«Come Transghost, esercitiamo la nostra azione sulle relazioni di potere, al fine di sovvertire qualsiasi gerarchia di dominio sulla base di sesso, genere, etnia ed età, e produciamo resistenza alla totale comprensione del sé e dell’altro, evitando un processo di codifica e riconoscimento identitario in categorie prescrittive. In questo senso, con un certo grado di consapevolezza, ogni persona può essere Transghost» -ness, Transghost Manifesto, «KABUL magazine», ANATOMIA, Part II, dicembre 2020.
In occasione di #Pages, la sezione dedicata alle realtà editoriali di ArtVerona curata da Ginevra Bria, la redazione di KABUL, insieme al collettivo -ness, presenta la performance installativa DSM (Desires, Sins, Mistakes), nata dalla rielaborazione di alcuni punti cardinali del Manifesto Transghost, precedentemente pubblicato sul nostro sito. Nell’intervista che segue dialoghiamo insieme a -ness per approfondire alcuni aspetti della performance che sarà realizzata a Verona tra il 15 e il 17 ottobre.
KABUL: Nel testo che introduce questa intervista abbiamo riportato lo statement con cui descrivete la vostra ricerca. Che cosa significa essere un’identità temporanea, e che valore assume il concetto di identità nel vostro lavoro? È possibile uscire, entrare, attraversare e fare proprie le identità?
-ness: L’identità assume significati specifici e differenti in base alle modalità in cui la società e la cultura si organizzano nel tempo. Il nostro corpo agisce nella società confermando o rifiutando degli schemi identitari precostituiti. Pertanto, le identità sono tutte fluide, labili, vulnerabili e soggette ai cambiamenti. L’identità è performativa e performata.
L’attenzione particolare che moltə riconoscono all’identità e alle teorie del corpo è per noi uno tra i processi più rilevanti del contemporaneo: significa prendere consapevolezza dei meccanismi di potere che il sistema patriarcale e normativo attiva sui corpi, organizzando gerarchie di privilegi. Muovere verso uno smantellamento dell’organizzazione gerarchica dei corpi per noi significa operare in un’inversione del canone normativo, e nello specifico ha significato ragionare sul concetto di verità nel corpo, slegandolo dal dato biologico e biografico.
Per questo motivo, Transghost accede alla capacità finzionale delle identità di ognunə di noi, per diventare temporaneamente altro da sé, in una logica che non crea Soggetti maggioritari.
KABUL: «Le plus profond, c’est la peau» è un celebre aforisma di Paul Valéry. Con questa frase il poeta intendeva ricordare che non esiste un secondo piano di realtà che si nasconde dietro l’apparenza dei fenomeni: non esistono verità nascoste da rivelare, tutto si esprime già nella superficie, così come l’uomo si manifesta attraverso la sua pelle, la semplicità, nella sua evidenza epidermica. La superficie, nella performance DSM (Desires, Sins, Mistakes), diventa territorio da esplorare, spazio da percorrere. È inoltre messa in scena la polarità tra superficie e profondità. Questi due concetti tradizionalmente opposti sono legati da un terzo elemento: il desiderio. Come si esplica nella vostra performance tale relazione? Che valore date nel vostro lavoro al concetto di superficie?
-ness: Trangshost diventa riconoscibile attraverso la superficie che abita: una tuta integrale aderente, comunemente nota come zentai. Questo particolare abito (da noi inteso come habitus – abitare) corrisponde al rapporto più intimo che il corpo ha con sé stesso. Lo zentai non è una seconda pelle, cioè secondaria rispetto al derma; è un modo di esplorare e abitare la parte più intima del nostro corpo, che è la superficie, cioè la sua parte più estesa. Le profondità e l’interiorità sono concetti per noi slegati dall’intimità. Essere intimi comporta sempre una relazione, uno scambio tattile di superfici da esplorare, in una vicinanza che non ha la pretesa di scavare altrove per trovare un principio di verità (con un ordine di verità) superiore. Ecco che il desiderio possiede per noi le stesse dinamiche di una superficie, la cui estensione ha un valore più connotato rispetto a una presunta profondità.Il desiderio, inteso come spazio interno e inesplorabile, è stato spesso tradotto con valore negativo se unito al pregiudizio, alla colpa, al peccato, all’errore, all’espiazione. Ciò ha causato un principio di medicalizzazione psicoanalitica dei corpi, nel tentativo di correggere l’errore del desiderio fuori dalle norme cattopatriarcali (es.: donne isteriche e gay depravati). Dovendo fuggire dai costrutti patologici, non possiamo che figurare il desiderio come una superficie libera e porosa, che ha la stessa caratteristica dei fluidi di attraversare i corpi.
Gli abiti permettono a Transghost di accedere alla finzione.
KABUL: DSM è una performance installativa che prevede, azione dopo azione, l’utilizzo di una serie precisa di oggetti e strumenti: i materiali in plastica, i liquidi vischiosi, un suono che costruisce la narrazione sono gli elementi più simbolici di questo lavoro. Potete raccontarci il valore e il senso di questi tre elementi? Che ruolo hanno gli oggetti e i materiali che avete scelto? In che relazione stanno tra loro?
-ness: Transghost è sia soggetto che oggetto della performance. Transghost è connotato di un materialismo che caratterizza fortemente la sua presenza nello spazio (fuori e dentro la scena). Lo zentai e gli indumenti sono gli elementi più evidenti. Attraverso gli strumenti della moda si dispiega e si modella l’identità Transghost. Il genere, nella sua fluidità, diventa l’accessorio più prezioso da esibire. Gli abiti permettono a Transghost di accedere alla finzione, che libera il corpo dalle strette norme sociali e culturali. Il dato finzionale raddoppia quando Transghost entra in scena. Il principio di vicarianza governa l’azione scenica di Trasnghost. Gli oggetti, progettati per una precisa funzione e destinazione d’uso, in contatto con Transghost subiscono una perdita del senso comune e vengono adoperati in una traslazione o traduzione materica della performatività di Transghost. La selezione degli oggetti non è dunque il risultato di una sperimentazione dei materiali. In questo senso, tutta la materia è viva e si anima in scena. Non c’è gerarchia della materia o un tentativo di salvare o riabilitare un significato particolare della materialità degli oggetti: l’elemento pseudo-umano che è Transghost non sta al vertice della rappresentazione.
In DSM i materiali adoperati sono: due corpi, vari abiti, un volume incostante di aria, eventuali suoni e onde rifratte, casse audio per musica digitalizzata, litri calcolati d’acqua, cinque buste di plastica e qualche striscia di materiale isolante e riflettente. Insieme, creano una mappa disorganizzata della superficie visibile e invisibile dei desideri.
KABUL: Recentemente vi siete esibiti in luoghi molto connotati e affollati di oggetti, per esempio come nel caso della collettiva ISIT.exhi#001 presso Spazio InSitu, a Roma; oppure, come alla Biennale Teatro di Venezia, all’interno di un vaporetto degli anni ’20. Questa volta, a Verona, vi dovrete confrontare con un luogo che per voi è ancora inesplorato: la fiera. Come ha influito nella preparazione di questa performance?
-ness: Citando Herbert Blau: «A teatro, come in amore, il soggetto è la sparizione». Abbiamo sempre lavorato alle nostre performance seguendo questa linea d’orizzonte, costruendo immagini che raccontano un invisibile, una mancanza, ciò che manca alla realtà. Lo spazio scenico accoglie i residui e le tracce del nostro passaggio – o meglio, della nostra identità Transghost.
Essere in fiera significa riconquistare la caratteristica peculiare della performance, ovvero la sua sparizione. Il pubblico si confronterà con lo spazio, a volte allestito o colmo dei nostri corpi, oppure pieno dei nostri residui. Il white cube racconterà di qualcosa che è già accaduto, che accade o che deve ancora accadere: racconta la nostra sparizione.
KABUL: Il vostro manifesto è stato pubblicato sul nostro sito nel febbraio 2021. Come è andata avanti la vostra ricerca dopo la pubblicazione? Ci sono aspetti che sono diventati più urgenti per voi?
-ness: Non possiamo negare che la ricerca artistica abbia l’urgenza della fame. È diventato prioritario, e non solo per noi, vivere in un sistema che riconosca il lavoro artistico. Durante la pandemia ci siamo tuttə sollevatə al grido dei nostri diritti mancati. Eppure, stiamo ancora lavorando in situazioni di precarietà, accettando lavori poco o non retribuiti. Grazie a voi e ad altre realtà a noi vicine, abbiamo costruito alleanze e linee di supporto e resistenza, fondamentali per l’evoluzione della nostra ricerca.