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Cybernetic Culture Research Unit

Il Numogramma Decimale

H.P. Lovercraft, Arthur Conan Doyle, millenarismo cibernetico, accelerazionismo, Deleuze & Guattari, stregoneria e tradizioni occultiste. Come sono riusciti i membri della Cybernetic Culture Research Unit a unire questi elementi nella formulazione di un «Labirinto decimale», simile alla qabbaláh, volto alla decodificazione di eventi del passato e accadimenti culturali che si auto-realizzano grazie a un fenomeno di “intensificazione temporale”?

K-studies

Hypernature. Tecnoetica e tecnoutopie dal presente

Avery Dame-Griff, Barbara Mazzolai, Elias Capello, Emanuela Del Dottore, Hilary Malatino, Kerstin Denecke, Mark Jarzombek, Oliver L. Haimson, Shlomo Cohen, Zahari Richter
Nuove utopieTecnologie

Dinosauri riportati in vita, nanorobot in grado di ripristinare interi ecosistemi, esseri umani geneticamente potenziati. Ma anche intelligenze artificiali ispirate alle piante, sofisticati sistemi di tracciamento dati e tecnologie transessuali. Questi sono solo alcuni dei numerosi esempi dell’inarrestabile avanzata tecnologica che ha trasformato radicalmente le nostre società e il...

Dalla cellula al JPEG: la metempsicosi digitale
Magazine, MORIRE – Part II - Marzo 2018
Tempo di lettura: 13 min
Valerio Veneruso

Dalla cellula al JPEG: la metempsicosi digitale

Com’è cambiata la concezione della morte grazie a Internet. Normie VS nerd nei processi di nascita, diffusione e morte dei meme. Il bardo contemporaneo dal cinema di Gaspar Noé alla realtà virtuale.

Immagine commemorativa di Gabe The Dog. Fonte: https://chriskogos.deviantart.com/art/Gabe- The-Dog-Tribute-658673029

 

«In un paese di cuccagna si potrebbe anche essere solo dei perdigiorno, ossia rimarremmo immersi nell’illusione; per dileguare, essa deve ricevere una scossa dall’esterno, preannunci, preludi della morte, che è la più grande scossa per l’illusione, ma in sé ancora non la dissolve: la morte non è la santificazione, ma dà solo la possibilità della santificazione».
(A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Adelphi 2007)

Uno degli aspetti più interessanti del processo che ha portato, negli anni 2000, alla democratizzazione di Internet è la contraddittoria e duplice possibilità, data a chiunque attraverso un click, di scardinare o, al contrario, rafforzare un tabù, a seconda della qualità e veridicità delle informazioni sulla cui base costruisce giorno per giorno la propria facoltà di giudizio. Attraverso la veicolazione di ogni tipo di immagine e la relativa compressione nei formati più idonei, come viene ricordato anche da Hito Steyerl11Nel capitolo In Defense of the Poor Image si fa esplicito riferimento a tutte le procedure di compressione e di riduzione della qualità che un’immagine può subire per consentirne la condivisione e la conseguente diffusione in Internet: «The poor image is a copy in motion. Its quality is bad, its resolution substandard. As it accelerates, it deteriorates. It is a ghost of an image, a preview, a thumbnail, an errant idea, an itinerant image distributed for free, squeezed through slow digital connections, compressed, reproduced, ripped, remixed, as well as copied and pasted into other channels of distribution. The poor image is a rag or a rip; an AVI or a JPEG, a lumpen proletariat in the class society of appearances, ranked and valued according to its resolution. The poor image has been uploaded, downloaded, shared, reformatted, and reedited. It transforms quality into accessibility, exhibition value into cult value, films into clips, contemplation into distraction. The image is liberated from the vaults of cinemas and archives and thrust into digital uncertainty, at the expense of its own substance. The poor image tends toward abstraction: it is a visual idea in its very becoming. The poor image is an illicit fifth-generation bastard of an original image. Its genealogy is dubious. Its file names are deliberately misspelled. It often defies patrimony, national culture, or indeed copyright. It is passed on as a lure, a decoy, an index, or as a reminder of its former visual self. It mocks the promises of digital technology. Not only is it often degraded to the point of being just a hurried blur, one even doubts whether it could be called an image at all. Only digital technology could produce such a dilapidated image in the first place. Poor images are the contemporary Wretched of the Screen, the debris of audiovisual production, the trash that washes up on the digital economies’ shores. They testify to the violent dislocation, transferrals, and displacement of images—their acceleration and circulation within the vicious cycles of audiovisual capitalism. Poor images are dragged around the globe as commodities or their effigies, as gifts or as bounty. They spread pleasure or death threats, conspiracy theories or bootlegs, resistance or stultification. Poor images show the rare, the obvious, and the unbelievable—that is, if we can still manage to decipher it» (H. Steyerl, The Wretched of the Screen, Sternberg Press, Berlino 2012, pp.32-33).
nel suo The Wretched of the Screen, il web si è imposto sin da subito, continuando a mantenerne tutt’oggi il primato, come un non-luogo in cui ogni tipo di conoscenza, vera o falsa che sia, può essere non solo acquisibile nell’immediato, ma addirittura rintracciabile nel corso del tempo attraverso procedure sempre diverse.22Si pensi non solo ai forum o ai processi di file sharing, ma anche a un sistema di comunicazione come Tor che, attraverso il rimbalzo da un router all’altro, offre la possibilità di navigare su Internet in maniera anonima e di accedere a servizi nascosti come le chat criptate o di reperire informazioni nei meandri del darkweb.
Anche il concetto della morte risulta dunque un qualcosa di semplice da reperire e da scandagliare all’interno del dedalo della rete.

 

Shock sites: Rotten.com

La statuetta di un Buddha appartenuta a Schopenhauer e andata perduta.

Nel 1996, cioè agli albori di Internet, fece capolino quello che oggi viene considerato il capostipite della categoria Shock Site (etichetta utilizzata per identificare tutti quei siti dai contenuti disturbanti che mirano a disgustare o a destabilizzare colui che li esplora): Rotten.com.33Ciò che siti Internet come questo hanno fatto, anche se probabilmente in maniera involontaria, è stato sicuramente tentare di squarciare il velo di Maya: quel filtro invisibile e inscindibile di illusione che dona ai nostri occhi una specifica percezione della realtà. Nonostante affondi le radici nell’antica tradizione indiana, il concetto di velo di Maya è stato importato in Occidente attraverso il pensiero di Arthur Schopenhauer che, nella raccolta di testi postumi a cura di Giovanni Gurisatti, Il mio Oriente, ne parla in questi termini:
«Per diventare partecipi della pace di Dio (ossia perché sorga la coscienza migliore) bisogna che l’uomo, quest’essere caduco, finito, nullo, sia qualcosa di totalmente diverso, che non sia più nient’affatto uomo, ma che divenga consapevole di sé come qualcosa di totalmente diverso. In quanto vive, in quanto è uomo, non è soltanto consegnato al peccato e alla morte, ma anche all’illusione, e quest’illusione è reale quanto la vita, il mondo stesso dei sensi, anzi è tutt’uno con essi (la Maya degli Indiani): su di essa si fondano tutti i nostri desideri e brama, che a loro volta non sono che l’espressione dell’illusione; in quanto viviamo, vogliamo vivere, siamo uomini, l’illusione è verità, solo in relazione alla coscienza migliore è illusione. Per trovare quiete, felicità, pace, bisogna rinunciare alla vita. È questo il grave passo, il compito irresolubile nella vita e solubile soltanto con l’aiuto della morte – che in sé non dissolve l’illusione ma solo la sua apparenza, il corpo; la santificazione» (
A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Adelphi, Milano 2007, p. 77).
Benché esista una letteratura critica ormai storicizzata sul concetto schopenhaueriano di velo di Maya, in questo specifico momento storico, caratterizzato soprattutto dalla coesistenza di realtà completamente nuove, il discorso del filosofo tedesco risulta essere più attuale che mai. Infatti, lo stesso concepimento di realtà alternative, per quanto ingannevoli possano essere, implica una consapevolezza di fondo sufficiente per attivare un processo nuovo di svelamento che forse renderebbe ancora meno spesse le trame del già citato velo. Immergersi in una matrioska di realtà può dunque rappresentare una procedura sì caotica ma anche, al contempo, estremamente rivelatrice, in quanto restituirebbe quella cognizione necessaria per comprendere il passaggio da una realtà a un’altra confermando ancora una volta la sussistenza di scenari molteplici.
Caratterizzato da una grafica volutamente scarna, Rotten si presentava, sino alla sua chiusura definitiva avvenuta nel settembre del 2017, come un torbido archivio colmo di immagini estremamente morbose:44Oltre al già citato Rotten.com, tra gli shock site più famosi si possono ricordare Ogrish.com, che fungeva soprattutto da contenitore di video snuff e al cui interno era possibile anche interagire attraverso un apposito forum, Goatse.cx1man1jar e 2girls1cup.
il neofita utente medio poteva infatti ritrovarsi, magari su suggerimento di un amico, davanti a una serie di corpi mutilati, scene di omicidi e suicidi, atti di cannibalismo e atrocità di ogni tipo che sfociavano nello splatter o nel gore più raccapricciante.

La diffusione intenzionale di materiale simile, mista alla facile reperibilità di snuff movies tramite software peer to peer, tra cui si ricordano WinMx e KaZaA,55Nomenclatura utilizzata per indicare quei filmati amatoriali tramite cui vengono ripresi omicidi, violenze sessuali o torture di vario genere.
ha contribuito in maniera decisiva a modificare la concezione della morte agli occhi degli internauti, permettendo loro di vedere ciò che solitamente non può essere visto né mostrato. In verità oggi non si fa nemmeno più una distinzione simile, essendo rientrato il genere snuff nell’ordine del quotidiano, sia attraverso la trasmissione capillare di servizi e reportage giornalistici sempre più cruenti, che tramite la possibilità di curiosare tra edgy memes di particolari profili Instagram o all’interno di canali social di ogni tipo.66Con l’espressione edgy memes ci si riferisce a un sottogenere particolare dei meme che tende a focalizzarsi su quei contenuti virali che risultano intenzionalmente grotteschi, irritanti  o di cattivo gusto. Portati all’esasperazione da accompagnamenti musicali estremamente LO-FI e spesso in contrasto con ciò che viene mostrato, gli edgy memes donano al classico meme una sfumatura cinica in grado di alterare irrimediabilmente il suo originario valore comico.
Non è raro apprendere di persone che hanno deciso di condividere in diretta la propria dipartita. Tristemente celebre è l’episodio di Katya e Dennis, due adolescenti russi che, dopo tre giorni di segregazione in casa e relative risposte al fuoco della polizia, hanno compiuto un doppio suicidio trasmettendo l’intera azione su Periscope: «In questo doppio suicidio in diretta, prima hanno inviato in streaming alcune pose ammiccanti con le pistole, i video di come rispondevano al fuoco della polizia, alcune frasi a effetto. Un atteggiamento sbruffone, che denota la consapevolezza di essere due adolescenti in un contesto alla Truman Show, con tanto di spettatori e l’ossessione di essere abbastanza interessanti da avere un pubblico qualsiasi posa si tenga, anche sparandosi un colpo alla tempia».77G. Ziccardi, Il libro digitale dei morti, Utet, Milano 2017, p.139.

 

Spettacolarizzazione della morte e assuefazione: Eva e Franco Mattes, Logan Paul

Profondo disagio, voyeurismo e distorsione della percezione di sé, spesso trovano nelle nuove tecnologie l’unica possibilità di affermazione della propria presenza: riuscire a condividere un malessere con centinaia di migliaia, se non milioni, di utenti risulta sovente l’unica gratificazione possibile.

Homepage del sito Rotten.com.

Una delle opere che meglio di altre è riuscita a scandagliare tali problematiche è No fun di Eva e Franco Mattes. Nel 2010, il duo artistico, noto originariamente con lo pseudonimo 0100101110101101.org, ha inscenato un suicidio in tempo reale su Chatroulette. Il meccanismo randomico di piattaforme come la suddetta, per cui ci si trova improvvisamente a tu per tu con perfetti sconosciuti interpretando parallelamente sia il ruolo di spettatore che di intrattenitore, consente l’istantanea rottura della quarta parete, cioè di quello spazio liminale che separa chi guarda da chi viene guardato.88«Si può forse distinguere tra liminalità separata e pubblica, tra generi performativi che sono esclusi dallo sguardo degli estranei e altri che richiedono la loro partecipazione non solo come pubblico ma anche come attori, e si svolgono, inoltre, nelle piazze della città, nel cuore del villaggio, nei boschi vicini, nascosti in una cava, in una catacomba o in un sotterraneo» (V. Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna 1993, p. 81).
Tra user perplessi o preoccupati, passando per soggetti indifferenti o addirittura eccitati, le reazioni all’opera di Eva e Franco Mattes sono state molteplici, anche se nel complesso quel che se ne evince è una certa assuefazione a metodologie di questo genere.99«Con la diffusione dei social media, cioè dei contenuti generati dagli utenti, invece che centralizzati, la distinzione tra autore e fruitore è diventata meno netta. Siamo tutti, contemporaneamente, produttori e consumatori. Qualunque cosa fai online, postare una foto o commentare un articolo o pubblicare un’opera, genera una certa reazione, di approvazione o critica. Va tutto bene purché non si venga ignorati. L’intero sistema si basa sulla quantificazione di questa relazione (il numero di viewlike, commenti ecc.). Noi utenti stiamo internalizzando questo sistema, abbiamo bisogno di questa approvazione esterna dei nostri “amici” – spesso perfetti sconosciuti. In molte nostre opere abbiamo cercato di incorporare questa necessità» (D. Quaranta, Eva e Franco Mattes: La Cloud è la vera Darknet, «Flash Art online», ottobre – novembre 2016).

L’attrazione atavica nei confronti della morte, infatti, non sempre è affrontata alla stessa maniera da tutti, e il concetto stesso di spettacolarizzazione della morte lascia frequentemente indignati soprattutto se chi la opera in questo modo è un personaggio pubblico o comunque riconosciuto da una cerchia di persone. È questo il caso di Logan Paul, giovane star americana dei social che vanta decine e decine di milioni di seguaci sparsi tra i suoi diversi canali e profili. Nel mese di gennaio 2018 il popolare influencer si è infatti recato in Giappone, dove, durante un’esplorazione nella foresta di Aokigahara, amaramente nota per l’alto tasso di suicidi compiuti al suo interno, ha rinvenuto e filmato il cadavere di una persona sospesa a un albero. Nonostante la scoperta traumatica, il video è stato caricato su YouTube, per poi essere eliminato dallo stesso Logan, scatenando l’ira dei numerosissimi follower che da anni seguono le sue vicende. Ciò che era nato come un ingenuo tentativo di voyeurismo estremo, finalizzato a una maggiore totalizzazione di visualizzazioni, si è rivelata invece un’arma a doppio taglio che ha scaraventato il noto videomaker all’interno di accesi dibattiti su cosa sia giusto o meno fare in determinate circostanze. Tuttavia reperire su una piattaforma come YouTube filmati che ritraggono persone defunte o cerimonie funebri non è una novità:1010«Il lutto così come si manifesta in Internet e sui social media sembra testimoniare, al contrario, una costante ricerca di nuovi rituali volti sia a rendere esibito, e non più intimo, il dolore, sia a creare delle reti, dei veri e propri network sociali, che possano supportare le persone in lutto. Questo punto delle reti è molto discusso da tutti quegli studiosi che, invece, individuano il computer e i social network come mezzi che isolano le persone nella modernità, che favoriscono una cultura individualistica. Il fenomeno, a mio avviso, è ben più complesso: spesso le persone, nella gestione di un lutto o di un grande dolore, cercano di fare il meglio che possono, per stare bene, con tutte le risorse, anche tecnologiche, che hanno a disposizione. E le tecnologie odierne riescono con grande facilità a mettere in contatto persone e ad attivare dialoghi al di là di isolamenti e individualismi» (Ziccardi, cit., pp.161-162).
basti pensare a The final hellride del 1993, la celebre documentazione del funerale del controverso cantante punk hardcore GG Allin, o ai numerosi video, spesso commemorativi, realizzati da persone comuni durante la celebrazione di funerali: «I media e in modo particolare la rete si prestano dunque a essere tanto uno spazio della memoria, un archivio potenzialmente illimitato di contenuti, quanto dei luoghi della memoria, ovvero contesti collettivi in cui ha luogo parte, a volte tutta, la partecipazione della comunità alla perdita di una persona cara. In modo particolare è la dimensione audiovisuale che arricchisce questa pratica su YouTube rispetto ad altri contesti digitali già descritti. Questo linguaggio ha una maggiore incisività emotiva: un maggiore potere rievocativo ed emozionale che dà valore poetico al prodotto rimemorativo».1111A. Micalizzi, La rete di Thanatos, Homeless Book, 2012, p. 269.

Per quanto riguarda la questione di Logan Paul, oltre alla violazione di una netiquette non ancora strutturata e ben definita, il problema principale è dato soprattutto dalla mancanza di qualsiasi parvenza di empatia che ha consentito l’upload di un simile contenuto e la conseguente diffusione dell’accaduto a livello globale.

 

Resurrezione e oblio digitale: nascita, diffusione e morte dei meme

A proposito della diffusione online di materiale riguardante i defunti, alcuni studiosi hanno ipotizzato che il destino ultimo dell’uomo sia proprio quello di «vivere» una sorta di reincarnazione digitale,1212«Kevin Ho, dirigente di Huawei, ha parlato di recente, a un importante congresso, d’immortalità spirituale: in un prossimo futuro, nel suo pensiero, potremo vivere in mondi digitali paralleli senza il bisogno del nostro corpo. Mondi popolati da defunti in grado di parlare con i vivi attraverso gli smartphone. Il corpo continuerà a vivere nel digitale, il cervello sarà presto copiato integralmente su un supporto magnetico (upload della mente), mentre per la coscienza ci stanno ancora lavorando» (Ziccardi, cit., p. 24).
in cui la trasmigrazione della propria “anima” verrebbe esportata in un file dalle estensioni più disparate: dal JPG alla GIF, l’MP4 e così via…1313«Derrick de Kerchove è convinto che ai due spazi classici, quello mentale e quello fisico, si sia intrecciato uno spazio virtuale che, però, è diventato l’unico nel quale sopravviviamo anche dopo la morte. Il solo spazio che ci garantisce una presenza anche dopo. Del resto, sostiene lo studioso, la vita quotidiana è stata digitalizzata e, quindi, è naturale che sia digitalizzata anche la morte» (Ziccardi, cit., pp. 27-28).
Il soggetto si tramuterebbe così in dato che, a sua volta, sarebbe condannato a vagare all’infinito tra server e computer, senza alcuna possibilità di raggiungere definitivamente l’oblio: «…Una volta che un’informazione sia stata ridotta in formato digitale e immessa in quell’insieme articolato di connessioni che costituisce oggi la rete – che sia Internet, un blog, una chat di WhatsApp, una discussione sui social network o un commento – non esiste tecnicamente la possibilità di rimuoverla definitivamente da tutti i supporti che la contengono e di impedire che, a distanza di tempo, non ritorni in vita. Si possono effettuare, certo, delle operazioni, anche sofisticate, pensate per attenuare l’esposizione o la visibilità di quell’informazione (per esempio la deindicizzazione, la rimozione da un archivio) per concedere un oblio relativo e momentaneo, ma il processo di digitalizzazione in sé, prima, e l’ubiquità e capillarità delle tecnologie oggi diffuse, poi, rendono irreale il poter anche solo pensare a una scomparsa del dato dai network dopo la sua digitalizzazione. Quel dato, da qualche parte, ci sarà, e il rischio che possa tornare è sempre e costantemente reale. Quando parliamo di oblio nel mondo digitale ci rappresentiamo, per molti versi, una finzione. Ci auguriamo che quel dato rimanga il più possibile “sotto la superficie”, che non diventi “di tendenza” e oggetto di un’attenzione diffusa. Ma di più non possiamo aspettarci».1414Ziccardi, cit., pp. 207-208.

Raffigurazione di Yamantaka Vajrabhairava, lo yidam (essere spirituale il cui ruolo principale è quello di favorire la pratica della meditazione mediante la sua visualizzazione), conosciuto come il distruttore di Yama. Nella tradizione del buddhismo tibetano Yama è la Divinità terrifica che rappresenta la morte, mentre Yamantaka è colui che è riuscito a superare qualunque dualismo sconfiggendo persino la morte.
Fonte: https://www.enricoguala.it/il-dharmapala-yamantaka- simbologia-buddhista/

Speculazioni simili trovano un riscontro concreto nei meme, che hanno rimesso in discussione non solo il ruolo dell’immagine nell’era contemporanea, ma persino il senso stesso del linguaggio e della comunicazione. Coniato originariamente dal biologo britannico Richard Dawkins nel suo saggio del 1976, Il gene egoista, per descrivere piccole unità culturali di trasmissione che vengono diffuse da persona a persona attraverso la copia o l’imitazione,1515Com’è ricordato anche da Limor Shifman all’interno dell’introduzione al suo Memes in digital culture, The Mit Press, Massachussets Institute of technology USA, 2014, pp. 9-10.
il termine «meme» (dal greco mimesis – “imitazione”) ha assunto negli ultimi anni una connotazione ben precisa. Così come lo conosciamo oggi il meme (o meglio l’Internet meme), nella sua accezione più generica, si presenta attraverso un’immagine, spesso di stampo ironico o grottesco, che, facendo leva su aspetti quotidiani della nostra vita, è più volte ripresa e manipolata sino ad affermarsi come immagine generalmente accettata e riconosciuta da una comunità più o meno vasta. Così come la trasmissione di un sapere, anche l’Internet meme è dotato di vita propria ed è in grado di racchiudere al suo interno i concetti di morte e resurrezione. Infatti, ogni meme muore e risorge rapidamente, riflettendo pertanto in tal modo la natura stessa del digitale.

Quali sono allora le ragioni che possono causarne la morte e quali, invece, le condizioni necessarie a garantirne la resurrezione? Una premessa da fare è che l’humus da cui nasce e muove i primi passi il meme è quello degli autists, termine utilizzato per indicare coloro che possiedono un’attitudine nerd che li porta ad archiviare e catalogare maniacalmente informazioni di ogni tipo, vale a dire una sottocultura “circoscritta”, caratterizzata da una natura di matrice elitaria, che si contende l’Internet con quello che è definito invece come il normie, ossia l’utente medio.

Un meme dedicato al gorilla Harambe. Un meme con Gene Wilder che, facendo riferimento alla vicenda di Harambe, ironizza sulle possibili modalità per interrompere la proliferazione di un meme.

Quando si parla di «morte di un meme» ci si riferisce quindi a un processo di normieficazione: cioè, nel momento in cui un meme inizia a essere condiviso da personaggi celebri o diffuso su piattaforme e community specializzate nella propagazione virale (per esempio, 9gag), esso perde la genuinità e comicità originaria e, appunto, si “rompe” e, quindi, “muore”. Lo stesso si verifica quando un meme nasce già privo della sua componente comica, il che spesso è riconducibile a una sua errata gestione da parte di un normie: in quel caso possiamo arrivare persino ad avanzare l’ipotesi di un vero e proprio “suicidio di un meme”.

Un’ulteriore premessa da fare è quella riferita al contesto: un meme, infatti, vive più a lungo fintantoché resta attinente al luogo in cui è nato: infatti, «i meme prendono piede quando ne abbiamo più bisogno e si ritirano quando non sono più in sintonia con il sentimento pubblico».1616L. M. Jackson, A Unified Theory of Meme Death, «The Atlantic», 7 dicembre, 2017 [trad. mia].

Il passaggio da uno status underground a uno propriamente mainstream, l’assenza di ironia o l’invecchiamento precoce di un oggetto “memificato” (per esempio una notizia di cronaca di non troppa importanza) possono, in conclusione, determinare la morte e scomparsa di un meme.

 

Un metameme che ironizza sulle morti di Harambe e Gene Wilder, divenuti a loro volta meme dopo la morte.

Metempsicosi digitale: il bardo contemporaneo tra cinema e realtà virtuale

Che cosa succede però quando a morire non è un meme ma il soggetto utilizzato per la sua realizzazione? Oltre a personaggi ed esseri fittizi, anche esseri viventi e reali possono infatti incarnare un meme. Non sono rari i casi di meme che ritraggono persone o animali ormai deceduti: si pensi al gorilla Harambe, ucciso a seguito della caduta di un bambino all’interno di una gabbia dello zoo di Cincinnati, in cui il gorilla era stato rinchiuso; all’attore statunitense Gene Wilder, divenuto meme dopo più di 40 anni dall’uscita del film Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato; al volpino Gabe, commemorato in diretta streaming su Facebook proprio il giorno del suo decesso; o, ancora, a Tiziana Cantone, morta a seguito delle numerose parodie virali che la riguardavano.1717La vicenda è stata ripresa anche da Ziccardi, in merito alla questione del diritto all’oblio: «Al contempo, una richiesta collettiva di cancellazione dei dati sui social network è spesso sollevata da gravissimi fatti di cronaca che rendono manifesta questa impossibilità di interrompere la circolazione di un dato digitale dopo che è entrato nel circuito online o dei social network. Il caso più clamoroso nel 2016 in Italia è stato quello che ha riguardato Tiziana Cantone, una ragazza che si è suicidata dopo essersi scontrata con la difficoltà pratica di rimuovere dalla rete determinate informazioni che la riguardavano. Non si tratta di un caso di applicabilità dell’ipotesi del diritto all’oblio citata poco sopra – le informazioni fatte circolare erano esito di un crimine – ma comunque collegato alle capacità di resistenza del dato digitale online e alla memoria perenne della rete» (Ziccardi, cit., pp. 245-246).

Che cosa accade, dunque, quando l’immagine di un individuo continua a circolare umoristicamente su Internet anche dopo la sua morte? Secondo la tradizione tibetana, successivamente alla morte, gli individui si apprestano ad abbandonare il proprio corpo per intraprendere un viaggio all’interno del «bardo». Questo termine si può tradurre come «stato intermedio»1818Come ricorda Detlef I. Lauf nel Libro tibetano dei Morti: «Anche la vita è uno stato intermedio, lo stato compreso tra la nascita sulla Terra e la morte. Così un bardo segue all’altro sia in questo mondo che nell’aldilà. Ma come il mondo è soggetto a transitorietà, così è soggetto a transitorietà l’uomo fisico» (D. I. Lauf, Il Libro tibetano dei Morti, Edizioni Mediterranee, Roma 1992, p. 36).
e determina proprio quello spazio/tempo contraddistinto da forti bagliori, colori vividi e presenze spiritiche appartenenti a una cosmogonia ben precisa, al cui interno la nostra essenza si trova a vagare prima di scegliere un corpo in cui reincarnarsi.1919«Secondo la concezione buddhista l’uomo resta prigioniero del ciclo di nascita e morte finché non vi pone fine la coscienza perfetta. La rinascita è conseguenza del non ancora raggiunto stato di redenzione. Ogni vita è conseguenza di un karma che ha formato azioni legate al mondo. Il buddhismo respinge il concetto di anima e di un io personale che permane. I presupposti creati dal karma, la spinta energetica in una determinata direzione sono la base e la causa di una nuova vita nel ciclo delle esistenze da una vita all’altra. Pertanto la rinascita può avere luogo su un piano di sviluppo inferiore o superiore, con presupposti migliori o peggiori ai fini della redenzione, a seconda del karma cui le azioni dell’uomo hanno dato luogo» (Lauf, cit., p. 35).

Riferendoci al discorso affrontato sui meccanismi generati dai meme con le immagini dei defunti, potremmo pertanto introdurre l’ipotesi di un bardo contemporaneo che riesce a concludersi sotto forma di eterna materializzazione digitale. Tuttavia l’esperienza dello stato intermedio non resta un discorso limitato al terreno del metaforico; infatti, le nuove tecnologie forniscono oggi stimoli visivi sempre maggiori a riguardo. Emblematico, per quanto concerne la rappresentazione visuale di esperienze postmortem, rimane Enter the void di Gaspar Noé. Diretto nel 2009 e ispirato al Libro tibetano dei morti, il film segue le vicende di Oscar, giovane spacciatore trasferitosi a Tokyo con la sorella spogliarellista, che perde sventuratamente la vita a seguito di una retata della polizia.2020Come si evince dall’intervista di Nicolas Schmerkin a Noé, contenuta all’interno dell’edizione italiana del DVD di Enter the void: «Mi piaceva l’idea di fare un film su un personaggio che, per tranquillizzarsi, aveva bisogno di credere nell’esistenza di un aldilà. Come se avesse bisogno di imbarcarsi in un ultimo viaggio spirituale, proiettando le sue ossessioni, i suoi desideri e le sue paure lungo il sentiero postmortem descritto nel Libro tibetano dei morti».
A partire da questo istante, il punto di vista di Oscar si separa dal corpo. Tutto ciò che di lì a venire vedrà lo spettatore corrisponde al punto di vista della coscienza del protagonista. Il costante fluttuare della macchina da presa, insieme al lavoro di post produzione, consente all’osservatore quasi di concepire un’esperienza simile.

Questa medesima sensazione di essere in punto di morte o persino di vivere esperienze extracorporee è resa oggi possibile dalla realtà virtuale, oltre che dal cinema di Noé. In occasione della 74° Mostra del Cinema di Venezia sono stati infatti presentati, all’interno di una specifica sezione dedicata alla realtà virtuale, i cortometraggi Bloodless di Gina Kim,2121Basato su un fatto di cronaca nera realmente accaduto nel 1992 all’interno della camptown dell’esercito statunitense di Dongducheon, Bloodless ripercorre gli ultimi istanti di una prostituta coreana brutalmente uccisa da un soldato statunitense.
On/Off di Camille Duvelleroy e Isabelle Foucrier,2222Il cortometraggio in questione apre una finestra sulla condizione degli infermieri che lavorano a stretto contatto con anziani e malati terminali all’interno di un ospedale francese, e sulle relative capacità di sostenere momenti simili.
Mule di Guy Shelmerdine2323Giocato principalmente sulla destabilizzante sensazione di non comprendere che cosa stia realmente accadendo, Mule porta lo spettatore/fruitore all’interno del mondo dei corrieri della droga facendogli provare l’ebbrezza di essere per l’appunto un «mulo» in procinto di morire.
e Nothing Happens di Michelle & Uri Kranot.2424Molto vicino al concetto di installazione interattiva, grazie ad alcuni oggetti forniti al fruitore prima di cominciare l’esperienza, Nothing happens offre la possibilità di assistere al proprio funerale.
Sono solo alcuni dei numerosi esempi di inclusione della morte e dell’aldilà all’interno della dimensione virtuale.

Un frame tratto da Enter the void di Gaspar Noé, 2009.

Tali tecnologie forniscono oggi esperienze extra-ordinarie, più o meno immersive, in grado di condurre il fruitore verso luoghi altri, isolandolo del tutto dalla “realtà reale”. Oggi la percezione visiva è in grado pertanto di agire su un livello superiore rispetto al passato, reso chiaramente possibile dall’avanzamento tecnologico, un ulteriore livello in cui ciò che è visto non resta ancorato alla sola sfera del visivo, e in cui la consapevolezza della propria morte, in una confusione tra universo digitale e materico, è in grado di svelare nuovi scenari imprevedibili.

Immagine dell’allestimento della postazione dedicata al cortometraggio The Mule, Guy Shelmerdine, in occasione di VR On The Lot, un summit dedicato alle industrie che producono intrattenimento in realtà virtuale presso la Paramount Pictures di Hollywood. Fonte: https://vrscout.com/news/watch-horrifying-vr- film-inside-a-coffin/

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di Valerio Veneruso
  • Valerio Veneruso è un artista e curatore indipendente. Si occupa dell’impatto delle immagini nella società contemporanea. Studia la dicotomia mainstream/underground e le conseguenze che il capitalismo e l’avanzamento tecnologico hanno sul nostro pianeta. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM – Per tutti e per nessuno (Metodo Milano, Milano, a cura di Maurizio Bongiovanni) e la collettiva Neuro_Revolution (MLZ Art Dep, Trieste, a cura di Francesca Lazzarini). Collabora, inoltre, con realtà editoriali quali Artribune, NOT e Droga.
Bibliography

D. I. Lauf, Il Libro tibetano dei Morti, Edizioni Mediterranee, Roma 1992.
A. Micalizzi, La rete di Thanatos, Homeless Book, 2012.
A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Adelphi, Milano 2007.
L. Shifman, Memes in digital culture, The Mit Press, Cambridge and London 2014.
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