Sougwen Chung, Assembly Lines, 2022.
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Cybernetic Culture Research Unit

Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

Avery Dame-Griff, Barbara Mazzolai, Elias Capello, Emanuela Del Dottore, Hilary Malatino, Kerstin Denecke, Mark Jarzombek, Oliver L. Haimson, Shlomo Cohen, Zahari Richter
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Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

Divenire Viscerali
Magazine, PLANARIA - Part II - Giugno 2023
Tempo di lettura: 22 min
Bianca Arnold

Divenire Viscerali

Cannibalismo: “Bones and All”, divenire giaguari e il corpo lesbico.

Bianca Arnold, Corpi Viscerali, 2021.

L’Antropofagia ci unisce

Durante uno sleep over, Maren (Taylor Russell) parla intimamente con una ragazzina sotto a un tavolo di vetro. Dalle prime scene ci è dato sapere che per lei è difficile trascorrere del tempo con le sue coetanee, per cui questa scena è carica di aspettative. Mentre l’amica le parla, Maren avvicina il volto alla sua spalla, con movenze cariche di erotismo e desiderio. Maren desidera la sua amica? L’amica le porge il dito con l’unghia appena smaltata, e Maren prima lo lecca e poi… lo mangia. Esatto, sto parlando di Bones and All, ultimo film di Luca Guadagnino, uscito nelle sale italiane nel 2022.

«Solo l’Antropofagia ci unisce. Socialmente. Economicamente. Filosoficamente. Sola legge del mondo. Espressione mascherata di tutti gli individualismi, di tutti i collettivismi. Di tutte le religioni. Di tutti i trattati di pace».11Oswald de Andrade, Manifesto antropófago, «Periferia», 3.1, 2011.

Così esordisce il Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade, poeta di San Paolo che, insieme ad altri come Mario de Andrade, Anita Malfatti, Tarsila do Amaral e Menotti del Picchia, figura come fondatore del modernismo brasiliano. Antropofagismo come via di libertà dai colonizzatori, finalmente: divorare l’arte, la lingua e lo stile degli europei che sono stati imposti in Brasile per secoli, per esprimere la propria differente identità. Ribellarsi appropriandosi della loro cultura e persino della loro religione.

Il testo del manifesto è datato 374, anno dalla “deglutizione” del Vescovo Sardinha22 Primo vescovo del Brasile, deglutito nel 1554 da un antropofago della comunità caetè, all’epoca parte della macro-comunità Tupinamba, oggi non più esistenti.
(è del 1928) ed è esso stesso una dichiarata “deglutizione” di concetti, riferimenti colti e citazioni. Si tratta di un’azione metafisica (e ontologica) di «trasformazione permanente del tabù in totem».33Ibid.

In Totem e Tabù, Freud pone come base della civiltà e distacco dalle barbarie l’atto di uccisione e divoramento del proprio padre. Nel Manifesto Antropofago, Freud viene mangiato e digerito insieme ad altri testi canonici dell’intellettualità occidentale. Del cannibalismo delle popolazioni americane vengono messi in risalto l’aspetto ritualistico – rendere sacro ciò che è proibito – e l’assunzione sublimata di ciò che non è proprio. Della società occidentale si rigetta l’autoritarismo (il “patriarcato” opposto al sistema sociale del mitico regno matriarcale di Pindorama, la “terra delle palme”),44Ibid.
giustificato e supportato da uno stile di vita improntato all’utile coperto da un velo di falsa moralità. 

«All’indio posticcio creato dal Romanticismo brasiliano sulla falsariga di eroi cavallereschi si vuole sostituire l’indio autentico nell’integrità dei suoi valori culturali, con le sue credenze, le sue leggende e la sua poesia. In questo scontro tra ideologie incompatibili, l’utopia si inserisce traendo il meglio dai due mondi».55Ettore Finazzi-Agrò, Maria Caterina Pincherle (a cura di), La Cultura Cannibale Oswald de Andrade, da Pau-Brasil al Manifesto Antropofago, Meltemi, Sesto San Giovanni, 1999, p. 20.

La vicenda di Lee (Timothée Chalamet) e Maren in Bones and All è la storia d’amore di due cannibali in un road movie attraverso gli USA. Il periodo è un imprecisato tempo estetico delle case a schiera e degli autogrill, in un panorama in cui tutte le cose più strane possono accadere, proprio perché sembra essere la terra del nulla (e allo stesso tempo quella in cui ci sono le sparatorie di massa e dove l’aborto è illegale).

Nel Brasile modernista di de Andrade l’asse temporale passato/presente incrocia anche l’asse spaziale locale/estero. L’identità culturale viene definita non solo indicando la propria posizione rispetto ai tempi cristallizzati dell’accademia, e quindi cercando di vivere ed esprimere il presente, ma anche ponendosi in relazione con le nuove realtà avanguardistiche delle correnti artistiche europee, elaborando la propria dipendenza in quanto colonia. 

La poesia del gruppo antropofago segue queste coordinate creando le “poesie-cronache” (Seguimmo la nostra rotta lunghesso questo mare / Fino all’ottava di Pasqua / Trovammo uccelli / E avvistammo terra)66Poesia intitolata La scoperta all’interno della sezione Storia del Brasile, in “Pau-Brasil”.
e le “poesie-elenco” (Pasticceria Tre Nazioni / Importazione e Esportazione / Macelleria Ideale / Latteria Moderna / Caffè del Pappagallo / Merceria Unione / Nel Paese Senza Peccati).77Poesia intitolata Nova iguacu all’interno della sezione RP1, sigla di un tipo di locomotiva in uso all’epoca, in “Pau-Brasil”.
Le prime vengono create a partire dai documenti cinquecenteschi che riportano le descrizioni delle nuove terre scoperte dai missionari, mentre le seconde enumerano oggetti con interventi ironici. 

Il movimento antropofago proclama la necessità di vedere la storia e la cultura identitaria di una nazione in complesse tessiture in cui l’attualità e la modernità non rimuovono un sistema arcaico prendendone il posto, ma vi si mescolano in un circuito che si discosta dall’idea evolutiva e lineare della storia occidentale.“…Il movimento antropofago proclama la necessità di vedere la storia e la cultura identitaria di una nazione in complesse tessiture in cui l’attualità e la modernità non rimuovono un sistema arcaico prendendone il posto, ma vi si mescolano in un circuito che si discosta dall’idea evolutiva e lineare della storia occidentale.”

Mangiare l’Altro, diventare l’Altro

Il cannibalismo è prima di tutto un evento:

«Si dovrà preliminarmente valutare come l’ingestione dell’altro abbia a che fare, da sempre, con una ben strana forma di potere – un potere che si rovescia paradossalmente nel suo contrario: in un de-potere che, infine, espone all’Altro e lo sacralizza (nella formulazione di Oswald: “Assorbimento del nemico sacro. Per trasformarlo in totem”)».88Ivi, p. 96.

Mangiare l’altro per assorbire le sue virtù, per incarnarlo, paradossalmente per dargli un corpo. Un altro. 

Fu Cristoforo Colombo a inventare la parola “cannibale”, mescolando il termine con cui si chiamavano le popolazioni delle isole caraibiche, “caribi”, e il riferimento ai cinocefali, detti “canibi”, uomini con la testa di cane che si cibavano di carne umana e che si diceva fossero sudditi del Gran Cane (Gengis Khan) descritto da Marco Polo, di cui Colombo era sicuro di aver raggiunto i territori.

«La paura di essere completamente assorbito da questa spaventosa wilderness, di venire “divorato” da questo smisurato spazio selvatico, di essere spogliato non solo del corpo ma anche dell’anima, si sostanzia metaforicamente e materialmente nella figura del cannibale e da essa è duplicata».99Ivi, p. 97.

È da notare come i popoli incontrati da Colombo e a cui si deve l’ispirazione per l’invenzione del termine cannibali non fossero antropofagi. Ma torniamo al Brasile: Francesco Remotti, antropologo di fama internazionale, nel suo celebre libro Contro l’identità, parla della pratica antropofaga presso i Tupinamba,1010Popolazione indigena della regione amazzonica del Brasile a cui fanno riferimento anche gli esponenti del movimento modernista antropofago.
popolazione nota per il suo lungo rituale di preparazione del guerriero nemico a essere mangiato. Il rituale prevede infatti che il nemico venga prima accolto, vestito e cibato, e che gli venga assegnata una compagna con la quale vivere nei mesi successivi, integrandosi perfettamente nella comunità di cui è prigioniero come se fosse un suo membro. Attraverso la descrizione di questa pratica, Remotti mostra la costruzione dell’alterità e, allo stesso tempo, la sua assimilazione e il suo annientamento: «L’identità del “noi” da sola è “incompleta”: occorre aggiungere o raggiungere l’alterità».1111Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 2012.

Un altro antropologo che si è a lungo occupato dei Tupi è Eduardo Viveiros de Castro, nello specifico all’interno di Metafisiche Cannibali, testo rivoluzionario del 2009. Questo testo, che viene concepito come la presentazione di un altro suo libro, non ancora scritto, intitolato l’Anti-Narciso (chiara ripresa dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari), riprende in chiave antropologica l’intreccio di pensiero rizomatico tra letteratura, psicoanalisi e filosofia, al fine di elaborare ulteriormente i concetti di “prospettivismo amazzonico” e “multinaturalismo”,1212Viveiros De Castro utilizza il termine multinaturalismo in opposizione al concetto di multiculturalismo. Quest’ultimo, infatti, si basa sulla reciproca unità di natura e diversità di cultura, mentre il multinaturalismo prevede un’unità spirituale (solo noi parliamo di cultura) e una diversità corporale. Questa visione potrebbe essere ricondotta al relativismo, tuttavia Viveiros de Castro ribadisce che più che un relativismo si tratta di “prospettivismo”, in quanto sono le diverse prospettive che convergono, i punti di vista, e i punti di vista non sono rappresentazioni diverse, le quali hanno sede nel pensiero, come nel relativismo, ma risiedono nel corpo. Colui che riesce a creare un dialogo tra i diversi punti di vista e a “cambiare corpo” per porsi sotto un’altra prospettiva è lo sciamano. Si veda Eduardo Viveiros de Castro, Il nativo relativo, 2019, pp. 107-144.
mettendo in relazione il “pensiero indigeno” e il “pensiero occidentale”, ovvero un pensiero in divenire e in trasformazione in rapporto a un pensiero lineare ed evolutivo. Sulla scia del movimento antropofago e di Oswald de Andrade, Viveiros de Castro riprende il cannibalismo come fenomeno chiave per la costruzione dell’identità coloniale rispetto ai colonizzatori, ma spingendosi oltre propone una critica alla stessa antropologia e alla concezione di scienza. Avere una concezione prospettivista e “prendere sul serio” il pensiero indigeno significa non neutralizzare, mettendo in crisi i fondamenti dualistici cartesiani1313La realtà secondo Cartesio è divisibile tra res cogitans e res extensa, ciò che è spirituale e ciò che è materiale. (Meditazioni Metafisiche, Seconda Meditazione). Tutto ciò che è corpo ha caratteristiche diverse da ciò che è pensiero. (Meditazioni Metafisiche, Sesta Meditazione). Da questo deriva il dualismo fondamentale tra le cose (la natura, il corpo) e il pensiero (la mente, la cultura).
verso i quali tendono le nostre scienze e la nostra visione del mondo, su cui si fonda la grande discriminazione tra ciò che è umano e ciò che non lo è, con le dovute derive di ciò che è civilizzato e ciò che non lo è, tra chi è più dotato di ragione e chi più un corpo da sfruttare.

Una proprietà manifesta del rituale cannibale Tupi, che Viveiros de Castro definisce un processo di trasmutazione delle prospettive, è quando:

«L’“Io” è determinato come altro attraverso l’atto di incorporazione di questo altro, che a sua volta diviene un “Io”… ma solo e sempre nel letteralmente-altro, cioè, attraverso l’altro. Questa definizione sembrava risolvere una semplice ma insistente questione: che cos’è che veniva davvero mangiato in questo nemico?».1414Eduardo Viveiros De Castro, Cannibal metaphysics, University of Minnesota Press, 2015, p. 141.

Quello che viene mangiato, il sapore che viene assaggiato, è il gusto della relazione tra il nemico e coloro che lo hanno consumato, assimilando i segni della sua alterità, con lo scopo di raggiungerla come punto di vista sul Sé. Una forma di autodeterminazione attraverso lo sguardo del nemico. Il rituale culmina con l’evento dell’uccisione del nemico catturato, evento che segna un momento di iniziazione per l’officiante, a cui di conseguenza viene dato un nuovo nome, scarnificazioni commemorative e il diritto di costruirsi una famiglia. Il rituale continua con l’assunzione del corpo da parte dei partecipanti e dei membri della comunità a eccezione dell’officiante. Egli è escluso dall’assaggiare il sapore dell’altro.

«Non solo non avrebbe mangiato il prigioniero, ma successivamente sarebbe entrato anche in una fase di confinamento funebre, un periodo di lutto. Era entrato, in altre parole, in un processo di identificazione con il suo “avversario” a cui aveva appena tolto la vita».1515Ibid.

Questa autodeterminazione attraverso lo sguardo del nemico è presente anche in Bones and All; Timothée ricerca nelle sue vittime la personificazione dell’uomo che non intende essere, da un lato come se mangiare persone moralmente dubbie costituisca un fatto meno grave, mentre dall’altro come processo di affermazione della sua identità, della propria mascolinità, che freudianamente oppone a quella del padre, violenta e tossica. 

L’esocannibalismo tupinamba è pertanto sì sopraffazione ed eliminazione dell’altro, ma anche assimilazione e custodia dell’alterità. Tuttavia, allo stesso tempo, non si tratta di eliminazione totale. I resti, infatti, come per esempio le ossa, vengono utilizzati in svariati modi, tra cui la creazione di monili e flauti, cosicché la persona sia sempre in qualche modo all’interno del ciclo di vita e in connessione con i propri antenati. Che dire quando l’antropofagia diventa “bones and all”? Con tutto il resto? Quando sentono parlare con voce languida di questa pratica, Lee e Maren sono disgustati.

Fotogramma da Bones and All, di Luca Guadagnino, 2022.

Capitalismo Cannibale

Nel 2022, Nancy Fraser ha pubblicato Cannibal Capitalism, un libro con un messaggio chiaro: qui non rimane più nulla. Fraser intende per Capitalismo non solo uno specifico sistema economico, ma la società tutta: un insieme che autorizza un’economia concepita ufficialmente per accumulare valore monetizzato per investitori e proprietari, mentre divora la ricchezza non economizzata di tutti gli altri.

«Servendo quella ricchezza su un piatto alle classi aziendali, questa società le invita a fare un pasto delle nostre capacità creative e della terra che ci sostiene, senza alcun obbligo di ricostituire ciò che consumano o riparare ciò che danneggiano».1616Nancy Fraser, Cannibal Capitalism: How our System is Devouring Democracy, Care, and the Planet, and What We Can Do About It, Verso Books, London, 2022.

Sulla copertina del libro si trova l’immagine dell’Ouroboros, un serpente che si ciba della propria coda. Simbolo di ciclicità ed eterno movimento, è apparentemente immobile. Rappresenta il potere che si autodivora e si rigenera, l’eterno ritorno, la ciclicità di tutte le cose, l’immortalità. Meraviglia e orrore, Nancy Fraser identifica questo animale con il Capitalismo, portato a divorare sé stesso e, allo stesso tempo, a rigenerarsi. Cannibalizzazione in un senso che sottolinea l’andare oltre i confini. Oltre il considerare il Capitalismo una questione economica, ma considerare le sovrapposizioni sfumate di espropriazione che coinvolgono corpi non maschili, non bianchi, non umani. 

La visione che Fraser propone è il panorama di un sistema di cui noi facciamo parte, che si ciba e continua a esistere grazie alla nostra carne. Carne che, tuttavia, è nata e si è sviluppata all’interno del sistema stesso. Vedere il Capitalismo come qualcosa di esterno è un’arma che ci si ritorce contro. Guardarlo in faccia può invece essere utile per capirne i limiti e i danni, per comprendere quale posizione assumere. Forse, per interrompere il suo ciclo distruttivo, dobbiamo riconoscere la nostra filiazione a partire da esso. Ecco come il concetto stesso di cannibalismo usato da Fraser può essere ulteriormente utile se considerato in maniera prospettica. Cannibalismo come incorporazione dell’altro significa anche questo: divorandoci, il Capitalismo ci guarda negli occhi e ci incorpora nel suo sistema, mantenendo viva la genealogia. Eppure, mentre veniamo mangiati, siamo in grado di accedere al significato più ampio di cannibalismo, quello che deriva da un atto di denominazione razzista da parte di un colonizzatore, o persino da un atto, come quello del Manifesto Antropofago, di riappropriazione della propria posizione nel panorama culturale. Un “prendere sul serio” una concezione altra di divenire che ci porta a vedere con sguardi altri, diversi. Si tratta sempre di un gioco di sguardi.

«Attraverso il suo nemico, l’Araweté che attua l’esecuzione vede sé stesso come il nemico. Egli si comprende come soggetto nel momento in cui vede sé stesso attraverso lo sguardo della sua vittima, o, per metterla diversamente, quando dichiara la sua singolarità a sé stesso attraverso la voce di quest’ultimo. Prospettivismo».1717Viveiros De Castro, cit., p. 143.

Fraser, dunque, si chiede e ci chiede:

«Possiamo immaginare un progetto emancipatorio e contro-egemonico di trasformazione eco-societaria di ampiezza e visione sufficienti per coordinare le lotte di molteplici movimenti sociali, partiti politici, sindacati e altri attori collettivi, un progetto volto a mettere a tacere il cannibale una volta per tutte?».1818Fraser, cit., p. 13.

Bianca Arnold, Foresta Amazzonica, 2017.

Amore Cannibale 

Trovare un’alternativa al capitalismo significa reinventare un nuovo rapporto di produzione e riproduzione sociale.

In Bones and All, Lee e Maren rappresentano una coppia molto affiatata, romanticamente ben assortita, persino troppo, ricalcando a volte lo stereotipo vintage della coppia felice eterosessuale. Eppure, dietro questa rappresentazione, si nasconde qualcosa di profondamente triste e più autentico. Uno dei cannibali incontrati durante il vagabondaggio afferma: «Non è lei che ha bisogno di lui, ma è lui che ha bisogno di lei». Nella sua delicatezza e nella sua estrema fragilità, la bellezza del personaggio incarnato da Chalamet sa essere straziante. Si tratta di una maschilità eterosessuale, bianca e straziata, che non sa più dove aggrapparsi. Dopo aver divorato il padre, vorrebbe un mondo pieno di amore, in cui non esista più violenza maschile in grado di intaccare la madre o la sorella. Tuttavia, persino quest’ultima viene mangiata. Si rifugia dunque nell’amore come se fosse l’unica cosa a redimerlo dalla catena di colpe che trascina come Sisifo sulla montagna. Si tratta però di un miraggio, e l’estetica vintage di Guadagnino lo rende chiaro sin da subito.

la bellezza del personaggio incarnato da Chalamet sa essere straziante.

Questo immaginario, a un certo punto, si sgretolerà, e con esso cesserà persino l’ideale romantico della giovane coppia eterosessuale e monogama. Una fine di cui non resterà più niente. Eppure, almeno in questo, Lee sarà accontentato. Sin dall’inizio del film, il suo desiderio è infatti quello di sparire, di non portare più su di sé il peso delle proprie colpe, desidera la redenzione e la purificazione. E qual è il modo migliore per ottenerle se non quello di essere divorato e inglobato dalla donna che ama? In realtà, sappiamo che questa non può essere affatto la strada giusta per curare le proprie ferite. Si tratta infatti di una soluzione che materializza la prospettiva coloniale dell’uomo bianco ferito dal senso di colpa. Qualcosa di molto simile a quello che ci raccontava bell hooks:

«Avere un assaggio dell’Altro, in questo caso intrattenere rapporti sessuali con donne non-bianche, era considerato un rituale di trascendenza, un movimento verso il mondo della differenza con un potenziale di cambiamento. Un accettabile rito di passaggio».1919bell hooks, Gigi Durham Meenakshi, Eating the other: desire and resistance, in Black Looks: Race and Representation, «South End Press», 21, Boston, 1992, p. 368.

Riferendosi ai giovani studenti maschi di Yale, bell hooks delinea la figura del tipico ragazzo bianco progressista e di sinistra che scorge, nel corpo della donna nera, un territorio da esplorare, una vera e propria frontiera che, affermandosi ai suoi occhi come identità desiderante trasgressiva, può costituire il terreno per riaffermare la norma maschile.

Sulla soglia del suo manifesto, de Andrade rappresenta questo discrimine con un breve e conciso “Tupy or not Tupy”, rimando al noto dubbio amletico shakespeariano. Radicalità che esprime l’impossibilità di pensare e rappresentare il rapporto tra cultura dominante e cultura dominata se non nella seconda, per quanto essa sia stata imbastardita dalla violenza prevaricante della prima. Solo in quello spazio non ben localizzabile situato nel rapporto continuo con l’altro, 

«che divide e collega l’identico dal diverso da sé e che trova nella corporeità, in quanto dimensione liminale e aperta, la sua metafora più consistente… è soltanto abitando nella Differenza o sul suo limite dubbioso, ancora una volta, che l’Identità culturale (anche quella brasiliana pertanto) si può schiudere al senso, che è sempre e naturalmente un senso “in relazione”».2020Ettore Finazzi-Agrò, Maria Caterina Pincherle, La Cultura Cannibale. Oswald de Andrade: da Pau-Brasil Al Manifesto Antropofago, Meltemi, Milano, 1999, p. 101.

Desiderio di relazione con l’Altro che bell hooks vede tuttavia formarsi nella sua mercificazione offerta come un nuovo piacere, più intenso e soddisfacente. Desiderio per un “primitivo” e un “autentico” che va a sostenere fantasie sull’Altro, che lo mantengono in una continua espropriazione. Quest’ultima avviene in un modo che mantiene lo status quo. 

«La nostalgia imperialista prende forma riattuando e riritualizzando in maniere diverse il viaggio colonialista e imperialista, in fantasie narrative di potere e desiderio, di seduzione da parte dell’Altro».2121hooks, cit., p. 369.

Ho parlato della popolazione Tupi per parlare di cannibalismo, per affrontare un concetto bianco e occidentale di cannibalismo rappresentato attraverso un film e per ampliarne la prospettiva. Non ho utilizzato, tuttavia, fonti Tupi che ne parlino, finendo così anch’io – come l’antropologia, la filosofia, l’arte e il cinema – per cannibalizzare l’altro nella maniera brillantemente esposta da bell hooks.

«La crisi identitaria contemporanea nell’occidente, specialmente come esperita dalla gioventù bianca, viene alleviata quando il “primitivo” viene recuperato attraverso un focus sulla diversità e sul pluralismo che suggerisce che l’Altro può provvedere alternative sostenibili alla vita».2222Ibid.

bell hooks conclude la sua riflessione richiamando a una consapevolezza nella rappresentazione e nel riconoscimento dei modi con cui desideriamo il piacere, comprendiamo le differenze, informiamo le nostre politiche, perché: «Potremmo sapere meglio come il desiderio sconvolge, sovverte e rende possibile la resistenza. Non possiamo, tuttavia, accettare acriticamente queste nuove immagini».2323Ivi, p. 380.

Ouroboros.

Passare attraverso l’intestino

La dimensione intestinale, viscerale, è importante. Un riscatto da una fantasia di presunta purezza o verità che possiamo assimilare dal corpo dell’altro. Tale corpo viene attaccato e modificato dai succhi gastrici, ritorna impuro e trionfante. Da luogo a nuovi immaginari, nuove visioni, dislocate continuamente di senso. 

Passaggio attraverso il corpo, attraverso i denti taglienti, la lingua palpitante, il canale umido e scuro dell’esofago, relazioni intense con acido cloridico, muco, pepsina, lipasi. E ancora fegato, milza, stomaco, cistifellea, pancreas. Intestino, retto. Un corpo. Mangiare l’Altro, Mangiare il mondo; Mangiare la realtà. Mangiare. Mangiare è un atto trasformativo, che sta nella relazione, nel mezzo, nella prossimità. Non solo il corpo agisce su ciò che entra in esso, sul “cibo”, ma persino ciò che entra nel corpo agisce su di esso. Stiamo parlando di un evento, di un’azione, un movimento. Un divenire. 

«I divenire sono reali. Non metafore né metamorfosi, un divenire è un movimento che deterritorializza due termini della relazione che crea, estraendoli dalle relazioni che li definisce per collegarli attraverso una nuova “connessione parziale”. In questo senso il verbo divenire designa non un’operazione predicativa né un’azione transitiva: essere implicati in un divenire-giaguaro non è la stessa cosa che diventare un giaguaro».2424Viveiros De Castro, cit., p. 160.

Mangiare. Mangiare è un atto trasformativo, che sta nella relazione, nel mezzo, nella prossimità.

L’idea di divenire-animale elaborata da Deleuze e Guattari in Millepiani viene ripresa da Viveiros de Castro con l’espressione divenire-giaguaro per riferirsi a un’ecologia dei sé: «Il mondo biologico si costituisce attraverso i modi in cui miriadi di esseri – umani e non-umani – percepiscono e rappresentano ciò che sta loro attorno. Il significato, quindi, non è prerogativa degli esseri umani».2525Cf. Valentina Gamberi, Roberto Brigati, Metamorfosi: la svolta ontologica in antropologia, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 149.

Potere di intaccare e di essere intaccati. Questo attraverso il corpo, attraverso la corporeità, non tramite il pensiero o la “ragione”. Venire intaccati, lasciarsi intaccare, lasciarsi contagiare. 

«Divenire non è certamente imitare né identificarsi, non è neanche regredire-progredire; e nemmeno corrispondere, stabilire rapporti corrispondenti; infine non è produrre, produrre una filiazione, produrre per filiazione. Divenire è un verbo che ha tutta la sua consistenza; non si riduce e non ci conduce ad “apparire” né a “essere” né a “equivalere” né a “produrre”».2626Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, 2021, p. 339.
 

Il gioco sta nel liberare l’alleanza, quella tra nemici, tra cannibale e vittima, tra cacciatore e giaguaro, dal compito organizzativo della filiazione, dall’essere dominati dalla produzione, dalla riproduzione, liberando il corpo-senza-organi, il corpo non organizzato, l’abietto, l’anomalo, il mostruoso. Liberare i suoi poteri creativi. 

«Opponiamo l’epidemia alla filiazione, il contagio all’eredità, il popolamento per contagio alla riproduzione sessuata, alla produzione sessuale… Le partecipazioni, le nozze contro natura sono la vera natura che attraversa i regni… Il vampiro non figlia, contagia. […] In un divenire-animale si ha sempre a che fare con una muta, con una banda, con una popolazione, con un popolamento, insomma con una molteplicità».2727Ibid.
 

È qui, forse, il punto chiave di Bones and All, quando Lee e Maren provano a fermarsi nel loro divenire vagabondo, quando vogliono porsi al di fuori di quella banda di strani elementi che sono gli sporadici cannibali, quando si isolano nel divenire capitalistico, cercando di rientrare nella forza lavoro e nei mezzi di riproduzione sociale, quali il lavoro e la famiglia eteronormativa, pongono un blocco che si rivela letale (anche i cannibali muoiono). Un blocco a loro stessi, alla loro anormalità, per rientrare nella normalità imposta e naturalizzata oggetto dei desideri prodotti da quel capitalismo che è ormai più che reale.2828Si veda Mark Fisher, Capitalist realism: Is there no alternative?, John Hunt Publishing, 2022.
Avere una casa, una famiglia, un lavoro. Nascondere lo sporco sotto all’armadio, chiudere l’abietto nella soffitta e la strega lurida in cantina. 

«C’è tutta una politica dei divenire-animali: questa politica si elabora in concatenamenti che non sono quelli della religione né quelli dello Stato. Essi esprimerebbero piuttosto gruppi minoritari od oppressi o proibiti o in rivolta o sempre ai margini delle istituzioni riconosciute, tanto più segreti in quanto estrinseci e in condizioni di anomalia».2929Deleuze, Guattari, cit., p. 349.

Il sistema non è esterno rispetto a noi, dunque non facciamoci divorare. Riconoscerci come incorporati all’interno del sistema capitalistico ci consente di avvicinarci al concetto di “abietto” in Julia Kristeva:3030Julia Kristeva, Approaching abjection, «Oxford Literary Review», 5.1\2, 1982, pp. 125-149.
 

«Ma siccome questo nutrimento non è un “altro” per “me” che sono solo il loro desiderio, io mi espello, mi sputo fuori, mi abietto nello stesso movimento con cui “io” pretende di essere me. Questo dettaglio, forse insignificante, ma che cercano, caricano di significato, apprezzano e mi impongono, questa sciocchezza mi fa rivoltare le viscere: così vedono che io sto per diventare un altro a costo di me stesso morte. In questa traiettoria dove “io” divento, io parto nella violenza del singhiozzo e del vomito».3131Kristeva, cit., p. 127.

Lo sporco, il vomito, la merda. Sono queste le condizioni del nostro essere viventi. Del nostro divenire. Le condizioni del nostro essere in vita. Attraverso le sue vibranti parole, Kristeva fa emergere la mia visceralità, il mio essere abietta in quanto viva, queste impurità, questa merda che la vita sopporta appena ci mette a confronto con la morte e con i limiti del nostro essere in vita. 

«In relazione a questi limiti, il mio corpo si distacca come essere vivente. Queste particelle di scarto cadono perché io possa vivere, al punto che nulla rimane da una perdita all’altra e tutto il mio corpo cade oltre il limite, cade, cadavere».3232Ibid.

Per Kristeva non è l’impurità o lo sporco a indicare l’abietto, ma ciò che perturba un’identità, un ordine e un sistema. Ciò che va oltre i limiti. 

Tarsila do Amaral, Abaporu, 1928.

Per un’alleanza amor-fica

Ma io che cosa sono, cosa mangio? Che cosa divengo? Il divenire è sempre molteplicità, sostengono Deleuze e Guattari. Riconoscerci nel divenire ci pone sempre in prossimità con la moltitudine. Io con il mio corpo socializzato come donna mi pongo in prossimità con le mie labbra, con la mia mucosità, per raccontare un’altra storia che va oltre il termine “donna” che mi è stato assegnato, una storia che si racconta – secondo Luce Irigaray – quando «le nostre labbra parlano insieme».3333Si veda Luce Irigaray, Carolyn Burke, When our lips speak together, «SIgNS: Journal of Women in culture and Society», 6.1, 1980, pp. 69-79.
Quando si dice labbra non si può dire esattamente di quali labbra si stia parlando. Ma in ogni caso si sta parlando al plurale. Di una molteplicità. Le labbra sono due o sono una? Oppure un’infinita serie di punti che compongono ciò che noi chiamiamo labbra. Che direzione hanno le labbra? Hanno una larghezza, una lunghezza, una profondità? Quali coordinate deve avere questa molteplicità perché si possa dire “labbra”? E a che cosa servono le labbra? A parlare, a respirare, a mangiare, a baciare, a succhiare, a stringere, a curare, a fare una smorfia di disgusto, a proteggere, a chiudere, a lasciare intravedere, ad aprirsi, a schiudersi, a essere leccate, a mantenere l’umidità, la mucosità, la cremosità.

Tra i primi passi nel divenire, attraverso cui secondo Deleuze e Guattari anche le donne devono passare, vi è il divenire-donna. La lesbica, tuttavia, si sta già muovendo verso qualcos’altro, un altro divenire. 

«Questo perché non sono due, sono sempre e comunque una e più di una, un’alleanza innaturale perché due singolarità insieme che non sono dialettiche ma non sono le stesse. Esse sono lo spazio in mezzo. I divenire sono prossimità. Essere in prossimità con una stessa che non è la stessa (cioè, una donna che non è una donna perché “lei” non è opposta a un uomo) crea un’alleanza particolarmente amorfa».3434Chrysanthi Nigianni (a cura di), Deleuze and queer theory, Edinburgh University Press, 2009, p. 139.

Un’alleanza amorfa (o amor-fica). 

Sono partita dal cannibalismo come mito fondativo dell’essere umano, nel senso proprio di essere (verbo all’infinito) umano, ciò che determina l’umano, che mangia solo ciò che è altro-da-umano. Si può quindi riflettere su come l’eteronormatività naturalizzata imponga come un essere-umano deve mangiare sessualmente/d’amore solo ciò che è altro-da-sé. Ecco che, riprendendo Monique Wittig, la lesbica non è una donna,3535Monique Wittig, One is not born a woman, in Henry Abelove, Michele Aina Barale, David M. Halperin (a cura di), The lesbian and gay studies reader, 1993, pp. 103-109.
ma non è neanche un uomo. Che essere è? Che essere è una creatura che si ciba del liquido di due labbra che si schiudono, di una vulva che si offre?

La testa della creatura si abbassa su di te offerente, sei tra i suoi denti, avvolgi la sua lingua, la tua pelle è tesa come un tamburo, in un istante tra la vita e la morte, il contatto visivo non si interrompe, ed ecco generarsi l’alleanza, lo sguardo del nemico con la sua preda, guerrigliera che guarda guerrigliera, lei si riconosce nel tuo sguardo, ti vedi in quell’abisso di iride mentre sconfini i limiti della tua pelle, in divenire, il divenire-animale che è divenire-lesbica, in cui non sei né uomo né animale, né maschio né femmina, e tu sei il nemico, sei lei, in un’alleanza che non produce filiazione,3636Deleuze, Guattari, cit., p. 340.
non produttiva, ma di contagio, un rizoma di lacrime di luna. Rendere l’impossibile possibile, sconfinare insieme, lei nel mangiarti, tu nell’essere mangiata, in divenire. Perché se il divenire non è un orgasmo, allora non so cos’è. Ma non un orgasmo come fine. Un orgasmo tra altri orgasmi. 

«Divenire-animale-vegetale-impercettibile richiede nient’altro che la percezione di branco ultraterreno di un’altra forma. Difesa che richiede una funzione di spostamento del territorio senza risoluzione. E il queer infetta e recluta per spostare i piani del desiderio necessariamente per cambiare dialettica, forme e soggetti ancorati al genere, alla sessualità, al desiderio e alla demarcazione tra desiderio come sessualità e “tutto il resto”, tra sacro e profano, sessuale e secolare, l’atto/oggetto e i flussi».3737Nigianni, cit., p. 148.

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di Bianca Arnold
  • Bianca Arnold è un'artist* visuale specializzat in queer Studies. Nel 2017 ha partecipato come volontari* al Chelsea Film Festival a New York City. Ha vissuto un periodo presso la comunità indigena Kitchwa di Salasaka, sulle Ande. Ha studiato Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali presso l’Università di Bologna. Nel 2020 si è iscritta al Centro Studi sull’Etnodramma, Scuola di Cinema Documentario Etnografico, presso Padova. Con i suoi lavori ha partecipato al Festival di Fotografia Europea a Reggio Emilia, al Festival di Fotografia di Ferrara e nel 2021 ha realizzato la sua prima mostra personale presso Green Whale Space a Bologna. Nel 2023 ha conseguito una laurea magistrale in "Gender Studies and Woman Literature", doppio titolo tra l’Università di Granada e l’Università di Bologna, con una tesi sul desiderio nel tardo capitalismo. Ha esposto a Londra, Budapest, Torino, Bologna, Reggio Emilia e Ferrara. Ha pubblicato Pangea, raccolta di racconti.
Bibliography

Henry Abelove, Michele Aina Barale, David M. Halperin (a cura di), The lesbian and gay studies reader, 1993.

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Eduardo Viveiros De Castro, Cannibal metaphysics, University of Minnesota Press, 2015.

Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, 2021.

Ettore Finazzi-Agrò, Maria Caterina Pincherle (a cura di), La Cultura Cannibale Oswald de Andrade, da Pau-Brasil al Manifesto Antropofago, Meltemi, Sesto San Giovanni, 1999.

Mark Fisher, Capitalist realism: Is there no alternative?, John Hunt Publishing, 2022.

Nancy Fraser, Cannibal Capitalism: How our System is Devouring Democracy, Care, and the Planet, and What We Can Do About It, Verso Books, London, 2022.

bell hooks, Gigi Durham Meenakshi, Eating the other: desire and resistance, in Black Looks: Race and Representation, «South End Press», 21, Boston, 1992.

Luce Irigaray, Carolyn Burke, When our lips speak together, «SIgNS: Journal of Women in culture and Society», 6.1, 1980.

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Chrysanthi Nigianni (a cura di), Deleuze and queer theory, Edinburgh University Press, 2009.

Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 2012.