L’interiorizzazione dell’eteropatriarcato
Il 16 settembre 2021, durante la trasmissione televisiva Forum, in onda su Canale 5, la giornalista e conduttrice Barbara Palombelli introduce le due parti in causa della puntata facendo riferimento ai sette casi di femminicidio avvenuti in Italia nei giorni precedenti. La sua riflessione si conclude con una domanda che, nel giro di poche ore, rimbalza in rete e sui principali quotidiani nazionali, innescando un caso mediatico che diventa oggetto di critiche anche da parte di diversi e noti esponenti della politica. Palombelli dichiara a proposito degli omicidi: «A volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati, oppure c’è stato un comportamento esasperante, aggressivo anche dall’altra parte?».
Sebbene Palombelli abbia risolutamente smentito le accuse di victim blaming che le sono state rivolte contro, con la difesa di per sé poco probante di essere stata a sua volta vittima di un fraintendimento e di una «diffamazione senza precedenti», le sue parole aderiscono di fatto alle modalità attraverso le quali in Italia i mass media rappresentano l’immagine femminile in relazione ai casi di violenza di genere che riguardano le donne. Come rilevato da Loredana Lipperini e Michela Murgia,11Loredana Lipperini, Michela Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso!, Laterza, Bari, 2013.
nel raccontare il femminicidio gran parte della stampa italiana deresponsabilizza sistematicamente l’azione omicida dell’uomo, presentandola come estrema e inevitabile conseguenza di un atto o di un comportamento scaturito dalla vittima: il femminicidio assume così i connotati di un delitto d’impeto passionale dovuto a un raptus, alla gelosia, a un episodico scatto d’ira, o a una fatale condizione depressiva, occultandone in questo modo la matrice culturale.
Prima di arrivare a conclusioni, porto all’attenzione un secondo caso, solo apparentemente irrelato. Alcuni mesi prima, nel marzo 2021, la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi sale sul palco del settantunesimo Festival di Sanremo ribadendo pubblicamente di voler essere chiamata “direttore”, in luogo di “direttrice” (sebbene in italiano la forma al femminile sia ampiamente attestata22“Direttrice d’orchestra” compare già tra i termini consigliati da Alma Sabatini nelle sue linee guida redatte nel 1987.
), perché – cito testualmente – «per me quello che conta, in realtà, è il talento con cui si svolge un determinato lavoro; quindi la posizione, il mestiere ha un nome preciso, e nel mio caso è quello di “direttore d’orchestra”». Anche in questo caso, la dichiarazione di Venezi ci mette di fronte a una questione di natura culturale e sociale: l’uso dell’agentivo maschile, in luogo del femminile, nei nomi di professione correlati a una carica di prestigio, viene percepito socialmente e culturalmente come più autorevole, in virtù del fatto che tali professioni siano tradizionalmente associate a soggettività di sesso maschile.
Decodificati nella loro natura di sintomo, i due casi – di Palombelli e di Venezi – mi sembrano entrambi riconducibili alla medesima matrice sessista – in questi esempi, penso più interiorizzata che non rivendicata – su cui si fonda il sistema eterocispatriarcale e maschilista in cui viviamo.
L’eteropatriarcato è un sistema sociale e culturale in cui il potere, l’autorità, il privilegio sociale e il controllo dei beni materiali sono prevalentemente concentrati nelle mani di un unico soggetto: il maschio cisgender ed eterosessuale. Gli effetti tangibili con cui questo sistema relega le soggettività femminili a un ruolo di subalternità, in ambito sia personale che pubblico, sono molteplici: disparità delle condizioni sociali, culturali ed economiche (gender gap), elevato numero di femminicidi (oltre 80 vittime in Italia dall’inizio del 2021), divario retributivo di genere, tassi di occupazione femminile più bassi rispetto alla controparte maschile, nonché naturalmente tutta una serie di discriminazioni dirette e indirette, frutto di pregiudizi e stereotipi di genere consolidati, che colpiscono le donne in società, in famiglia, sul lavoro e sui media.33È vero altresì che i pregiudizi e gli stereotipi di genere colpiscono e creano un danno anche per gli uomini, incasellati in un preciso standard di maschilità contraddistinto da rigidi modelli di comportamento. Si veda in proposito l’articolo pubblicato da Yari Carbonetti su «Il Tascabile» nel giugno 2021.
Non solo donne. L’eteropatriarcato, infatti, fonda le sue premesse su un rigido binarismo che investe le sfere del sesso, del genere e dell’orientamento sessuale, classificando gerarchicamente i corpi in coppie di opposti (maschio-femmina, uomo-donna, eterosessuale-omosessuale), in cui il primo termine detiene sempre il primato e il monopolio sul secondo. La società normocentrica e maschiocentrica in cui viviamo colloca tutto ciò che sta al di là della “norma binaria” in una posizione di subalternità, quando non persino di completa invisibilizzazione sociale (come nel caso delle soggettività transgender, intersessuali e queer di cui parlerò più avanti). Allargando ulteriormente la prospettiva, la marginalizzazione e la discriminazione del “diverso” investono le identità non soltanto in riferimento alle questioni di genere, ma anche sulla base di altri fattori quali l’etnia, la disabilità, il peso, l’età o particolari condizioni socioeconomiche.
Scuola fucina di inclusività
In questo momento storico, possiamo ragionevolmente affermare di stare assistendo in Italia a una rinnovata ed energica attenzione al tema dell’inclusività, anche al di fuori del ristretto ambito accademico in cui il dibattito, sino a qualche anno fa, era confinato. Lo testimoniano, per esempio, l’ancora attualissima discussione sul linguaggio inclusivo44Fondamentale in questa direzione il lavoro svolto negli ultimi anni da Vera Gheno per la ricerca di una soluzione linguistica inclusiva e rappresentativa delle persone non binarie.
– sulla quale, il 24 settembre scorso, si è espressa l’Accademia della Crusca con un intervento di Paolo D’Achille – e una sempre più elevata incidenza del tema, rispetto agli anni passati, sui nostri mass media (al punto da aver reso comune nel dibattito pubblico un’espressione ostile come «dittatura del politicamente corretto»55A proposito del rapporto tra politically correct e cancel culture in Italia, si veda l’articolo pubblicato da Fabio Avallone su «Valigia Blu» nel maggio 2021.
).
Tuttavia, prima di arrivare a catalizzare l’attenzione dei media mainstream, in Italia il tema dell’inclusività ha avuto (e ha tuttora) un luogo elettivo per la sua diffusione: parliamo della scuola, dove la cultura dell’inclusione e del rispetto delle differenze ha messo radici già da diverso tempo.
Principio fondamentale dell’istituzione scolastica è quello di garantire le medesime opportunità educative a tutti gli alunni, fornendo adeguati strumenti di crescita culturale, psicologica e sociale. La scuola è il luogo in cui la persona costruisce la propria identità attraverso l’incontro e l’interazione con l’altro.
Oggi diamo ormai per acquisito che l’applicazione di uno standard educativo insensibile alle differenze sia obsoleto per una società ipercomplessa come la nostra e per un mondo scolastico che pone sempre più enfasi sulla personalizzazione dei percorsi educativi. Chi vive il mondo della scuola sa che nel corso degli ultimi vent’anni il sistema scolastico italiano ha compiuto enormi passi in avanti in materia di inclusione.66Per una ricostruzione accurata dei principali procedimenti legislativi in materia di inclusione scolastica in Italia si rimanda alla visione di questo video. In questa sede, coerentemente con i propositi dell’articolo, ci si limita a esplicitare che la legge italiana e la normativa europea prevedono l’educazione alle differenze, con particolare riguardo alle questioni relative alla parità di genere. In Italia, la legge 107/2015 (la “Buona Scuola”) varata dal governo Renzi recita all’articolo 1, comma 16: «Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013 […]». Ancora nel 2015, sono pubblicate le Linee guida nazionali “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”. In ambito europeo, la Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 22 maggio 2018 recita al paragrafo 6: «Il rispetto dei diritti umani, base della democrazia, è il presupposto di un atteggiamento responsabile e costruttivo. La partecipazione costruttiva […] comprende il sostegno della diversità sociale e culturale, della parità di genere e della coesione sociale, di stili di vita sostenibili, della promozione di una cultura di pace e non violenza, nonché della disponibilità a rispettare la privacy degli altri e a essere responsabili in campo ambientale».
Diversamente dal precedente (e superato) concetto di integrazione, che con la sua prospettiva biomedica focalizzava l’attenzione sulla necessità di attuare misure compensative per favorire la partecipazione e il coinvolgimento di alunne e alunni affetti da forme di disabilità, il concetto di inclusione – meglio ancora quello di inclusività – estende il suo raggio d’azione all’intero gruppo classe, concepito nei termini della sua ricchezza, varietà e complessità, e mette al centro dell’azione educativa i bisogni di tutti – nessun soggetto escluso. In questa prospettiva, la diversità – fisica, psichica, motoria, di genere, etnica, culturale ecc. – non è più considerata nei termini dei suoi limiti ma in quelli delle sue potenzialità, attraverso un’azione di valorizzazione delle differenze finalizzata al mantenimento della coesione sociale e al contrasto di pregiudizi, stereotipi e discriminazioni.
Tutto ciò, da solo, non basta, come ci viene confermato dai numerosi episodi di razzismo, abilismo e omofobia diffusi nel mondo scolastico, di cui sono protagonisti non soltanto gli alunni ma spesso anche i docenti. Tuttavia, con questo articolo, intendo porre le basi per una futura strategia educativa atta a garantire l’inclusione scolastica dei soggetti tradizionalmente esclusi e invisibilizzati dalla società eteropatriarcale. A tal fine, più che di “inclusione”, sarà opportuno parlare – come suggerisce Fabrizio Acanfora – di “convivenza delle differenze” (o delle “unicità”). Scopo dell’articolo è di porre anche in Italia le basi teoretiche per una futura pedagogia queer che possa diventare strumento inclusivo per educare al rispetto delle diversità e al progressivo abbattimento delle visioni essenzialiste correlate all’identità. Per raggiungere questo obiettivo, prenderò le mosse dalle ricerche condotte dall’educatore brasiliano Paulo Freire sulla cosiddetta “pedagogia degli oppressi”, per poi delineare la pedagogia queer come pedagogia anti-oppressiva in grado di accogliere le istanze dell’intersezionalismo e di guidare la lotta per l’emancipazione di tutte le soggettività.
Oppressi e oppressori: la pedagogia rivoluzionaria di Paulo Freire
L’esperienza pedagogica svolta sul campo da Freire ha inizio nel 1962, nel nordest del Brasile – regione che ancora oggi presenta il tasso più elevato di analfabetismo di tutta la nazione. Nella cittadina di Angicos, in appena 45 giorni, più di trecento lavoratori imparano a leggere e a scrivere grazie al metodo sperimentale di Freire e del suo movimento. Questo enorme successo spinge l’allora governo brasiliano a dare avvio a un progetto di alfabetizzazione su scala nazionale, che avrebbe dovuto portare in 12 mesi all’alfabetizzazione di 6 milioni di cittadini, e che fu invece interrotto da un golpe militare contro la “minaccia comunista” incarnata dal presidente Goulart, portando a ventuno successivi anni di dittatura.
In che cosa consiste il “metodo Freire”? Rivolto agli adulti analfabeti della nazione, l’approccio del pedagogista segna in Brasile un punto di svolta rispetto alla tradizionale visione dell’educazione come mera trasmissione depositaria del sapere. In qualsiasi società, il sapere, in mano alle élite dominanti, viene da queste governato e utilizzato, in rapporto dialettico con le classi dominate, come strumento di potere e oppressione, e per tenere sotto scacco l’emersione di ogni possibile forma di coscienza critica e collettiva:
«Penso che, anche quando la complessità delle società altamente modernizzate dal punto di vista capitalista – anche quando questa complessità esige strumenti di analisi raffinati e sempre più raffinati –, arrivi un momento nel quale durante l’analisi stessa ci si trova davanti alla dialettica oppresso-oppressore, si arriva al momento in cui ci si trova di fronte a una classe che chiamiamo “dominante” e a una “dominata”, di fronte alla cultura dominante e alla cultura dominata, al linguaggio che domina e al linguaggio che è dominato. E questo accade indipendentemente dalla complessità della società».88Dall’intervista a Paulo Freire presente su RaiScuola.
La logica dell’oppressore, sostenuta da un modello educativo depositario e trasmissivo atto a garantire il mantenimento dei privilegi e dello status quo, impedisce ai soggetti oppressi di divenire soggetti coscienti e, quindi, di liberarsi. Tutto questo, nel Brasile semianalfabeta degli anni ’60,99Parliamo di una popolazione di circa 25 milioni di abitanti di cui 15 milioni analfabeti.
si traduce in una inevitabile estromissione della maggior parte dei cittadini dalla vita politica e sociale del Paese. È per questo motivo che Freire, insieme al suo movimento, desidera ridare la parola ai “dannati della terra”, agli ultimi, agli oppressi e agli “straccioni”.1010Con questa dedica si apre il volume La pedagogia degli oppressi, pubblicato in Italia nel 1971: «Agli straccioni nel mondo e a coloro che in essi si riconoscono e così riconoscendosi con loro soffrono ma soprattutto con loro lottano».
Ed è a loro che nel capolavoro Pedagogia del oprimido (1970) rivolge una nuova visione – insieme esperienziale e compartecipata – della pedagogia.
La proposta di Freire si fa avanti come un’educazione “problematizzante”, vale a dire un’educazione che pone il soggetto in rapporto cosciente e intenzionale con il mondo, contribuendo a sviluppare la sua agency. Attraverso il confronto collettivo e il dialogo, chi educa restituisce a chi è educato la visione di una realtà che non è statica e immutabile ma dinamica, una realtà che si presenta come processo in divenire, il quale può essere sovvertito, cambiato, trasformato in meglio: nient’altro che «l’educazione come pratica di libertà», per riprendere il titolo del volume che Freire pubblicherà, più avanti, nel ’74.
In questa prospettiva, restituire la parola agli ultimi non significa semplicemente dotarli degli strumenti per leggere, scrivere e far di conto, ma creare le condizioni psicologiche per far maturare in loro la coscientizzazione. Nella Prefazione alla prima edizione italiana del volume leggiamo infatti queste parole della curatrice Linda Bimbi:
«L’originalità del “metodo Paulo Freire” non risiede solo nell’efficacia dei metodi per alfabetizzare, ma soprattutto nella novità dei suoi contenuti per “coscientizzare”. Non si tratta solo di fornire all’adulto emarginato una tecnica nuova e superiore di comunicazione (lettura e scrittura). Si tratta di farlo passare a una nuova coscienza della sua situazione e della sua possibilità di liberarsene».1111Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2004, p. 14.
La coscientizzazione, principio fondamentale e ultimo della pedagogia di Freire, si realizza mediante il disvelamento di una nuova visione del mondo, prendendo cioè consapevolezza della propria condizione di soggettività oppressa e agendo in maniera volontariamente sovversiva, guidati dalla capacità creatrice della coscienza “liberata”, per ottenere la completa emancipazione di sé e dell’oppressore. Infatti, solo «gli oppressi, liberandosi, possono liberare gli oppressori», ed è in questo senso che la coscientizzazione non va equiparata a un processo che riguarda esclusivamente individualità singole, isolate, ma si riflette su un’intera comunità partecipe – con ruoli diversi – di una medesima situazione oppressiva: ci si coscientizza insieme, non separatamente gli uni dagli altri.
Per gli oppressi, il passaggio dalla coscienza alienata alla coscienza critica avviene attraverso la verbalizzazione del contenuto come problema, nella ricerca di quello che Freire definisce come il “tema generatore”, ovvero l’argomento educativo percepito dalla comunità come urgente e su cui attuare una strategia collettiva di risoluzione che passa necessariamente dal confronto e dal dialogo. In questo senso, quella di Freire può essere considerata a buon diritto come una metodologia educativo-dialogica fondata sulla parola“…quella di Freire può essere considerata a buon diritto come una metodologia educativo-dialogica fondata sulla parola”, intesa non nella sua forma astratta, ma come agire, come strumento generativo per sovvertire e trasformare le strutture di pensiero e il mondo. Quest’ultima posizione mi sembra per certi versi conciliabile con quell’analisi, nota come “Ipotesi Sapir-Whorf”, che vede il linguaggio umano come strettamente correlato allo sviluppo del pensiero, in quanto strumento di organizzazione della percezione e della classificazione della realtà. E sarebbe interessante indagare possibili connessioni tra l’attenzione rivolta da Freire al linguaggio, alla parola agita, e quella svolta linguistica (linguistic turn) precedentemente diffusa in filosofia nelle opere di pensatori occidentali come Wittgenstein, Moore e Russell.
Completato questo excursus, resta un quesito: che cosa ce ne facciamo della pedagogia di Freire quando parliamo di comunità queer?
La coscientizzazione della comunità queer
«La libertà è una conquista, non un’elargizione». (Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi)
Prima che la comunità LGBTQIA+ se ne riappropriasse risemantizzandolo, il termine “queer” fu utilizzato, durante quasi tutto il XX secolo, in senso spregiativo per indicare le persone non eterosessuali (con un significato corrispondente all’italiano “frocio”, “deviato”, “invertito”). È nel corso degli anni ’80, negli Stati Uniti in piena pandemia di AIDS, che il termine comincia a essere rivendicato dai movimenti attivisti, perdendo il suo valore di insulto e assumendo una connotazione specificamente politica. Nel 1990, due eventi contribuiscono a diffondere il termine su scala internazionale: in ambito sociale, la nascita del movimento newyorchese Queer Nation, che si prefigge lo scopo di dare maggiore visibilità alla comunità LGBTQIA+ e di contrastare l’omofobia dilagante negli Stati Uniti dell’epoca; mentre in ambito accademico, la conferenza tenuta da Teresa De Lauretis all’UC Santa Cruz,1212Che l’anno successivo, nel ’91, darà seguito al celebre articolo Queer theory. Gay and lesbian sexualities, pubblicato su «Differences».
dove espone per la prima volta i princìpi della “teoria queer”, che molto deve agli studi femministi e alle riflessioni condotte sul corpo e sul genere dal Sessantotto in avanti. Nel ragionamento di De Lauretis, sono tre le implicazioni specifiche connaturate al significato del termine queer:
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il rifiuto del regime eteronormativo, che eleva l’eterosessualità a norma unica della sessualità, considerando tutti gli altri orientamenti come deviazioni dalla norma;
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il superamento della visione binaria della sessualità gay e lesbica come modalità esclusiva per considerarle;
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l’importanza della componente “razziale” nella costruzione delle soggettività sessuali.
Proponendo una visione dell’identità di genere come costruzione storica, simbolica e sociale, la teoria queer si pone come metodo di critica all’essenzialismo biologico. Attraverso la lente dell’intersezionalità, il queer rifiuta la rappresentazione del soggetto come statico, unitario e isolato rispetto agli altri posizionamenti identitari (per esempio, l’etnia, la classe sociale, la disabilità ecc.), per indagare e chiarire i modi in cui forme di discriminazione distinte spesso si intrecciano e agiscono sul medesimo soggetto.
Come nota a ragione Marco Pustianaz, in Italia la teoria queer arriva come prodotto di importazione, sebbene non manchino, soprattutto nel corso degli anni ’70, diversi importanti riferimenti per certi versi anticipatori delle questioni sollevate nell’ambiente angloamericano:
«Così come nei paesi anglofoni, anche in Italia gli anni Settanta videro la fioritura di una stagione di pensiero e di attivismo rivoluzionario, sia con il movimento femminista che con il movimento gay, lesbico e trans. […] Se si rileggono con attenzione alcuni dei testi degli anni Settanta (per esempio Mario Mieli o Carla Lonzi) è facile vedere come l’accento sulla soggettività omosessuale o delle donne andasse di pari passo con il tentativo di arricchire quell’affermazione apparentemente identitaria con un’ampia molteplicità di livelli di analisi, da quelli più personali e apparentemente meno politici, a quelli tradizionalmente considerati di rilievo pubblico e sociale».1313Marco Pustianaz, Prefazione. Queer, qui e ora, in Aa. Vv., Queerdo. Antologia di studi di genere, KABUL Editions, Torino, 2018.
Mentre sul piano dell’attivismo politico, gli ultimi anni hanno visto la comunità queer italiana avviare un’azione di progressivo affrancamento dalla cultura LGBT mainstream, la quale continua, da sola, a catalizzare l’attenzione dei media nazionali. La comunità queer ha così accolto, anche nel nostro Paese, le istanze e le rivendicazioni transfemministe nella lotta per l’emancipazione di tutte le soggettività oppresse (non parliamo quindi soltanto di persone LGBTQIA+, ma anche di migranti, richiedenti asilo, persone razzializzate, con disabilità fisiche e mentali ecc.). Possiamo pertanto inferire che la comunità queer, grazie all’azione congiunta di associazioni, collettivi e centri sociali, abbia finalmente avviato in Italia la propria coscientizzazione, e sia riuscita a ritagliarsi un proprio spazio di rappresentazione e visibilità nelle principali piazze italiane.1414Si pensi al Free-k Pride (Torino), a Marciona (Milano), al Rivolta Pride (Bologna) e alle Slut Walk che si sono tenute nel giugno 2021 a Torino, Firenze, Bologna, Rimini, Palermo e Milano.
Essere invisibili, in una società, equivale a non esistere.
Stando a quanto detto finora e riportando l’attenzione su Freire, a questo punto è possibile sottoporre la pedagogia degli oppressi, che apre la strada per la loro emancipazione attraverso strumenti atti a indagare e decostruire le strutture di potere, a un esercizio di queerizzazione:1515Nella pedagogia di Freire la questione della lotta di classe è imprescindibile e centrale. Così, per i movimenti attivisti queer la liberazione dall’oppressione coincide con la sovversione e la fine del capitalismo, da cui dipendono appunto disuguaglianze sociali e violenze. Una visione interessante e ancora più radicale è quella proposta da Federico Zappino in Comunismo Queer (Meltemi, 2019), laddove fa coincidere la lotta per la fine del capitalismo con la sovversione dell’eterosessualità, considerata «come modo di produzione che precede e informa quello capitalistico e che, pertanto, è destinato tranquillamente a sopravvivergli, nel caso in cui il superamento del capitalismo non fosse preceduto da una sovversione dell’eterosessualità stessa» («OperaViva», 18 aprile 2019).
«La pedagogia di Freire consente di ascoltare le voci emarginate della comunità LGBTQIA+, le cui vite sono state messe a tacere. I codici culturali che ci definiscono sono stati costruiti in modo storico, culturale, discorsivo e relazionale. Utilizzo qui il termine “queerizzare” per abbattere queste ambigue e complesse costruzioni, concependo il soggetto come agente che trasforma e trasgredisce […]. Queerizzare le esperienze dei gruppi oppressi significa pertanto decostruire, reinventare e infrangere la posizione del soggetto, allo scopo di potenziare e trasformare questi gruppi ben oltre una visione eteronormativa, patriarcale e colonizzata […]. È in questo modo che possiamo decostruire i binari delle identità uomo/donna, etero/omo, bianco/meticcio, europeo/meridionale».1616Traduzione mia. Il riferimento è: Manuel López Pereyra, Queering Freire’s Pedagogy: Resistance, Empowermennt, and Transgression in Teacher Training, in Moira Pérez e Gracia Trukillo-Barbadillo (eds.), Queer Epistemologies in Education, Palgrave Macmillan, London, 2020, p. 55.
Le condizioni storiche, sociali e politiche dei lavoratori analfabeti del Brasile degli anni ’60 non sono naturalmente paragonabili a quelle in cui vive oggi la comunità queer (perlomeno in Occidente). Ciononostante, forme di dominio e pratiche di esclusione continuano ancora oggi a essere perpetuate in forma tangibile anche nei confronti della comunità queer. Nello specifico, le soggettività che non rientrano nei rigidi parametri del binarismo di genere, su cui si fonda la società eteropatriarcale, vanno incontro a una strategia di oppressione – sul piano sia fisico che psicologico – che si esprime attraverso la discriminazione, il bullismo, l’emarginazione sociale, l’esclusione dal mercato del lavoro, quando non persino – negli Stati in cui la comunità LGBTQIA+ è perseguitata – con l’incarcerazione, la tortura e la pena di morte.1717A proposito di violenza sistemica contro la comunità LGBTQIA+, una delle notizie più inquietanti degli ultimi anni riguarda le cosiddette “purghe antigay” del presidente ceceno Ramzan Kadyrov. Accusato nel 2017 da «Novaja Gazeta» di aver aperto un campo di concentramento e di tortura per uomini omosessuali, nel 2019 Kadyrov torna nuovamente sotto i riflettori dei mass media internazionali, a seguito della testimonianza di alcuni uomini sfuggiti alle sue persecuzioni. È interessante notare la strategia difensiva di Kadyrov, il quale non ha mai negato di avere aperto un campo di concentramento. Attraverso le parole riportate dal suo portavoce, Kadyrov si è invece difeso dalle accuse arrivando persino a negare l’esistenza stessa di persone omosessuali in Cecenia: «Non si possono perseguitare o reprimere coloro che semplicemente non esistono in Cecenia». Che cos’è questa, se non oppressione mediante violenza e invisibilizzazione?
Prendendo qui in considerazione le sole democrazie occidentali contemporanee, una delle strategie oppressive più diffuse a livello sistemico è l’invisibilizzazione, che colpisce particolarmente le soggettività non incorporate e cooptate dal sistema capitalistico nelle strategie1818Con questa espressione ci riferiamo a un insieme di azioni e strategie di comunicazione e marketing, utilizzate nel mondo dell’industria e dell’impresa, allo scopo di promuovere apparentemente le istanze LGBTQIA+ per acquisire consenso sociale. In realtà, come messo in evidenza da più commentatori, tali strategie, che nascono a scopo autopromozionale, si rivelano spesso strumentali e persino contraddittorie con le stesse politiche finanziarie adottate da queste realtà.
di rainbow washing. L’invisibilizzazione non riguarda tanto le identità sessuali omonormate (persone omosessuali bianche, di classe media, cisgender), apparentemente supportate dal mercato nella lotta per l’emancipazione, quanto piuttosto le soggettività non (ancora) normativizzate dalla cultura mainstream, le quali vengono trattate come qualcosa “di meno”, come individualità meno umane, disumanizzate.
Essere invisibili, in una società, equivale a non esistere. E l’invisibilizzazione delle persone queer agisce su molteplici piani, producendo esiti differenti. Alcuni esempi, guardando alla situazione italiana, sono: l’assenza di leggi a tutela dei minori intersessuali, sottoposti in età perinatale alla mutilazione genitale, mediante consenso dei genitori – una forma, questa, di medicalizzazione che vìola ogni principio di autodeterminazione dell’individuo; la reiterata svalutazione, nel dibattito pubblico, delle questioni concernenti la visibilità delle persone non binarie; la mancanza di una strategia nazionale per favorire le persone transessuali e transgender nell’accesso al lavoro; il contrasto di leggi volte a sanzionare e prevenire atti di violenza nei confronti della comunità (si vedano in proposito gli oltre mille emendamenti presentati in Senato nel mese di luglio per affossare la legge Zan); le difficoltà burocratiche nel riconoscere lo status di rifugiati alle persone migranti LGBTQIA+; la mancanza di leggi di tutela per i figli delle “famiglie arcobaleno” ecc.
Stando così le cose, queerizzare la pedagogia di Freire significherà pertanto porre la ricerca e la piena acquisizione della coscientizzazione quali presupposti necessari e fondativi, per la comunità queer, per uscire dalla condizione di subalternità e ripristinare così la propria umanità sottratta.
In questo senso, coscientizzazione diventa creazione di una coscienza critica autentica e collettiva“…coscientizzazione diventa creazione di una coscienza critica autentica e collettiva”, rivolta tanto a ciò che sta fuori di sé, quanto a ciò che sta dentro: è autocoscienza critica disposta all’agire collettivo per sovvertire lo stato di oppressione. Coscientizzazione come sovversione culturale. Coscientizzarsi significa agire per autodeterminarsi in un contesto disciplinare ed eteronormato, e vedere i tentativi che questo contesto sociale compie per normativizzare e disciplinare i corpi per quello che realmente sono: trappole mortali, ingannevoli giochi di prestigio in cui l’oggetto che sparisce tra le abili mani dell’illusionista è il soggetto.
La coscientizzazione pone in luce le strategie di potere impiegate dal maschio bianco cis eterosessuale per la conquista dell’egemonia culturale, mettendo in crisi il suo modello di maschilità. E diversamente da ciò che gli oppressori intendono farci credere, questo modello di maschilità non è l’unico socialmente concepibile. La coscientizzazione deve pertanto avvenire nella nostra storia contemporanea come momento di agnizione. Nel colpo di scena finale vedremo il personaggio queer coscientizzato sfuggire al controllo coercitivo del suo narratore, che presumeva di essere onnisciente e governare il corso della sua storia (e della Storia).
Anche in questo caso, però, la liberazione non potrà riguardare i soli soggetti oppressi ma anche, necessariamente in rapporto dialettico, i loro oppressori:
«La disumanizzazione, che non si verifica solo in coloro che si vedono rubare la loro umanità, ma anche in quelli che la rubano, seppure in maniera differente, è una distorsione della vocazione a essere di più. È una distorsione possibile nella storia, ma non è una vocazione storica. […] La violenza degli oppressori, che disumanizza [gli oppressi], non instaura un’altra vocazione, quella di “essere di meno”. L’essere di meno, come distorsione dell’essere di più, porta gli oppressi a lottare, prima o poi, contro coloro che li hanno resi “di meno”. Tale lotta ha senso solo quando gli oppressi, cercando di recuperare la loro umanità (il che è un modo di crearla) non si sentono ideologicamente oppressori degli oppressori, e non lo sono, di fatto, ma divengono restauratori dell’umanità degli uni e degli altri. Ecco il grande compito umanista e storico degli oppressi: liberare sé stessi e i loro oppressori».1919Freire, cit., p. 28.
Per la comunità queer occidentale, la lotta contro la disumanizzazione si esprimerà quindi come lotta contro l’invisibilizzazione di tutte le soggettività oppresse, discriminate e razzializzate dalla società patriarcale: donne, migranti, persone con disabilità, persone non binarie ecc. E la lotta dovrà scongiurare ogni possibile tentativo di normativizzazione e incorporazione da parte della cultura dominante. Anche in questo caso l’integrazione, infatti, non è una via percorribile perché, come ricorda Freire:
«In quanto emarginati, “esseri fuori di”, o “al margine di”, la soluzione per [gli oppressi] sarebbe “integrarsi”, incorporarsi dentro la società sana da cui un giorno sono partiti, rinunciando, come disertori, a una vita felice… La soluzione per loro sarebbe abbandonare la condizione di “essere fuori di” e assumere l’altra di “essere dentro di”. In verità però, i cosiddetti emarginati, che sono gli oppressi, non sono mai stati “fuori di”. Sono stati sempre “dentro di”. Dentro la struttura che li trasforma in “esseri per l’altro”. La loro soluzione allora non consiste nell’“integrarsi”, nell’“incorporarsi” dentro questa struttura che li opprime, ma nel trasformarla per divenire “esseri per sé”».2020Freire, cit., p. 61.
Anche per la comunità queer la “convivenza delle unicità” di Acanfora rappresenta pertanto un modello più auspicabile rispetto a quelli dell’integrazione e dell’inclusione, i quali – ricordiamo – presuppongono un rapporto squilibrato tra un soggetto dominante che “sceglie di integrare o includere” e un soggetto dominato che, in modo inerte, “viene integrato o incluso”. La convivenza delle unicità – espressione di un cambiamento culturale paradigmatico – non dovrà naturalmente risolversi nella semplice e acritica celebrazione delle differenze e delle diversità, ma dovrà essere accolta dalla pedagogia queer radicale allo scopo di smantellare tutte le forme di oppressione inestricabilmente connesse tra loro.
Il luogo di elezione di questo ambizioso progetto di rivoluzione culturale sarà senza dubbio la scuola. Portare la pedagogia queer nel sistema-scuola significherà trasformare in prassi la consapevolezza del rispetto di ogni diversità, ridare visibilità, all’interno della classe, ai soggetti oppressi, e liberare gli attuali processi di insegnamento-apprendimento dalle loro rigide strutture eteropatriarcali ed eterosessiste: sono queste le precondizioni necessarie per cominciare a pensare alla scuola come a un luogo di sicurezza e di affermazione per tutte le soggettività.
Elementi di didattica queer
«L’insegnamento è uno spazio di resistenza, di potenziamento e di trasgressione, che può trasformare la nostra società».3737Pereyra, cit., p. 62. Trad. mia.
(Manuel López Pereyra)
Uno dei primi luoghi in cui l’identità della persona si confronta (e si scontra) con i modelli sclerotizzati della nostra società è appunto la scuola. Questo spazio, che sulla carta dovrebbe essere un luogo sicuro, inclusivo e di accoglienza per tutti i soggetti, si rivela spesso teatro di incomprensioni, discriminazioni, forme di emarginazione e violenze.
In Italia, il bullismo a sfondo omofobico è ancora molto diffuso negli ambienti scolastici e assume la forma di insulti, minacce, veri e propri casi di ostracismo e aggressioni fisiche e psicologiche ai danni soprattutto di adolescenti maschi omosessuali o comunque con comportamenti e modi di fare percepiti dal branco come non conformi allo standard di maschilità culturalmente acquisito. Nello specifico, nota Giuseppe Burgio che il bullismo omofobico è «incentrato sull’interazione tra le categorie di maschilità, adolescenza ed eteronormatività, elementi che si saldano tra di loro in un complesso dispositivo di vittimizzazione che trova nella scuola il suo naturale contesto di dispiegamento».2121Giuseppe Burgio, Una violenza normale. Maschilità, adolescenza, omofobia, «Education Sciences & Societies», 2, FrancoAngeli, 2020.
Sotto questa lente è lampante la stretta correlazione del bullismo a sfondo omofobico con l’ortodossia della maschilità egemone:2222L’espressione “maschilità egemone” è ripresa dalla sociologa Raewyn Connell, la quale nel 1995 pubblica il volume Masculinities, nell’anno successivo tradotto in Italia da Feltrinelli con il titolo Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale. In questo volume sulla costruzione sociale della maschilità, Connell riconosce diversi modi di performare il genere maschile, dipendenti da fattori quali il tempo, la cultura, la società ecc., e pone in evidenza la necessità di comprendere le relazioni che scaturiscono da queste forme diverse di maschilità: «Individuare la diversità nelle varie maschilità non basta: dobbiamo poter individuare anche le relazioni che intercorrono tra i diversi tipi di maschilità, relazioni di alleanza, di dominanza e di subordinazione. Queste relazioni si formano attraverso azioni e usanze che possono essere esclusive o inclusive, intimidatorie, di sfruttamento e così via. Abbiamo insomma, all’interno della maschilità, una politica dei generi». (p. 42)
«[…] Livelli più alti di omofobia si rintracciano in quanti hanno un’identificazione di genere maschile convenzionale, centrata – ad esempio – sugli stereotipi di forza e coraggio, al contrario delle ragazze, per le quali si riscontrano minori livelli di omofobia tra quante si identificano con modelli di femminilità standard […]. È come se la costruzione sociale della femminilità “normale” contemplasse il rispetto delle differenze, mentre la socializzazione alla maschilità standard, egemonica, prevedesse l’omofobia, confermando il legame da tempo rilevato tra quest’ultima e il maschilismo».2323Burgio, cit., p. 226.
Aggravano questa situazione la diffusa reticenza nell’affrontare in aula tematiche queer2424A questo proposito è interessante la testimonianza di un docente di scuola secondaria di secondo grado, Davide Zotti, inclusa nella pubblicazione del 2015 a cura del Cesp – Centro Studi per la Scuola Pubblica: Il curricolo nascosto. Decostruire a scuola stereotipi e pregiudizi eterosessisti. Zotti descrive una realtà in cui docenti e dirigenti scolastici evitano tendenzialmente di parlare di omosessualità e transessualità a scuola, spesso per timore di come possano reagire le famiglie degli alunni. Questi argomenti, percepiti come scomodi, vengono spesso ignorati ed esclusi dal dibattito affrontato in aula.
e, come rileva uno studio condotto da Fiorucci2525Andrea Fiorucci, Omofobia, bullismo e scuola. Atteggiamenti degli insegnanti e sviluppo di pratiche inclusive a sostegno della differenza, Erickson, Trento, 2018.
tra il 2013 e il 2015, la scarsa preparazione dei docenti riguardo alle questioni di genere e alla realtà LGBTQIA+. La maggior parte dei docenti, infatti, preferisce non discutere con i propri allievi di questioni correlate alla sessualità e al genere, spesso delegando questo compito a figure terze2626Oggi questo compito è per lo più affidato a psicologi e psicoterapeuti. La mia esperienza di studente liceale nei primi anni Duemila, geograficamente collocato in una media provincia del sud Italia, è diversa: nel corso dei cinque anni in cui ho frequentato il Liceo Classico Mario Cutelli di Catania, ricordo una sola occasione – un’assemblea di istituto – in cui si riuscì a parlare pubblicamente di omosessualità. All’incontro furono invitati a dibattere un medico e un ecclesiastico, il primo rappresentante di una visione razionale, scientifica e tutto sommato neutra nei confronti dell’omosessualità; mentre il secondo portavoce di una visione eteropatriarcale, giudicante e fortemente moralistica verso condotte e modi di essere ritenuti contronatura.
in una serie di incontri spot.
La generalizzata mancanza di visibilità e rappresentazione, a scuola, delle soggettività queer si riflette anche, in modo piuttosto evidente, negli immaginari precostituiti e standardizzati in cui si imbattono i nostri studenti nei loro libri di testo.
In uno studio del 2018, João Nemi Neto ha analizzato diversi testi scolastici diffusi negli Stati Uniti per l’insegnamento delle lingue straniere. Come risulta evidente, nella maggior parte dei casi i personaggi descritti all’interno di questi volumi sono esemplificativi di una rappresentazione eteronormativa, essenzialista e binaria della realtà:
«Nonostante le sue peculiarità, l’insegnamento delle lingue straniere riproduce il sistema oppressivo, in quanto esiste una sola modalità per esprimere la sessualità: quella eterosessuale, un modello di unione affettiva tra l’uomo e la donna; e vi è anche una sola rappresentazione binaria dell’identità: quella maschile e quella femminile. Nella maggior parte dei casi, le questioni dell’orientamento sessuale, dell’identità e dell’espressione di genere non sono considerate nell’insegnamento delle lingue straniere».2727João Nemi Neto, Queer pedagogy: Approaches to inclusive teaching, «Policy Futures in Education», 2018, 0(0), pp. 1-16, p. 7.
Che si tratti di coppie eterosessuali, cisgender, sposate con bambini (preferibilmente due: un maschietto e una femminuccia), oppure di personaggi single o all’inizio di una relazione sentimentale stabile, tra le pagine di questi libri l’eterosessualità e l’eteronormatività sono assunte come impronta identitaria imprescindibile:
«[In questi libri] non ci sono situazioni in cui sia possibile fare pratica, nel linguaggio studiato, del vocabolario che potrebbe aiutare gli studenti nell’esprimere la propria identità di genere e il proprio orientamento sessuale. Termini come “gay”, “omosessuale”, “lesbica”, “bisessuale”, “transgender”, “non binario”, “genderqueer” ecc. non figurano sui libri né nelle nostre pratiche quotidiane. Inoltre, le uniche possibili forme di unione previste per i membri più giovani della famiglia sono il matrimonio o le frequentazioni».2828Neto, cit., p. 12.
Sarebbe interessante avviare uno studio sistematico di questo tipo sui libri di testo diffusi in Italia. Dalla mia esperienza rilevo che, sebbene dal lancio del Progetto POLITE nel 1999 a oggi siano stati fatti grandi passi in avanti da parte delle principali case editrici di scolastica in materia di parità di genere, questi passi mi risultano tuttavia pur sempre limitati e circoscritti a una visione strettamente binaria del sesso (maschile/femminile), del genere (uomo/donna) e dell’orientamento sessuale (etero/omo, laddove quest’ultimo termine trova pochissimo spazio di rappresentazione). Insomma, finalmente sui nostri libri di testo cominciamo a intravedere i primi timidi segnali di una maggiore attenzione per le pari opportunità – sebbene non svincolata da interessi economici, sui quali aleggia lo spettro del pinkwashing, e non propriamente generalizzata a tutto l’ampio parterre delle soggettività oppresse. Evidentemente alcune soggettività sono più remunerative di altre“…alcune soggettività sono più remunerative di altre”.
Tutto questo insieme composito di fattori rende urgente, nella prospettiva di chi scrive, la necessità di stimolare una riflessione comune su come: 1) attuare un intervento educativo volto a una profonda e serena conoscenza di sé e al completo rispetto di tutte le soggettività investite da forme di oppressione; 2) demaschilizzare2929Laddove con “demaschilizzare” si intende il processo di messa in crisi e definitiva eradicazione della maschilità egemone e oppressiva assunta oggi come modello esclusivo di maschilità.
le relazioni omosociali ed eterosociali tra alunni, e tra alunni e docenti, al fine di proporre contromodelli e narrazioni alternative per riposizionare il discorso sul genere e la sessualità in una prospettiva antisessista; 3) mettere in atto le condizioni necessarie per rendere la scuola, a tutti gli effetti, un autentico safe space per tuttз lз alunnз. In una sola frase: è tempo di cominciare a queerizzare la nostra scuola.
«Queerizzare ci permette di decostruire i preconcetti eteronormalizzati e normativi che si sviluppano all’interno degli spazi scolastici. Il concetto di queer propone, come le idee di Freire, il riconoscimento della storicità che permea i gesti politici, sociali e culturali della nostra società. La nostra agency sociale come insegnanti consente la creazione di una resistenza in grado di generare tra i nostri studenti momenti di presa di coscienza e liberazione».3030Pereyra, cit., p. 58. Trad. mia.
Educare, attraverso una metodologia dialogica e problematizzante – riprendendo il lessico freiriano – e programmi di studio interdisciplinari, a una visione critica sui processi che portano alla costruzione sociale dell’identità significa minare le basi da cui il binarismo di genere dissemina, nella nostra società, pregiudizi, stereotipi e forme di discriminazione. In questa prospettiva, «insegnare in modo queer si riferisce alla possibilità di trasgredire e trasformare gli spazi sociali e culturali che sono normalizzati dalle rappresentazioni egemoniche eteronormative che perpetuano gli stereotipi di genere e permettono l’esclusione e la discriminazione contro i gruppi minoritari».3131Pereyra, cit., p. 59. Trad. mia.
Una definizione che mi sembra convincente di “didattica queer” è quella fornita da Cammie Kim Lin:
«La didattica queer può essere descritta come un metodo di insegnamento che si impegna a riconoscere le identità sessuali e di genere diverse da quelle presenti nelle classi e nei programmi tradizionali (lo status quo eteronormativo e cisgender). Nella migliore delle ipotesi va ben oltre la didattica inclusiva per le persone LGBTQ […] verso una didattica inclusiva e critica per tutti gli alunni».3232Cammie Kim Lin, Changing the Shape of the Landscape: Sexual Diversity Frameworks and the Promise of Queer Literacy Pedadogy in the Elementary Classroom, in Aa. Vv., Queering Education: Pedagogy, Curriculum, Policy, «Occasional Paper Series», No. 37, 2017, p. 23.
Ancora una volta, l’emancipazione e l’autodeterminazione sono princìpi che devono essere perseguiti da tutti i soggetti, che si tratti di categorie oppresse o che opprimono. Tuttavia, Lin sa bene che non è possibile azionare l’interruttore della didattica queer senza prima aver compreso le diverse e spesso sottili sfumature implicate in ogni discorso che riguardi sesso, genere e orientamento sessuale nella costruzione sociale dell’identità. Per questa ragione, sono stati definiti da Lin quattro framework teorici3333Cf. Lin, cit., pp. 25-32.
entro i quali è possibile circoscrivere criteri e parametri adottati nella didattica (dalla scelta dei libri di testo alla programmazione della lezione) nei confronti della cosiddetta “diversità sessuale”.3434Solitamente con questa espressione ci si riferisce in maniera inclusiva a tutto lo spettro di diversità che riguardano il sesso, il genere e l’orientamento sessuale.
Il primo e più diffuso framework (definito “omofobico/eterosessista”) è quello che considera “normale” la sola identità cisgender eterosessuale, comprendendo tutte le altre come forme di devianza. È appunto il framework che predilige nel suo curricolo testi esclusivamente eteronormativi che veicolano una rappresentazione univoca e stereotipata dell’identità, dei ruoli di genere e della famiglia: non può che derivarne una pedagogia (e una didattica) altrettanto omofobica ed eteronormativa.
Il secondo (il framework “della tolleranza e della visibilità”) riconosce invece l’esistenza di identità gay, lesbiche e (a volte) trans, e inibisce le espressioni d’odio senza promuovere o condannare gli “stili di vita”. È un framework che ha per scopo la diffusione di una cultura della tolleranza, che tuttavia non può essere, da solo, in grado di scalfire l’eteronormatività radicata nella nostra cultura. “Tollerare” l’altro non può certo essere la buona premessa per una serena e paritaria convivenza “tra unicità” (riprendendo Acanfora).
Il terzo framework (o framework “della giustizia sociale”) fa un passo in avanti, proponendo una visione anti-omofobica e anti-eterosessista che ha per scopo l’inibizione, a scuola, delle aggressioni e delle discriminazioni a sfondo omofobico. Questo approccio, fondato sulla visibilità queer (per esempio, attraverso il recupero di autori LGBTQIA+) e sull’analisi delle ingiustizie che la comunità è costretta a subire, si traduce in una pedagogia (e una didattica) inclusiva e sanzionatoria nei confronti delle discriminazioni di genere.
In modo più radicale, il quarto e ultimo framework – quello “queer” – propone un approccio anti-eteronormativo che rifiuta in toto l’idea stessa di “normalità”. Più che focalizzarsi sul fatto che le persone LGBTQIA+ dovrebbero essere trattate allo stesso modo di quelle eterosessuali, questo framework mette in discussione la legittimità stessa di categorizzare le identità attraverso una visione eteronormata e binaria. In questa prospettiva, l’omofobia, prima ancora di essere sbagliata perché ingiusta, è sbagliata perché si fonda su presupposti inconsistenti ed errati. È questo, a mio avviso, il framework che meglio si concilia con la definizione di Acanfora.
A quest’ultimo framework, che intendo qui accogliere, ritengo necessario innervare, ai fini di una coscientizzazione che sia in grado di liberare finalmente tutte le categorie oppresse (nonché i loro oppressori), le istanze dell’intersezionalismo, per includere il discorso sul sesso, il genere e l’orientamento sessuale all’interno di una più ampia riflessione in cui siano compresi elementi come l’etnia, la classe sociale, la disabilità ecc., vale a dire quelle categorie biologiche, sociali e culturali che rientrano nel medesimo sistema di oppressione e che, intersecandosi tra loro, generano molteplici forme di discriminazione. Come più volte enfatizzato, la pedagogia e la didattica queer devono essere una pedagogia e una didattica per tuttз.“…la pedagogia e la didattica queer devono essere una pedagogia e una didattica per tuttз.” L’uguaglianza e l’accettazione non riguardano soltanto le soggettività queer, poiché «essere queer significa sfidare qualsiasi nozione statica dell’identità attraverso l’intersezione di più categorie».3535Stephanie Shelton, “White people are gay, but so are some of my kids”: Examining the intersections of race, sexuality, and gender, in Aa. Vv., cit., p. 116.
Una volta individuato il framework teorico entro cui posizionare la propria azione didattica e pedagogica, resta infine da chiarire quale ruolo debba assumere il docente davanti ai suoi allievi. La premessa fondamentale di questo radicale approccio didattico-educativo è che l’insegnante non sia «l’agente indiscutibile, il soggetto reale, il cui compito sacro è “riempire” gli educandi con i contenuti della sua narrazione»,3636Freire, cit., p. 57.
ma sia piuttosto un facilitatore, una figura in grado di mantenere un clima positivo e costruttivo in classe e di innescare un dialogo collettivo con i propri alunni, che contribuisca a sviluppare la loro agency e azioni un processo di coscientizzazione da cui emerga la visione di una realtà dinamica, complessa e composita. Occorre pertanto che l’insegnante abbandoni la sua autorità preservando tuttavia la propria autorevolezza. Solo in questo modo potrà farsi fautore di un modello didattico ed educativo non più fondato sulla mera trasmissione depositaria del sapere, ma sullo sviluppo personale, culturale e sociale del futuro cittadino.
«Poniamo il dialogo e la coscienza come preambolo alle nostre narrazioni didattiche. Abbracciamo le nostre identità attraverso il riconoscimento, la visibilità e il rispetto di tutte le narrazioni. L’insegnamento deve essere incarnato; deve essere riempito con le nostre emozioni, con i nostri desideri e affetti. […] L’insegnamento è uno spazio di resistenza, di potenziamento e di trasgressione, che può trasformare la nostra società».3737Pereyra, cit., p. 62. Trad. mia.
L’insegnamento deve essere incarnato. Lo stesso vale per il dialogo, la parola, strumento necessario per comprendersi e trasformare i propri alunni da semplici spettatori del reale a soggetti attivi e consapevoli. Ripartendo proprio dalla parola incarnata, l’insegnante sarà in grado di attivare un pensiero critico e collettivo che metta in dubbio la cultura dominante, svelando i rapporti tra identità e potere: «La pedagogia queer radicale implica di condurre il confronto sul genere e la sessualità, così come sulla razza, al di là della celebrazione della diversità e della differenza, verso discussioni più complesse che includano [l’intreccio tra] identità e potere».3838Loren Krywanczyk, Queering Public School Pedagogy, as a First-Year Teacher, «The Radical Teacher», 79, University of Illinois Press, Fall 2007, pp. 27-34, p. 32. Trad. mia.
Il linguaggio dell’insegnante dovrà essere inclusivo, rispettoso delle differenze e avulso da stereotipi e pregiudizi, evitando tuttavia meccanismi di autocensura nei confronti di termini ritenuti tradizionalmente come non appropriati. La prospettiva queer radicale non mira infatti a reprimere l’utilizzo delle parole ritenute offensive per la comunità, ma intende spiegarle, contestualizzarle e comprenderne il peso storico e sociale:
«Anziché scoraggiare parole come “gay” o “frocio” con rimproveri come “non dire quella parola!” (come purtroppo accade in certi contesti), personalmente preferisco avviare un dialogo [con i miei studenti] sul significato letterale, storico e colloquiale di questi insulti e di queste parole – proprio come farei con altre parole con cui gli studenti si sono imbattuti sui testi».3939Krywanczyk, cit., p. 32. Trad. mia.
In questa prospettiva, la didattica queer, così come la pedagogia freiriana, sostiene e promuove una metodologia educativo-dialogica fondata sulla parola, dove chi parla, anziché essere agito, agisce coscientemente per sovvertire strutture di pensiero stabili e irrigidite.
Che si tratti di ridefinire obiettivi e modalità di insegnamento dei nostri docenti, di selezionare strumenti (a partire dai libri di testo) più attenti alle questioni di genere, oppure di pianificare attività didattiche e scegliere metodologie educative atte a migliorare il processo di inclusività delle nostre scuole, è arrivato anche da noi il momento di ripensare la nostra scuola in ottica queer. Solo mediante un processo di graduale queerizzazione del mondo scolastico saremo in grado di liberare le generazioni successive dalle maglie del pensiero dicotomico in cui l’eteropatriarcato ci ha avvolti.
Questa nuova pedagogia degli oppressi, di matrice queer intersezionale, deve essere in grado di agire sugli educandi non come esperienza narrata o trasmessa, ma come esperienza fatta, come conoscenza situata, come competenza chiave. La didattica queer deve pertanto farsi strumento per contrastare l’aderenza alla norma, sovvertire la violenza e l’oppressione sistemiche della società patriarcale eteronormata e agire come forma di coscientizzazione sia per le soggettività oppresse che per quelle che opprimono: perché entrambi, oppressi e oppressori – ricordando Freire –, devono essere liberati.
Dobbiamo queerizzare, decostruire e decolonizzare i nostri metodi, i nostri spazi e i nostri strumenti. Facendo questo, l’insegnamento non potrà essere concepito in altro modo se non come pratica di libertà.
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Dario Alì è Responsabile didattico per Formazione su Misura (Mondadori Education – Rizzoli Education) e Direttore editoriale di KABUL magazine. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in Filologia della letteratura italiana, partecipa a CAMPO (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e ottiene un master in Editoria cartacea e digitale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore, per De Agostini, di due volumi biografici su Torquato Tasso e Lorenzo Valla. Attualmente vive e lavora a Milano.
Aa. Vv., Queerdo. Antologia di studi di genere, KABUL Editions, Torino, 2018.
Aa. Vv., Queering Education: Pedagogy, Curriculum, Policy, «Occasional Paper Series», No. 37, 2017.
Fabrizio Acanfora, In altre parole. Dizionario minimo di diversità, Effequ, Firenze, 2021.
Fabrizio Acanfora, La diversità è negli occhi di chi guarda: superare il concetto di inclusione della diversità sul lavoro, 2020.
Fabio Avallone, Cancel culture, dalle origini alla propaganda dell’estrema destra in USA alle farneticazioni in Italia, «Valigia Blu», 8 maggio 2021.
Giuseppe Burgio, Una violenza normale. Maschilità, adolescenza, omofobia, «Education Sciences & Societies», 2, FrancoAngeli, 2020.
Yari Carbonetti, Decostruire il maschile, «Il Tascabile», 14 giugno 2021.
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Cesp – Centro Studi per la Scuola Pubblica (a cura di), Il curricolo nascosto. Decostruire a scuola stereotipi e pregiudizi eterosessisti, Bologna, 2015.
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KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.