la vita di tutti giorni. La nostra esperienza della realtà diventa mediatica, e i nuovi media divengono strumenti che non si limitano a informare su ciò che accade nel mondo, ma determinano e condizionano la nostra rappresentazione della realtà.
I ricordi indelebili dei miei anni ’90 sono le musiche composte da Angelo Badalamenti per Twin Peaks e l’immagine scura, trasmessa in televisione, di una lunga notte mossa da una cascata di punti e luci verdi: i bombardamenti della Guerra del Golfo. La strumentalizzazione mediatica della Guerra del Golfo è solo la punta dell’iceberg di ciò che accadrà in seguito. Questo evento segna in modo globale un cambiamento rispetto al modo in cui si organizzano l’informazione e la comunicazione. La morte e il dolore diventano oggetti di consumo, indistinguibili da altri prodotti commerciali, e la tragedia della guerra viene presentata come:
«Un esercizio da videogame […]. L’occhio di chi filma, quello di chi sgancia la bomba e quello di chi osserva la TV sono esattamente sovrapposti e realizzano una koiné tendenzialmente universale, all’interno della quale la morte è del tutto derealizzata e l’evento reale e carnale della distruzione corporea di migliaia di persone letteralmente non ha diritto di cittadinanza nell’ordine delle rappresentazioni consentite».77Raffaele Mantegazza, Pedagogia della morte. L’esperienza del morire e l’educazione al congedo, Città Aperta Edizioni, Troina, 2004, p. 41.
Gli anni ’90 li ricordiamo anche attraverso quei suoni impacciati dei nostri primi telefoni cellulari, che potevano solo ricevere e fare chiamate, e inviare e ricevere messaggi di testo. Si passa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e da Tony Blair. In Italia, si assiste alla svendita e successiva privatizzazione del patrimonio pubblico e poi all’arrivo di una grande crisi economica che investe anche il settore dell’editoria: chi non sarà costretto a chiudere ridurrà drasticamente le vendite, incrementando la print on demand e le vendite online.
È il decennio del dilagare delle droghe sintetiche, delle girl e delle boy band, della cultura rave, della musica jungle, della drum’n’bass, della techno e della nascita del Viagra. Nel nostro Paese, invece, sono gli anni di Tangentopoli, del berlusconismo, della Seconda Repubblica e della lotta contro la mafia. La città italiana al centro della scena underground è la Roma dei centri sociali e dei rave.
Se il Virus e la libreria Calusca sono stati i luoghi privilegiati per la diffusione di «Fame» e «Amen», il Degrado e il centro sociale Forte Prenestino lo sono per «Torazine. Capsule policrome di controcultura pop», la rivista simbolo degli anni ’90, erede prossima di «DECODER». Fondata nel 1995 da Francesco Macarone Palmieri aka Warbear, il Duka e Stefano Rota Masada, giovani legati al movimento studentesco Pantera (definiti da Emiliano Barberi come un’«allegra banda dedita al terrorismo estetico-sociologico»), la rivista viene stampata in cinquemila esemplari per numero e distribuita in città italiane come Bologna, Milano, Firenze, Napoli e Catania.
«Torazine è stata la più radicale esperienza dell’editoria underground italiana. Era una rivista “tossica”, come tossici erano i suoi autori, anche nel senso letterale del termine. […] Con le sue copertine, in cui il volto di Charles Manson si sovrapponeva a quello di Che Guevara, l’estetica ributtante che faceva pensare a un misto di satanismo acido e depravazione gratuita, e i “grandi reportage” su droghe, integralisti islamici e sesso quasi sempre estremo, Torazine di quel mondo fu una specie di negativo pestilenziale».88Valerio Mattioli, Rave, droga e degenero: la storia della rivista underground italiana più estrema di sempre, «Vice», 19/12/2014.
Il primo numero della rivista ospita un contributo del poeta Aldo Nove e del noto scrittore e attivista politico statunitense Mike Davis. Quando si pensa a «Torazine» dobbiamo immaginare qualcosa che va oltre la semplice rivista: il progetto, infatti, spesso per esigenze legate alla sostenibilità della rivista stessa, include eventi, festival e concerti legati alla scena musicale della techno e dell’elettronica sperimentale. Nell’intervista di Valerio Mattioli, pubblicata su «Vice», Stefano Rota Masada racconta così la nascita e gli sviluppi della rivista:
«Era un mostro informe, un’accozzaglia di cose malate che ci passavano per la testa, non si capiva un cazzo. Per dirti, un’altra idea che ci venne fu quella di rubare fumetti e testi altrui e piazzarli sulla rivista così, come nulla fosse. […] Torazine aveva un’impostazione più americana e fu subito chiaro che avrebbe fatto tabula rasa. Non so come dirti, non ci interessava “costruire un mondo migliore” […]. Noi venivamo da giri politici e situazioni di movimento. Però a quel punto quello che ci interessava era il male in quanto tale. L’idea era: portiamo a galla tutta la merda che cʼè in giro, congeliamo l’attimo e viviamolo in eterno. Le grandi utopie erano finite, il muro di Berlino era crollato e l’unica àncora di salvezza era l’utopia sintetica – la droga, insomma. Solo il male ci avrebbe salvato, solo l’abuso di droghe ci avrebbe permesso di protrarre all’infinito quell’unico attimo di merda assoluta. Poi chi se ne frega se un giorno morivi: noi stessi pensavamo che non saremmo sopravvissuti per più di dieci anni».99Mattioli, cit.
Cinque anni dopo la fine di «Torazine» nasce «Catastrophe», rivista edita da Venerea Edizioni:
«Rispetto a Torazine i contenuti diventano decisamente più pop e centrati sulle mutevoli espressioni della cultura di massa, piuttosto che quelli di un coerente antagonismo underground. La prospettiva è quella di scandagliare quell’ambiguità di fondo comune a numerose esperienze subculturali degli anni ’80 e ’90, continuamente e contemporaneamente a cavallo tra mainstream e controcultura».1010Barbieri, cit.
La fine dell’esperienza di «Torazine» segna anche la fine dell’editoria underground italiana, ed è proprio a partire dai primi anni ’90 che anche le idee di subcultura e di controcultura cominciano a diventare deboli e problematiche; come sostiene l’antropologo Massimo Canevacci in Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi delle metropoli, diventa problematico contrapporsi a una società che si identifica nella liberalizzazione degli stili di vita e nella pluralità culturale:
«Non esiste più una controcultura, perché è morta la politica come utopia che trasforma il mondo impegnando il futuro prossimo. Non c’è più controcultura perché non c’è più il contro. La fine dell’egemonia, la fine dell’ideologia e la fine della politica hanno prosciugato il contro […]. Non vi è più una categoria generale che possa inglobarne una particolare lungo segmenti omogenei (il carattere nazionale). Per questo sono morte le subculture. Non c’è più (se pur ci sarà mai stato) un “sopra”, ma un attraverso, anzi molti “attraversi”: attraversare segmenti, le parzialità, i frammenti dell’io e dell’altro. Transitare tra gli “ii” e gli altri. Specie per le pluralità degli universi giovanili che non sono richiudibili dentro le gabbie delle subculture. Sono pluri-versi».1111Massimo Canevacci, Culture extreme. Mutazioni giovanili nei corpi delle metropoli, Meltemi, Roma, 2003, pp. 17-19.
Il nuovo secolo si apre con la paura e l’incertezza, e fondamentale diviene il ruolo dei media. L’evento iconico di questo inizio millennio è l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 al World Trade Center di New York, che stravolge gli aspetti geopolitici internazionali e inaugura una via più pervasiva di strumentalizzazione della realtà da parte dei media. È con la morte trasmessa globalmente in diretta durante l’11 settembre che si consolida definitivamente un nuovo paradigma della comunicazione all’insegna della spettacolarizzazione mediatica del dolore, che preparerà i nostri sguardi alle successive uccisioni mediatiche per mano dell’Isis, trasformandoci di fatto in voyeur compiaciuti nella nostra inestinguibile fame di consumo. In una realtà percepita come sempre più minacciosa, si affievoliscono le spinte utopistiche e la capacità di immaginare un futuro migliore; «Is There No Alternative?»1212Mark Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?, Zero Books, Alresford, 2009. In Italia il volume è stato tradotto da NERO Editions nel 2018.
è la domanda che si pone il filosofo britannico Mark Fisher nella sua disamina del tardocapitalismo. Il nuovo secolo è, secondo Fisher, contrassegnato da un sentimento nostalgico: quello per il futuro perduto.
Un sentimento nostalgico prende piede anche sul piano culturale e artistico, come per esempio accade nel panorama musicale, che secondo Simon Reynolds è contrassegnato dalla “retromania” e dal pastiche: «La nostalgia moderna è un’emozione intollerabile o quantomeno incurabile: l’unico rimedio sarebbe viaggiare nel tempo».1313Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Milano, ISBN Edizioni, 2011, p. 25.
Si tratta di una «negazione del presente per rifugiarsi nell’idealizzazione del passato», una forma di revivalismo che si manifesta attraverso l’amore per uno specifico sound del passato e – sostiene Reynolds – di «un antagonismo verso il presente»,1414Ivi, p. 13.
accompagnato dalla «convinzione che qualcosa sia andato perduto».1515Ivi, p. 14.
È all’interno di questo scenario – caratterizzato da uno specifico immaginario mediatico che ha portato lo spettatore a essere assuefatto e incapace di immaginare alternative al presente – che l’editoria come strumento mediatico deve farsi strada.
In un mondo segnato da un costante flusso di informazioni e immagini messe semanticamente sullo stesso piano, come si organizza l’editoria italiana, soprattutto quella indipendente e legata al mondo dell’arte? E soprattutto, in che modo queste realtà editoriali si sono confrontate con nuovi mezzi e nuovi modi di distribuzione e fruizione?
Gatekeeper, marketing della rarità e nuove forme di resistenza
Gli anni Duemila, oltre a registrare quella pervasività mediatica di cui ho discusso, vedono, grazie alle moderne tecnologie, un incremento considerevole della stampa digitale, che abbatte i costi di produzione, quasi totalmente azzerati con l’arrivo di Internet. Tra tutti, il fenomeno editoriale più dirompente di inizio secolo sono i blog e i web-magazine, che portano a una variegata e numerosa proliferazione di nuove realtà editoriali indipendenti, che resistono alla crisi del 2008.
Il mondo culturale italiano manifesta la forte volontà di essere più “internazionale”, ed è in questo scenario che l’arte contemporanea comincia a essere vista come uno strumento e un’opportunità di crescita economica per il Paese. Più che le istituzioni museali, sono le riviste di settore a saper guardare in modo concreto al di fuori dei confini domestici, riuscendo pertanto a coinvolgere un network internazionale. Si tratta soprattutto di esperienze editoriali indipendenti, nate nella prima metà degli anni Duemila e che sopravvivono tuttora.
Seguendo un metodo di raggruppamento per “somiglianze di famiglia”, ho esplorato alcune esperienze editoriali italiane di divulgazione e approfondimento dell’arte e della cultura contemporanee, che ho diviso in due gruppi: i magazine ben strutturati e con una grande distribuzione, che assecondano estetiche e mode dominanti; i progetti personali e di approfondimento di nicchia e ricercati. Fanno parte del primo gruppo, nonostante le dovute differenze, le riviste romane «NERO» e «CURA», e le milanesi «Mousse» e «Kaleidoscope». Nel secondo, rientrano invece «TOILETPAPER Magazine», «Boîte» e «Diorama Magazine».
NERO, Mousse, Kaleidoscope, CURA
Queste nuove riviste italiane, lontane dalle esperienze delle zine della controcultura e delle riviste underground, hanno quale obiettivo la divulgazione della cultura e delle estetiche contemporanee. Non hanno una propensione alla controinformazione e, fatta eccezione per il primo periodo di «NERO Magazine», si profilano più come gatekeeper che accompagnano l’establishment del mondo dell’arte contemporanea. Le più note ricorrono a un linguaggio grafico di impatto, il più delle volte decodificato dalle riviste patinate di moda.
Capofila è certamente «NERO», nata tra il 2004 e il 2006 da un gruppo di studenti universitari (Francesco de Figueiredo, Luca Lo Pinto, Valerio Mannucci, Lorenzo Micheli Gigotti), che condividevano il desiderio di svecchiare e aggiornare la scena culturale e artistica romana. Questo intelligente e fortunato progetto editoriale riesce a uscire dal recinto capitolino, diventando una vera e propria rivista di culto. Sarebbe una grave omissione descriverla solo come una rivista d’arte; si tratta infatti di un vero e proprio progetto culturale articolato. Nei suoi anni di attività ha subìto diverse trasformazioni: da rivista inizialmente più legata alla scena underground, negli anni ha preferito adottare un’estetica più commerciale. È solo dal 2008 che i temi proposti iniziano a concentrarsi soprattutto sulle arti visive, mentre nel 2009 arriva la versione web della rivista, dalla gabbia pulita e con un layout molto scarno, che porterà, nel 2014, alla fine delle pubblicazioni cartacee. In questi anni il magazine ha ampliato la sua distribuzione, uscendo dai confini nazionali e diventando bilingue; per la precisione, la rivista era interamente in inglese, con la traduzione italiana dei testi collocata nelle ultime pagine. Distribuito gratuitamente solo in Italia, si trovava esposto nei luoghi di culto dell’arte contemporanea. La rivista cartacea era:
«Concepita come un compendio fatto di sezioni autonome. […] Un racconto composto da diversi capitoli senza nesso narrativo, appartenenti però a uno stesso immaginario. Un modello editoriale in cui a ogni sezione corrisponde un progetto pensato per attivare processi interpretativi o ripensare le modalità di fruizione dei contenuti: progetti commissionati, percorsi autorizzati ed esperimenti personali».1616Manuela Pacella, NERO: 10 anni di sperimentazione, «Medium Italia», 8 febbraio 2015.
Le dodici sezioni proponevano un progetto differente, come quella dedicata a un progetto inedito di un artista o quella improntata al confronto tra diverse generazioni di artisti, o ancora gli esperimenti post-surrealistici di associazioni di fonti letterarie e immagini. «NERO» viene assemblata pensando alle sue pagine come luoghi fisici e oggettuali della sperimentazione artistica, come esplicitato nella nota editoriale che introduce ogni numero: «Un modo di pensare la rivista non come medium ma come oggetto». «NERO», oggi solo in versione web, intende essere un contenitore dal taglio interdisciplinare e trasversale, sebbene la dominante sia sempre l’attenzione rivolta all’arte contemporanea. Interamente redatto in lingua inglese, è suddiviso in sezioni canoniche, quali review di mostre e interviste, ma ospita anche approfondimenti dedicati alla musica, alla poesia e al cinema, al binomio arte/politica o musica/politica. Lodevole è l’attenzione rivolta alla modalità di divulgazione della versione web: il magazine offre infatti la possibilità di scaricare gli articoli in formato PDF, suggerendo una modalità di lettura più attenta nei confronti dei contenuti pubblicati. La trasversalità di «NERO» viene garantita, oltre che dall’eterogeneità delle figure professionali presenti in redazione, anche dalla progettazione culturale. La realtà, infatti, organizza o collabora per la realizzazione di eventi, oltre a essere un’agenzia di comunicazione che riunisce progetti tra loro diversificati: una casa editrice molto produttiva e varia/variegata, con un’attenzione anche alla pubblicazione di libri d’artista e cataloghi d’arte.
Più grande nel formato e redatto esclusivamente in lingua inglese è «Mousse Magazine», la ex free press più popolare e ambita nel mondo dell’arte italiana. Fondata nel 2006 da Alessio Ascari ed Edoardo Bonaspetti, la rivista viene lasciata da quest’ultimo nel 2018 avviando così una nuova stagione a cui corrisponde un generale processo di restyling; esemplificativo è, per esempio, l’utilizzo di una carta estremamente patinata per la sua pagina di copertina e per gli interni. In modo simile all’esperienza di «NERO», anche in questo caso viene adottata la formula binaria che offre, oltre a una versione cartacea, anche quella web, dalla gabbia pulita ma popolata da numerosi banner pubblicitari. La rivista bimestrale, incline a seguire i trend del momento, è fortemente internazionale e trova la sua naturale collocazione negli spazi istituzionali dell’arte contemporanea, proponendo interviste, conversazioni, saggi e review, sebbene nella maggior parte dei casi si tratti di comunicati stampa delle mostre. Spesso a firmare articoli, saggi e interviste sono direttori di musei e curatori di importanti gallerie d’arte contemporanea. La sua vocazione alla ricerca e alla divulgazione di novità culturali emerge in alcuni numeri, diventati estremamente popolari, tanto da essere custoditi nelle librerie domestiche. Un esempio è il numero 44 del 2014, in cui è possibile leggere un’intervista alla critica e storica dell’arte Marie de Brugerolle, che affronta il tema legato al passaggio dalla performance alla post-performance, argomento all’epoca sconosciuto in Italia; lo stesso tema è stato poi ripreso e approfondito nel 2018 nel numero 63, nel saggio Post-performance future, sempre a firma di de Brugerolle.
Un altro numero degno di essere ricordato è il 61, On Display, interamente dedicato all’architettura espositiva delle opere d’arte; o ancora il numero 51, 1985-1995 Exhibition views, un’edizione speciale diventata cult, che esplora i dieci anni di mostre prima dell’avvento della fruizione e divulgazione online dei siti web specializzati. Questi numeri, pensati come appunti visivi, sono diventati utili elementi di ricerca per gli addetti ai lavori.
Negli anni, la rivista ha affievolito la sua vocazione alla ricerca, aspetto che l’ha resa, insieme a «NERO», uno dei magazine più popolari in Italia e all’estero. In tempi recenti, sfogliando la rivista cartacea si ha la sensazione di guardare gli stessi contenuti, che si distinguono a fatica dalla pubblicità disseminata sulle pagine e che adottano il linguaggio sempre più fancy delle riviste di moda.
Anche «Mousse» è un progetto articolato: è una casa editrice di successo con un’attenzione particolare ai libri d’artista, alle monografie e ai volumi di approfondimento (Mousse Publishing). La «terza anima1717Marco Enrico Giacomelli, Mousse compie dieci anni. Parola a Edoardo Bonaspetti, «Artribune», 14 settembre 2016.
di Mousse», invece, è il settore agency, che sviluppa progetti visivi e di comunicazione per iniziative artistiche e culturali contemporanee: immagini coordinate e siti per istituzioni, gallerie e fiere, come nel caso della collaborazione con MiArt.
A essere rappresentati, tra le sue pagine cartacee o virtuali, sono per lo più le gallerie più importanti, le fiere d’arte e gli spazi più cool. La rivista, diventata un vero oggetto magico, viene sfoggiata come se fosse un totem della felicità. Spesso a decretare la popolarità di un artista, di un curatore o di una galleria è la sua presenza nell’edizione, soprattutto in quella cartacea. Almeno due volte all’anno gli addetti ai lavori si contendono il proprio posto al sole, garantito all’interno della vetrina dorata della rivista; l’importante è che sia l’edizione presentata durante le fiere. Distribuita generosamente e ben conscia del suo potere, si lascia abbandonare aperta o chiusa in stand e zone relax delle fiere più prestigiose.
Dal formato più piccolo e gestibile e con un focus di approfondimento ben dichiarato, ossia uno sguardo rivolto agli approcci curatoriali, è la romana «CURA», nata nel 2009 dalla mente dei suoi fondatori, Ilaria Marotta e Andrea Baccin. Si tratta di una rivista dall’aspetto molto patinato, che guarda e ricalca per alcuni aspetti l’estetica di «Mousse», ma con un font graziato per differenziarsi. Anche «CURA» ha lo sguardo rivolto al di là dei confini nazionali. In questo caso non si tratta di una free press: la troviamo in vendita nelle librerie dei più importanti musei del mondo. Nelle pagine della rivista, concepita come uno spazio espositivo, i contenuti proposti spaziano dai saggi ai testi critici, dalle interviste alle analisi tematiche. Interamente in inglese, offre la traduzione in italiano dei testi in un piccolo opuscolo inserito manualmente tra le ultime pagine della rivista. Anche «CURA» ha una sua casa editrice (Cura.books) e uno store (Cura.store) che, ricalcando l’esperienza dei Fluxshop, si avvale di una sua linea di prodotti: t-shirt pensate con idee grafiche sviluppate da diversi artisti, adesivi, borse ecc. Nel suo store si possono acquistare opere di artisti in edizione limitata, come, per esempio, un lavoro del 2015 di David Douard: una scatola di cartone contenente un piatto con gusci d’uovo sotto resina trasparente. Nel 2018, «CURA» inaugura KURA, uno spazio-progetto milanese che ha riempito il vuoto lasciato da Peep-Hole, noto spazio indipendente che ha visto la collaborazione di «Mousse».
A cadenza semestrale, «Kaleidoscope Magazine» è l’ultimo del “gruppo” ad arrivare sulla scena editoriale, fondato nel 2009 da Alessio Ascari e Cristina Travaglini, che si presentano subito come dei rottamatori; il loro obiettivo dichiarato è infatti quello di “svecchiare e disturbare” il panorama editoriale. In un’intervista pubblicata su «Vice», Ascari dichiara di aver fondato la rivista per gli artisti: «Per dare spazio alla loro visione e amplificare la loro voce».1818Gloria Maria Cappelletti, 10 anni di kaleidoscope, il magazine d’arte italiano più internazionale del momento, «i-D», 14 giugno 2019.
Come «Mousse», sceglie di comunicare in lingua inglese, forse perché non ha in mente il pubblico italiano quale pubblico privilegiato. Tra le riviste finora prese in esame, «Kaleidoscope» è quella con un’estetica e una grafica più ricercate, e nella sua versione web si mostra del tutto priva di gabbia. I numeri cartacei contengono un uso diversificato di carte e di griglie grafiche che cambiano la loro impostazione caratterizzando il concept dei contenuti; le immagini, così ben impaginate, diventano il vero contenuto della rivista. Come le altre riviste, che non si limitano a stampare su carta e pubblicare contenuti via web, anche «Kaleidoscope» offre un pacchetto più articolato: promuove e organizza eventi, e a Milano ha inaugurato, presso Spazio Maiocchi, una vetrina espositiva tutta sua, le cui mostre, come dichiarato dai fondatori, sono «una versione live del magazine». Nonostante sia la rivista meno vicina all’estetica della moda, tra i suoi partner ricordiamo Gucci, che insieme a Harmony Korine, noto regista e produttore cinematografico, ha creato Yung Palm. La rivista, arrivata al suo decimo anno di vita, ha all’attivo trentaquattro numeri e, come quelle precedentemente analizzate (che si inseriscono all’interno di quella tendenza iniziata negli anni ’80 che preferisce l’estetica omologata della moda, piuttosto che la ricerca di nuove modalità di divulgazione e di comunicazione), non sono casuali le scelte strategiche così come le partnership e le collaborazioni con l’industria della moda, settore con l’indotto più importante per la città di Milano. Aderire a questo milieu culturale, ispirato ai meccanismi della moda, è il sintomo della pervasività dell’immaginario consumistico, che ha invaso anche il mondo dell’arte e della cultura. Come sostiene Baudrillard, la moda, nel suo continuo ricominciare e resuscitare le forme passate, «non ha un referenziale con il quale metterla in contraddizione (il suo referenziale è essa stessa). Non si può sfuggire alla moda (perché la moda stessa fa del rifiuto della moda un fatto di moda − i blue-jeans ne sono un esempio storico)».1919Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 112.
Le quattro realtà editoriali trattate hanno avuto, soprattutto nei primi anni dalla loro nascita, il merito di aver importato in Italia quelle esperienze artistiche ed estetiche che non venivano adeguatamente rappresentate e approfondite, di aver creato un prodotto italiano spendibile internazionalmente e di aver dato una vetrina internazionale ad artisti e addetti ai lavori italiani. Tutte e quattro sono nate da spinte simili: dall’esigenza di rigenerare e svecchiare il panorama artistico italiano attraverso l’importazione di estetiche nordeuropee e americane. Nonostante le ovvie differenze del caso – nel formato, nella veste grafica e nella scelta delle pubblicità di moda da inserire –, si tratta però di riviste, adesso molto simili tra loro, che spesso faticano a distinguersi. In un sistema estremamente competitivo, hanno ceduto a logiche commerciali di promozione e produzione della cultura, non facendo le stesse scelte coraggiose di altri magazine internazionali a cui sicuramente si sono ispirate, come per esempio nel caso di «Frieze», che tendenzialmente non pubblica comunicati stampa di mostre, ma ha sempre preferito pubblicare delle vere e proprie recensioni, portando avanti punti di vista autoriali.
Un altro problema non trascurabile che è emerso durante questa ricerca è la crescente volontà di questi progetti editoriali di monopolizzare un intero settore culturale“…Un altro problema non trascurabile che è emerso durante questa ricerca è la crescente volontà di questi progetti editoriali di monopolizzare un intero settore culturale”. Diventando agenzie, spazi espositivi, case editrici, agenti interni delle fiere e shop, hanno di fatto perso quella neutralità e oggettività fondamentali per le norme etiche del giornalismo e della critica. Questo trend, già iniziato negli anni ’80, ha portato le leadership finanziarie e culturali alla monopolizzazione della cultura, creando di fatto un sistema a circolo chiuso che garantisce loro il potere di esercitare una forma di controllo e di influenza estetica e culturale.
Provocazioni e ricerca tra “arketing” e homemade
In questo paragrafo analizzo tre esperienze editoriali, tra loro diverse ma che in comune hanno una forte identità e progettualità, arrivando a creare un prodotto di ricerca ben confezionato ed elitario. I casi che prenderò in esame sono «TOILETPAPER Magazine», «Boîte» e «Diorama Magazine».
«Presto o tardi tutte le riviste finiranno nel bagno»:2020Intervista a Maurizio Cattelan, TOILETPAPER magazine, «La Monda», indirizzo web non più disponibile.
non è certo il caso di «TOILETPAPER», un progetto editoriale nato dalle menti geniali di Maurizio Cattelan e del fotografo Pierpaolo Ferrari. Si tratta di un magazine biennale d’arte, nato nel 2010 e sostenuto dalla Fondazione Beyeler e dal marchio Berluti, una rivista priva di testo e contenente solo immagini: un discorso senza parole realizzato dai due artisti. Le immagini vengono messe in relazione in modo simile a alla tipica giustapposizione dei surrealisti, e in particolare a quella esperienza parigina che è stata la nota rivista «Documents», fondata da Georges Bataille, Carl Einstein e Georges Henri Rivière. Gli ingredienti sono simili, ma «TOILETPAPER» si posiziona puntualmente nella nostra contemporaneità attraverso immagini e giustapposizioni che spiazzano, depistano, infastidiscono e provocano. Cattelan paragona la rivista al cavallo di Troia, che riesce a entrare con un sotterfugio per colpire direttamente il nostro inconscio, scatenando reazioni viscerali; attrae a sé ma, come sostiene l’artista, alla fine ci si accorge che è un regalo che non avremmo voluto ricevere. Si tratta di un umorismo che contiene in sé la tragedia. A detta dei due creatori, la casualità è un ingrediente importante per la sua realizzazione, che agisce facendo una sorta di mix tra un dada contemporaneo e un immaginario pop, tra il linguaggio pubblicitario e della moda e quello della storia dell’arte. Tutto sembra messo in un grande frullatore, e il risultato è un rebus senza soluzione. Il leitmotiv estetico e iconografico del progetto è abbastanza definito, e ogni numero ruota intorno a una tematica. Anche in questo caso ci troviamo davanti a un’operazione più articolata rispetto a un semplice magazine: «TOILETPAPER» è un’etichetta, un’azienda e uno shop con una variegata offerta di prodotti, che spaziano dai capi di abbigliamento a piatti e stoviglie, e perfino a una linea di skate. Le immagini prodotte da Cattelan e Ferrari circolano sui social media e vengono applicate ai prodotti di design e di arredamento. Ha avviato collaborazioni con noti brand di moda e design, quali Kenzo, Santinoni, Seletti, esplorando in questo modo, e in modo diverso dalle riviste prima menzionate, i confini e i limiti tra il marketing e l’arte. Nel web-magazine, analogamente alla pagina Instagram, le immagini scorrono senza soluzione di continuità, come se si trattasse di un profilo su Tumblr, al cui interno troviamo finestre e link con collegamenti esterni di vario tipo, video e tracce audio. «TOILETPAPER» è a tutti gli effetti un brand costruito seguendo le regole del marketing, che ha fatto della rivista un oggetto ambito da collezionare. I due creatori seguono la tendenza chiamata “arketing”, una strategia applicata all’arte tipica dei brand e della vendita dei prodotti, siano questi di lusso o commerciali.
Diametralmente opposta a tutti i casi editoriali finora analizzati si trova «Boîte», una rivista in scatola autoprodotta, nata nel 2009 dalle mani di Giulia Brivio e Federica Boràgina, nonché uno degli esiti più interessanti della nuova editoria indipendente italiana. Dal taglio preciso e con un layout essenziale, «Boîte» è una “rivista” di ricerca e di approfondimento di percorsi artistici del XX e XXI secolo. Oggetto ludico e piacevolmente collezionabile, non ammicca o insegue dinamiche commerciali e non prende in prestito la sua estetica dal linguaggio della moda, e questo gli conferisce una forte identità che la rende difficilmente confondibile con le altre riviste sul mercato. La rivista è semestrale e ha una tiratura di duecentocinquanta esemplari per numero, tutti confezionati a mano; ogni scatola contiene fogli sciolti dove trovano spazio saggi, approfondimenti, immagini e una sorta di dono: un piccolo oggetto scelto di volta in volta da un artista ospitato dalla rivista. Ogni anno vengono sviluppati due numeri monografici, come quello dedicato alla velocità, al nascondimento, ai procedimenti creativi e così via. Si tratta sempre di percorsi ben studiati e lineari, che si aprono con un’analisi storica del tema trattato, allo scopo di «spiegare l’opera d’arte, o meglio suggerire possibili chiavi di lettura dell’opera, per incuriosire, per far riflettere. Il primo anno abbiamo scelto la via secondo noi più diretta per avvicinarsi all’arte, cioè le tecniche artistiche».2121Intervista a Giulia Brivio e Federica Boràgina: boîte #10 Letture sull’arte in formato A5, «ATPdiary», 2012, link non più disponibile.
L’idea della scatola è dichiaratamente presa in prestito dalle boîte duchampiane, e non a caso il primo numero è dedicato proprio all’artista. Al lettore sono implicitamente suggerite una fruizione e una lettura attente; la scelta dei fogli non rilegati induce infatti a una cautela maggiore nel maneggiare la rivista. Le stesse ideatrici del progetto dichiarano di aver optato per questa formula per evitare che la rivista potesse essere letta distrattamente, sottolineando in questo modo la cura nella selezione di tutti i contenuti presenti al suo interno, che non sono mai banali o trattati in modo superficiale; non si tratta infatti di una riproposizione di comunicati stampa delle mostre o di distratte review, ma di piccoli cammei dedicati all’arte.
Infine, analizzando il caso di «Diorama Magazine», ci troviamo di fronte a una rivista di approfondimento generalmente legata a temi cult del momento, con un taglio trasversale e multidisciplinare, improntato al contemporaneo. La rivista viene fondata nel 2011 da Zoe de Luca insieme a Eleonora Salvi, Lorenza Novelli, Jelena Miskin e Virginia Devoto. «Diorama Magazine» nasce dalla volontà delle sue giovani fondatrici di trovare uno spazio di ricerca e di sperimentazione della pratica curatoriale. La rivista, inizialmente autoprodotta e distribuita in modo gratuito, con una tiratura di cinquecento copie, diventa bilingue e con una tiratura triplicata di millecinquecento copie, realizzate grazie alla sponsorizzazione di Marsèlleria. Il limite di «Diorama Magazine» è forse la ristrettezza della sua divulgazione; si tratta infatti di una rivista fruita da un circoscritto numero di persone: per lo più un pubblico di area milanese. La scelta del nome non è casuale: si è voluta creare un’antologia diretta con i diorami ottocenteschi – quelle riproduzioni in scala osservabili da uno spioncino. Ogni numero indaga un tema specifico attraverso prospettive diverse e utilizzando una serie di rubriche di approfondimento su temi diversi e discipline quali l’arte contemporanea, la musica sperimentale, l’antropologia, il design, la letteratura, l’architettura, la botanica e così via. Tra i vari contenuti, uno spazio è sempre dedicato a un intervento interamente pensato da un artista.
Le realtà editoriali indipendenti fino a qui menzionate non rappresentano naturalmente tutta la varietà e complessità dei progetti editoriali che, soprattutto negli ultimi anni, stanno emergendo portando avanti un costante lavoro di ricerca e diffusione del pensiero critico su tematiche care al mondo dell’arte contemporanea ma non solo. Tuttavia, in questa rassegna si è scelto di concentrare lo sguardo solo su alcune realtà che, a mio avviso, sono emblematiche di certe scelte e posizionamenti emersi all’interno del settore editoriale italiano all’indomani della rivoluzione mediatica di cui abbiamo parlato.
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Simona Squadrito è curatrice e critica d'arte, vive e lavora a Milano. Dopo il conseguimento della laurea magistrale in Filosofia e Storia delle Idee all'Università degli Studi di Torino ha intrapreso un percorso lavorativo e formativo nelle arti visive, conseguendo nel 2020 il master di secondo livello in Museologia Museografia e Management dei Beni Culturali. Presidente dell'Associazione culturale Casagialla, è stata dal 2015 al 2020 direttore di Villa Vertua Masolo. È cofondatrice di "REPLICA. L'archivio italiano del libro d'artista" e cofondatrice dell'associazione culturale KABUL magazine. Dal 2014 scrive e collabora per diverse testate e piattaforme digitali.
Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano, 1997.
Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2007.
Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.
Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2009.
Massimo Canevacci, Culture extreme. Mutazioni giovanili nei corpi delle metropoli, Meltemi, Roma, 2003.
Guy-Ernest Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1967.
Mark Fisher, Realismo capitalista, NERO Editions, 2008, Roma.
Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, FrancoAngeli, Milano, 2002.
Matteo Mammoli, La grande concentrazione. Breve storia dei maggiori gruppi editoriali italiani, Unicopli, Milano, 2017.
Attilio Mangano, Antonio Schina, Le culture del Sessantotto. Gli anni sessanta, le riviste, il movimento, Massari, Bolsena, 1989.
Raffaele Mantegazza, Pedagogia della morte. L’esperienza del morire e l’educazione al congedo, Città Aperta Edizioni, Troina, 2004.
Herbert Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2008.
Denis McQuail, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna, 2007.
Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, ISBN Edizioni, Milano, 2011.
Simone Tosoni, Emanuela Zuccalà, Creature Simili. Il dark a Milano negli anni Ottanta, Agenzia X, Milano, 2013.
Giuliano Vigini, Alberto Cadioli, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi, Editrice Bibliografica, Milano, 2005.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.