Juliana Curi, fotogramma dal film da Uýra: The Rising Forest, 2022.
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H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

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Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

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Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

Dentro l’orrore
Magazine, CAOS - Part II - Settembre 2022
Tempo di lettura: 15 min
Roberto Casti

Dentro l’orrore

Allinearsi con l’instabilità degli eventi in un mondo che fugge dalla normalità.

Frame dalla scena iniziale di Velluto Blu di David Lynch, 1986.

Questo testo nasce nel 2021 durante la preparazione della mostra “There are more things”,11There are more things è un titolo omaggio a diversi scrittori che hanno trattato, ognuno in maniera diversa, l’inconoscibile, l’ignoto e il mistero. Esiste un testo di Jorge Luis Borges chiamato in questo modo e dedicato alla memoria di H. P. Lovecraft (To the memory of H.P. Lovecraft è anche il titolo di un’opera dell’artista Mike Nelson del 1999 e del 2008). Borges utilizza a sua volta una citazione tratta dall’Amleto di William Shakespeare: «There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy».
a cura di Ilaria Leonetti e inaugurata il 30 aprile di quest’anno a Sottofondo Studio (Arezzo). Ad accompagnarlo ci sono le foto delle opere che ho realizzato ed esposto in questa occasione. Nel frattempo, sono successe tante cose in questo pianeta, forse alcune di queste hanno avuto la capacità di risvegliare una sorta di consapevolezza, che è d’altronde ciò che l’arte dovrebbe avere la forza di fare.

Roberto Casti, There are more things, installation view, 2021. Ph: Andrea Severi.

Nella scena iniziale di Velluto Blu (1986) di David Lynch, la cittadina di Lumberton si presenta agli occhi dello spettatore come un sereno angolo di paradiso americano: troviamo le classiche villette a schiera, un cielo blu senza nuvole che incornicia perfettamente i fiori e i prati dei giardini, i bambini che attraversano felicemente la strada e persino un vigile del fuoco che ci saluta mentre rimane agganciato al proprio veicolo in movimento. All’interno di questo contesto apparentemente immacolato, un uomo ha un malore mentre innaffia il proprio prato. In quel momento la macchina da presa comincia ad addentrarsi nelle profondità del giardino, mostrando la terra umida e abitata da insetti mostruosi. Il tranquillo ordine delle cose è già spezzato, ma deraglia ulteriormente quando il figlio dell’uomo malato, interpretato da Kyle MacLachlan, trova un orecchio mozzato in mezzo all’erba di un terreno abbandonato. Evento, questo, che lo porterà a indagare sui risvolti criminali e oscuri della città in cui vive. 

Roberto Casti, Suggestion (Stain), 2022, pigmento su pavimento, dimensioni variabili. Ph: Andrea Severi.

Nelle opere di Lynch i protagonisti si trovano spesso di fronte all’interruzione del tranquillo ordine delle cose – una sorta di equilibrio precario su cui si basano le nostre vite –, e quindi davanti alla sconvolgente irruzione di fenomeni inquietanti e terrificanti. Questo dis-velamento è uno degli elementi che più affascina della filmografia del regista americano. E proprio in questi ultimi anni, riflettendo sulla successione di eventi apparentemente anormali che stanno caratterizzando questi tempi incerti, abbiamo avuto modo di constatare che noi stessi siamo entrati a contatto con quel terreno umido e brulicante di mostri: il malore ci ha già colpiti e ora siamo a terra, sul punto di sprofondare sempre di più nei risvolti oscuri della nostra società.

Stiamo sperimentando un momento di anormalità, intesa come una mancanza di stabilità e di ordine. Viviamo in tempi imprevedibili che ci mettono di fronte a spiacevoli eventi in grado di minare la nostra idea di “mondo”. L’ordine delle cose – un ordine che però abbiamo istituito noi attraverso secoli di promozione della superiorità umana, coltivazione della sfera individuale, consumo, sfruttamento e disuguaglianze volte all’affermazione di poteri e classi privilegiate – è messo ulteriormente in discussione da pandemie, rivolte, guerre e crisi economiche globali.

Ci troviamo di fronte a una “crisi” del mondo che, spesso, coincide con la fine di esso, con la caduta dei valori e delle narrazioni che imponevano una “normalità”. Aristotele parlava già ai suoi tempi della peripezia, intendendo una deviazione del retto corso degli eventi; mentre Frank Kermode ha posto l’attenzione sulla crisi costante generata da uno spostamento di significato delle narrazioni, grazie alla quale la fine, da imminente, è diventata immanente.22Gianluca Didino, Il senso della fine, «Prismo», 2016.
La posizione “correzionalista” sulla fine del mondo, descritta chiaramente tra le altre teorie da Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, ci dice inoltre che:

«La fine del mondo è un problema posto per e dal pensiero, poiché solo il pensiero è in grado di problematizzare – il che non vuol dire, e questo è meno banale, che solo gli umani pensino, cioè abbiano un mondo da perdere. Constatiamo nei fatti che tutti i concetti di “mondo” presenti nei discorsi apocalittici in esame mobilitano un interlocutore concettuale della famiglia dell’“Altro” deleuziano: l’Altro come struttura a priori, in quanto condizione di ogni possibile mondo “oggettivo”, e dunque della possibilità oggettiva della sua estinzione».33Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano, 2017, p. 55.

Per Ernesto De Martino, invece, la fine è qualcosa di culturale, di strettamente legato a un dissestamento strutturale di una civiltà, per cui non esisterebbe distinzione tra apocalisse reale e totale e apocalisse culturale parziale. 

«La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?».44Cesare Cases, Un colloquio con Ernesto De Martino, «Quaderni Piacentini», XXIII-XIV, 1965, p. 181.

È interessante che De Martino parli del “proprio mondo”, di un mondo che viene posseduto e quindi confinato e compreso entro limiti umani, individuali. Perché quel mondo che sembrava fatto a nostra misura – strettamente legato a scale di valori umani – ora non c’è più, ha lasciato il posto a una nuova e timida consapevolezza: «Non sono situato in un mondo (unico e stabile), ma in un insieme mutevole di zone emesse da oggetti specifici».55Timothy Morton, Iperoggetti, Nero Editions, Roma, 2018, p. 183.
Oggetti che per Timothy Morton scardinano le “normali” regole di significazione della natura, ci mettono di fronte a – o per meglio dire sullo stesso piano di – realtà imperscrutabili a cui siamo però strettamente legati, come il riscaldamento globale.

Roberto Casti, The Outsider (Momento cinque), 2021, stampa su carta, cornici in legno, cartone, radio, audio, 50×100 cm. Ph: Andrea Severi.

E proprio a causa dell’irruzione di queste realtà stanno facendo capolino nelle nostre vite, in maniera sempre più pressante, tutti quegli elementi di disturbo che abbiamo sempre cercato di allontanare. Questi causano sensazioni destabilizzanti, spesso riscontrabili anche quando quotidianamente proviamo emozioni controverse, terribili o di cattivo gusto.

Pensiamo agli ospedali: per noi rappresentano dei luoghi tristi, ci costringono a fare i conti con una finitudine tragicamente prossima. Se proviamo a visitarli come osservatori, e non come pazienti, ci accorgiamo realmente di ciò che ci sta attorno. Possiamo osservare visi in lacrime, sguardi persi e rassegnati alla morte imminente, donne e uomini dilaniati dalle sofferenze, famiglie in lutto. Soprattutto da osservatori ci accorgiamo che con gli ospedali non vogliamo avere nulla a che fare. 

Eppure, attraverso la frenesia dei media, quella stessa sensazione straniante è arrivata sino all’interno delle nostre case. All’improvviso le pareti, che avevano il compito di proteggerci, non sono sembrate più tanto sicure. Durante i mesi di assordante silenzio dei vari lockdown siamo stati abituati ad ascoltare le sirene spiegate delle autoambulanze, e poi a osservare attentamente dai nostri schermi un conflitto alle porte dell’Occidente. Oggi più che mai, siamo testimoni dell’atrocità del presente. E forse, proprio mentre tutto il mondo era fermo durante i primi lockdown, insieme abbiamo sperimentato una sorta di tensione costante, sintomo di un deragliamento dell’ordine delle cose.

Ma dopotutto abbiamo sempre avuto a che fare con i sintomi di questa anormalità, con lo sporco nascosto sotto il tappeto o nelle intercapedini delle nostre case. Per l’essere umano, l’imperfezione, l’orrore e la fragilità hanno sempre rappresentato dei trigger, costrigendolo a reagire voltando lo sguardo, trattenendo il respiro o cambiando strada.

Roberto Casti, Noi siamo qui (Sottofondo), 2022, plexiglass, detriti vari, ferro, cemento, 127×91 cm. Ph: Andrea Severi.

Parlo di quel “reale” che sembra squarciare, in diversi momenti dell’esistenza, le nostre convinzioni più legate alla finzione umana. Quando parlo di finzione alludo alla creazione di un universo su cui noi – credenti, atei, agnostici ecc. – abbiamo esercitato un potere che non comprendevamo affatto. Questo potere è frutto di una strana consapevolezza – quella di sapere che esistiamo e che moriamo –, che ci ha portato al tentativo di allontanare sempre più l’idea della fine, coltivando nel tempo narrazioni collettive. Queste sono semplicemente storie, come la creazione di un dio o di una moneta nazionale: non appartengono alla realtà, ma alla sfera sociale umana. Garantiscono cooperazione tra diverse popolazioni, condivisione di idee e valori che stanno alla base di religioni, ma anche di interi equilibri politici internazionali. Noi viviamo le nostre vite all’interno di finzioni, esse garantiscono un distanziamento tra la nostra specie e il pianeta in cui viviamo, luogo in cui la vita umana, in realtà, non è più importante del resto delle cose. Le narrazioni intersoggettive – che per Yuval Noah Harari «dipendono dalla comunicazione tra numerosi umani piuttosto che dalle credenze e dalle sensazioni dei singoli umani»66Yuval Noah Harari, Homo Deus, Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2015, p. 181.
– sono radicate nelle nostre vite al punto da renderne difficile lo svelamento.

«Gli individui rinsaldano di continuo le credenze reciproche in una spirale che si autoalimenta. Ogni ulteriore giro di mutue conferme contribuisce a stringere le maglie della rete di significato, finché non resta alcuna scelta se non quella di credere a ciò che crede chiunque altro».77Ivi, p. 183.

Molte persone potrebbero essere d’accordo nel dire che gli dèi greci sono immaginari tanto quanto i fantasmi. Ma quante persone sarebbero disposte ad ammettere che le nazioni, il denaro e i valori che perseguiamo – e tanti altri aspetti che danno significato alle nostre vite – siano altrettanto immaginari? Credo sia estremamente difficile arrivare a questa conclusione senza aver mai valutato quante storie siano state raccontate all’interno della narrazione umana, e quanto queste abbiano influenzato in maniera negativa non solo una grossa parte degli esseri umani stessi – che da millenni si adattano loro malgrado alle ideologie costituite da imperatori, classi privilegiate, religioni, aziende petrolifere e colossi di Internet –, ma anche l’intero ecosistema della Terra, sempre più vicino a un cambiamento inevitabile. Da anni pratichiamo l’espulsione del negativo e dell’Alterità fingendo che non esistano, e rinvigorendo così la nostra fede nel mondo dominato dall’uomo (non a caso al maschile), in cui la soddisfazione individuale è l’obiettivo comune. Byung-Chul Han, citando a sua volta Heidegger, parla della negatività dell’Altro come:

«Ciò che costituisce l’esperienza in senso enfatico. Fare esperienza di qualcosa significa “che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge, e trasforma”. La sua essenza è il dolore. L’Uguale però non provoca dolore».88Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano, 2017, p. 127.

Per Han il rapporto con il dolore – con tutto ciò che comprometterebbe il nostro benessere individuale legato al consumo e alla produzione costante del sé – viene sostituito dall’Uguale, da strumenti che ci distraggono dal diverso e dall’Alterità.

L’Alterità è tutto ciò che riesce a intaccare il nostro “presentismo” – termine che vorrei in questo caso usare per accentuare un attaccamento ossessivo al presente individuale, e che andrebbe in qualche modo a differire da una più autentica concezione del presente, inteso invece come momento in cui una moltitudine di individui (con)vivono coscientemente la propria condizione collettiva. Quando pratico il presentismo alimento un sistema per cui devo trovare il lavoro e i partner adatti a me, possedere i soldi necessari per ottenere privilegi che mi consentano di raggiungere la pensione e la morte con serenità. Siamo abituati a pensare a una fine che arriverà in un lontano futuro, ci siamo convinti che tutti i nostri scarti possano allontanarsi dalle nostre vite tranquille. 

Per esempio, la convinzione umana secondo cui tutto ciò che si vuole dimenticare venga risucchiato via, come per colpa di qualche buco nero o wormhole, è sempre parte del sistema. La verità è che vogliamo che le nostre feci spariscano nel nulla perché rappresentano qualcosa di estremamente reale, qualcosa di nascosto che prima era dentro di noi, ma che ora diventa un problema dell’esterno, un’interferenza con l’idea che ho del mio mondo ideale. Nel mio mondo ideale gli scarti spariscono mentre io continuo a vivere sereno la mia esistenza. Tuttavia, sappiamo tutti che non è così. Le nostre feci non si vaporizzano nel momento in cui spariscono dalla nostra visuale, ma continuano a esistere nel nostro stesso universo. Sono oggetti che agiscono, come qualsiasi altra cosa, anche all’insaputa degli esseri umani. Indicano che le nostre vite tranquille sono la causa di orrori che molto probabilmente, in un modo o nell’altro, torneranno a farci visita sotto forma di Alterità. La distinzione tra interno ed esterno, tra io e mondo, diventa sempre più sfumata.

Il confronto con l’Alterità può avvenire proprio nei momenti in cui ci troviamo immersi in eventi instabili, come una pandemia che valica i confini sociopolitici o un conflitto terribilmente vicino alle porte di casa. Ci accorgiamo che i nostri corpi e i nostri confini non sono più così inespugnabili, all’improvviso la nostra fragilità rivelata ci apre al mondo e a tutte quelle altre alterità che finora erano rimaste invisibili: dai braccianti senza tutele nei campi ai carcerati emarginati dalla società, dai corpi discriminati e razzializzati fino ad arrivare alle foreste abbattute in Brasile. L’Alterità è lo smascheramento di un privilegio derivante da una normalità, a sua volta decretata da un potere. L’Alterità inizia quando vado oltre me, oltre il presente, per creare un Noi nel futuro.

Siamo proprio nel mezzo del film. Gli orrori si sono rivelati, ma qualcuno ci dice che già immagina la serenità di un mondo migliore. Come Sandy in Velluto Blu, che racconta di un sogno speranzoso abitato da pettirossi che portano luce e amore nell’oscurità. Anche noi vorremmo vivere in un mondo del genere, ma al momento siamo all’interno di un tunnel di cui non vediamo la fine. Ha senso avere ancora speranza, ci chiediamo. Sì, perché proprio in questo momento abbiamo il potere di andare oltre la nostra singola vita. Possiamo realmente costruire una cooperazione non volta al profitto e all’emarginazione.

Roberto Casti e Max Mondini, When I first came to town, 2022, stampa su carta, vetro, polvere, dimensioni 74×54 cm. Ph: Andrea Severi.

Non possiamo permetterci di dimenticare che cosa è accaduto, perché accadrà di nuovo anche sotto altre vesti. Perciò è nostro dovere cambiare la nostra narrazione, immaginare un futuro in cui tutto non dipenda dall’arricchimento dell’essere umano, dal successo individuale, dalla discriminazione di razza e genere, dal declassamento delle altre specie animali e vegetali. Le emergenze che abbiamo affrontato sono solo una piccola parte di un problema molto più grande – ancora oscuro agli occhi di molti – che affiora dalle radici dello sfruttamento capitalista mondiale, un albero morente ma ancora in crescita che contribuisce al riscaldamento globale e alla sofferenza di milioni di persone e specie animali. Ci sono stati momenti, in questi anni, in cui abbiamo capito che la cooperazione e la nascita di sensibilità collettive riescono davvero a fermare, o almeno a destabilizzare, dei sistemi che sembravano ineluttabili. Ma questo risveglio, nel caso dell’emergenza pandemica, è frutto di un terrore legato a una minaccia che sembra attaccarci al presente. Non deve essere scambiata come tale: deve essere presa come una crisi più ampia, che a causa delle azioni passate del genere umano finisce, in un futuro non troppo distante, con la probabile estinzione nostra e di tantissime altre specie animali e vegetali.

Essere consapevoli oggi, abitare l’incertezza e la fragilità del vero presente, ci permette di scoprire il valore delle relazioni, di studiarle e fortificarle. Ci allineiamo così al mondo, come direbbe Eduardo Kohn nel descrivere l’avvicinamento dei Runa dell’Alta Amazzonia alle altre forme di vita che abitano la foresta.

«Quando un uomo sta riparando il proprio tetto, chiederà a qualcuno situato all’interno della casa di infilare un bastone nei buchi. Il che produce l’effetto di allineare le prospettive, quella interna e quella esterna, in un modo del tutto particolare; ciò che può essere visto solo dall’interno diventa improvvisamente visibile da chi si trova all’esterno, il quale, vedendo queste due prospettive come parte di qualcosa di più grande, ora può agire».99Eduardo Kohn, Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano, Nottetempo, Milano, 2021, p. 186.

Il futuro è fatto insieme da errori ma anche da sforzi comuni. Occorre crescere insieme, provarci e riprovarci, ballare e studiare – studiare noi e il mondo, vibrare con esso – come danzatori o musicisti che improvvisano in sala prove o sul palco. I danzatori, per esempio, si trovano spesso a “sentire”, si allineano gli uni agli altri, sentono i movimenti, le sicurezze, le instabilità e le vulnerabilità dei compagni accanto. Durante gli esercizi di improvvisazione si trovano a imitarsi, ad accompagnare i gesti altrui, a costruire insieme una situazione spazio-temporale attraverso un’inconsapevolezza che diviene però “consapevolezza corale”.

«Quando penso al modo in cui usiamo il termine “studio”, penso che ci siamo impegnati a favore dell’idea che lo studio è quello che si fa con altre persone. È parlare e andare in giro con altre persone, lavorare, ballare, soffrire, una qualche irriducibile convergenza di tutte e tre le cose, tenute insieme sotto il nome di pratica speculativa. La nozione di prova – essere in una specie di laboratorio, suonare in un gruppo, in una jam session, o dei vecchi seduti sotto a un portico, o della gente che lavora insieme in una fabbrica – incorpora queste varie forme di attività».1010Fred Moten, Stefano Harney, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, Tamu, Napoli, 2021, p. 182.

Roberto Casti, Tomorrow is the opposite of yesterday, but what is today?, 2022, HD video, suono, manifesto a parete, dimensioni variabili. Ph. Andrea Severi.

Una pratica reale deve pertanto passare per uno studio – non accademico ma esperienziale e legato a un “provarci” che è necessariamente di gruppo – e soprattutto per il pensiero. Un agire nella realtà non può prescindere dallo sviluppo delle relazioni interdipendenti, da una teoria dello stare insieme. La teoria, per questo, è strettamente legata alla pratica, l’una e l’altra non possono esistere da sole secondo bell hooks. La sua pratica femminista è stata infatti intrinsecamente legata alla teoria, all’uso del pensiero come strumento di conoscenza e critica della realtà. «Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo attorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse».1111bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, Sesto San Giovanni, 2020, p. 93.
La pratica libertaria da lei descritta parte proprio da una consapevolezza che è prima di tutto teorica, di relazione con i problemi e le sofferenze del mondo, generata e alimentata da un dialogo tra chi si riconosce all’interno delle stesse instabilità. Uno scambio di idee e dolori che ci porterebbe non solo a mettere in discussione il mondo, ma anche a immaginarne uno nuovo, un mondo più simile a quello che da tempo sta cercando di attirare la nostra attenzione.

Quando usciremo da questo tunnel oscuro, quando l’orrore sembrerà svanito, dovremo prestare attenzione. Sembrerà tutto bellissimo e pieno di vita, come in un sogno. Sarà facile dimenticarsi dell’anormalità, di quello strano incubo. Sarà facile immergerci di nuovo nell’ordine delle cose, vanificando così ogni tentativo collettivo di riflessione e cambiamento. Solo convivendo con l’instabilità, la fragilità, la diversità e l’orrore riusciremo a prenderci cura realmente gli uni degli altri.

Nella scena finale di Velluto Blu, grazie a uno zoom all’indietro, usciamo dall’orecchio del protagonista, che nel frattempo si sveglia nel suo bel giardino circondato dal canto degli uccelli. Sally, la sua ragazza, lo chiama: il pranzo è pronto. Dalla finestra notano un pettirosso intento a mangiare un insetto. La madre del protagonista è schifata, mentre Sally pronuncia la frase: «È uno strano mondo, vero?».

Roberto Casti, Tomorrow is the opposite of yesterday, but what is today?, 2022, HD video, suono, manifesto a parete, dimensioni variabili. Ph. Andrea Severi.

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di Roberto Casti
  • Roberto Casti (Iglesias, 1992) è artista e musicista. Vive e lavora tra Milano e Iglesias, in Sardegna. Nel 2014 ha fondato The Boys and Kifer, una band musicale fittizia che indaga nuovi metodi di comunità, convivenza e relazione con l’alterità. Ha collaborato e esposto in diversi spazi e istituzioni quali il MAN (Nuoro), il FRAC di Corte (Francia), Marsèlleria (Milano), PAV - Parco Arte Vivente (Torino), OGR - Officine Grandi Riparazioni (Torino) e l'Accademia di Belle Arti di Brera (Milano).
Bibliography

Cesare Cases, Un colloquio con Ernesto De Martino, «Quaderni Piacentini», XXIII-XIV, 1965.

Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano, 2017.

Gianluca Didino, Il senso della fine, «Prismo», 2016.

Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano, 2017.

Yuval Noah Harari, Homo Deus, Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2015.

bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, Sesto San Giovanni, 2020.

Eduardo Kohn, Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano, Nottetempo, Milano, 2021.

Timothy Morton, Iperoggetti, Nero Editions, Roma, 2018.

Fred Moten, Stefano Harney, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, Tamu, Napoli, 2021.