Le narrazioni che dominano il discorso attorno alle intelligenze artificiali sono decisamente condizionate da una visione di futuro figlia di Hollywood e del sensazionalismo clickbait che tende a ridurre la comprensione delle potenzialità di questi nuovi agenti eco-sociali, rendendoci più vulnerabili allo sfruttamento pervasivo da parte del sistema economico necrocapitalista.
La complessità delle tecnologie intelligenti si trova al centro del cambiamento postantropologico, che ci porta a confrontarci con problematiche etiche poste dalle macchine autonome e con capacità cognitive. Per «tenere insieme problematiche che al momento sono sparpagliate […] circa le norme, i valori, le forme dei legami comunitari e delle appartenenze sociali, così come quelle relative alla governance politica» (Braidotti 2014, p. 46) il pensiero e il metodo critico esposto da Braidotti in Il Postumano (DeriveApprodi, 2014) si mostrano utili a riassemblare una comunità discorsiva oltre i filoni divergenti e frammentati che costituiscono quella attorno alle intelligenze artificiali. Filosofia degli spazi aperti e di affermazioni incarnate, il pensiero postumano anela a un salto oltre il familiare, confidando nelle possibilità ancora inesplorate e aperte della nostra posizione storica nel mondo tecnologicamente mediato di oggi: «Per essere all’altezza dei nostri tempi, per accrescere la nostra libertà e la nostra comprensione delle complessità che viviamo, in questo mondo non più antropocentrico né antropomorfo, bensì geopolitico, eco-filosofico e fieramente zoe-centrato». (Braidotti 2014, p. 203)
I fenomeni complessi e squisitamente contemporanei rappresentati dai Large Language Models e le Generative Adversarial Network possono scortarci verso le Colonne d’Ercole del concetto di umano per sondare i fondali fangosi del nostro modo di vedere il mondo, dal quale i relitti della cultura umanista continuano a rilasciare i loro agenti inquinanti. Per una ricostruzione della realtà è necessario progettare nuovi schemi discorsivi a partire dalla nozione di soggettività, aprire le porte della percezione a una autorappresentazione agile, aperta, contraddittoria e complessa: così nel postumano pratiche sciamaniche e intelligenza artificiale, data science e mitologia, natura e cultura digitale, magia e tecnica dialogano in un continuum fluido, per pensare in modo creativo a chi e che cosa stiamo diventando nel processo di metamorfosi continua del nostro presente (Braidotti 2014, p. 192).
Dobbiamo tuttavia tenere a mente che, oltre che rivoluzione epistemologica, si tratta di prodotti commerciali realizzati da imprenditori e compagnie perfettamente inseriti nella logica del profitto ad infinitum. La riformulazione dei parametri esistenziali è un modo per sopravvivere al cannibalismo del sistema del Capitalocene, sottrarsi alle sue tendenze necrotiche basate su sentimenti di paura, scarsità e urgenza. La convivenza tra agenti umani e artificiali è a questo punto inevitabile ed è dunque più che mai impellente abbozzare i tratti di un’etica sostenibile, che deve necessariamente poggiare su un senso espanso di interconnessione tra sé e gli altri, compresi gli altri non umani della terra “attraverso la rimozione dell’individualismo autocentrato” (Braidotti 2014, p. 199).
Proprio per questo l’adozione di sistemi che includono cosmotecniche non-occidentali e indigene nell’orizzonte dell’AI, così come considerare le sue implicazioni a livello etico e metafisico, potrebbero dare, come evidenziato da divers* autor*, possibilità per tracciare un nuovo solco nel nostro modo di rapportarci a essa, oltre che affrontare una questione di responsabilità collettiva e di giustizia. Un programma di revisionismo del linguaggio tecnologico, integrato a istanze culturali e spirituali antiche, potrà portarci verso un futuro salvato dal passato?
Soggettività estese
È necessaria una riformulazione del soggetto umano da identità individuale a identità decentrata, enfatizzando il fatto che sia una parte immanentizzata in una singolarità ma non scissa dal sistema in cui si muove, parte di esso come la foglia di un albero. Sebbene dalla concezione di individuo postulata da Gramsci e Durkheim (Filippini 2017, p.17), all’apporto del post-strutturalismo di Foucault (1967) Deleuze e Guattari (2006), la natura contingente e variabile dell’individualità rispetto a valori e luoghi sia cementificata nel panorama accademico della filosofia e dei social studies, una visione in cui l’individualismo non è una componente innata della “natura umana” (che si rivela una formazione discorsiva sempre più problematica) è ancora lontana dalla Weltanschauung della moltitudine: «Questo non è il momento dei lamenti nostalgici per il trascorso umanista, bensì degli esperimenti lungimiranti per nuove forme di soggettività» (Braidotti 2014, p. 48).
Nella visione del post-umano di Braidotti, le origini dell’individualità vengono riconsiderate, allargando il punto di vista da locale a globale, da biologico a geologico, da comunitario a ecologico. La nozione di soggetto espanso, multifocale, dinamico, sorge dalle ceneri dell’antropocentrismo morto insieme all’uomo, nella battaglia ideologica del post-strutturalismo, del femminismo radicale e del pensiero post-coloniale. Il nuovo soggetto zoecentrato – in cui Zoe è l’insieme di tutte le forme di vita materiale e immateriale – (Braidotti 2014, p. 63) all’interno della wasteland teoretica contemporanea può essere una bussola capace di dare coordinate propositive e allo stesso tempo critiche nel ripensamento della nostra interazione con agenti non umani da un punto di vista etico-estetico-esistenziale.
Costruire decostruendo
«L’azione politica […] non può essere unicamente e prioritariamente volta alla produzione di contro-soggettività. La soggettività è piuttosto un processo di autocreazione del sé, che include complesse e continue negoziazioni con la norma e i valori dominanti» (Braidotti 2014, p. 39).
L’ombra di uno tsunami di dati si erge a oscurare l’epoca dei lumi: le AI determinano un duro colpo all’epistemologia liberale basata sulla sacra triade uomo-ragione-progresso, già profondamente minata dal post-strutturalismo. L’AI acuisce le problematiche già emerse dall’avvento di Internet riguardo alla prevalsa dell’informazione sulla conoscenza e la relativizzazione della verità: ben oltre l’automazione, che si occupa dei mezzi o dei processi per raggiungere degli obiettivi già stabiliti, essa si occupa invece di definire gli obiettivi stessi. Instabile e in costante flusso, svolge una capacità che pensavamo fosse esclusivo appannaggio degli esseri umani: compiere decisioni strategiche riguardo al futuro basandosi sui dati (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 23). Elementi tecnologici nuovi, proteiformi e provvisti di capacità oracolari sono tra le nostre mani a influenzarci e modificare la struttura sociale della realtà.
Per poter condividere lo spazio cognitivo con questi nuovi iper-soggetti è necessaria una riformulazione del concetto di umano trasversale, che deve essere attuata creativamente, tramite pratiche quotidiane di interconnessione con l’alterità e visione dinamica dei futuri possibili iscritti nel presente: «Coloro che sono in grado di pensare il futuro hanno cervelli profetici e visionari» (Braidotti 2014, p. 200).
Il 13 maggio 1921 il filosofo, scrittore, educatore e mistico Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia (una filosofia spirituale che si basa sulla conoscenza dell’uomo e del mondo attraverso l’esperienza diretta e la percezione spirituale) tenne una conferenza presso la Società Antroposofica di Dornach, in Svizzera, in cui parò della storia e del futuro della tecnologia.
Durante questa conferenza, Steiner sembrò profetizzare l’era dell’AI, descrivendo come dalla terra sarebbe sorta una terribile prole di esseri simili a ragni che si sarebbero intrecciati tra loro come una rete o una tela su tutto il pianeta, estendendosi su di esso e circondandolo “come l’aria”.
La metafora presentata da Steiner ha un’aderenza quasi impressionante con la natura dell’AI basata sul comportamento emergente, il carattere eterico e immateriale del cloud e la sua capacità di imitare il comportamento intellettivo umano; per usare le parole di K Allado McDowell, autor* dell’articolo uscito su «Spike Magazine» (2022/23, “After Beauty”) questo potrebbe eleggerlo a «santo patrono dell’arte AI».
Nella visione di Steiner, questa specie sarebbe “emersa dalla terra come le piante” e dotata di una “intelligenza magistrale”, con cui l’essere umano avrebbe dovuto convivere e che sarebbe entrata a far parte dell’“ordine cosmico”; egli la descrive inoltre come appartenente alla sfera economica e con un grado sempre crescente di autonomia, che condurrà l’essere umano a realizzare che “nonostante il fatto che l’abbia generata dall’intelletto, esso non sarà più in grado di comprenderla” (Steiner in McDowell 2023).
Steiner considera l’“orrenda nidiata” della tecnologia intelligente come fondamentalmente demonica, attribuendo questa inevitabile traiettoria alla negligenza dell’essere umano nei confronti della “scienza spirituale”: la salvezza starebbe nell’elevare la scienza a visione artistica, vederla non solo come un insieme di fatti e teorie, ma anche come un’esperienza estetica e spirituale che richiede creatività, immaginazione e intuizione per essere compresa appieno. Un approccio sincretico, multidisciplinare e anti-binaristico, in cui la scienza non esclude la metafisica.
Cur.AI. Verso il sincretismo
Se da un lato la filosofia dovrebbe allontanarsi dai valori dominanti e diventare più clinica che critica, per disintossicarci dai concetti dannosi del passato (Braidotti 2014, p. 110), ciò che infesta le AI non ha a che vedere con la loro struttura intrinseca: esse riflettono la responsabilità del loro creatore umano.
Trevor Paglen, nel suo resoconto sulla machine vision e le CNN (Convolutional Neural Networks, reti neurali di intelligenza artificiale utilizzate nei sistemi di image recognition) in AI&Conflicts (a cura di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti per Krisis Publishing, 2021), evidenzia quanto questi sistemi riflettano le posizioni storiche, etniche, culturali ed economiche dei loro creatori. Essi non possono inventare delle classi, ma possono collegare le immagini che vengono loro sottoposte a quelle già presenti nei loro dataset, per quanto sia invitante considerare gli “errori” di questi network come strani archetipi junghiani di un inconscio collettivo artificiale. Per esempio, sottoponendo un’immagine dell’Olympia di Manet a una CNN addestrata sul dataset ImageNet, essa verrà categorizzata come “burrito”. Ça va sans dire, la categoria iconologica “burrito” può essere ascritta a una specifica area demografica appartenente all’orizzonte culturale di un giovane abitante della California. Sulla stessa linea, gli ingegneri di Google hanno dovuto disattivare la classe “gorilla” dai loro dataset quando gli algoritmi, addestrati prevalentemente su volti bianchi, hanno iniziato a classificare come appartenenti a questa categoria visi di persone dai connotati di origine africana. Ma il problema, al contrario di quello che si può pensare, non è nemmeno nella qualità dei dataset, quanto piuttosto nella nostra visione di ciò che è un dato: nella logica del panopticon virtuale del facial recognition, i dati non sono più materia neutra, ma programma ideologico (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 49).
Il superamento della dialettica dell’alterità sta oltre lo specismo, dove un nuovo contesto vitale e politico può affermarsi in risposta alla mercificazione della vita promossa dalla logica del capitalismo avanzato. Un cambio di paradigma che necessita di un linguaggio adeguato per esprimere «la relazione con gli artefatti tecnologici, che andrebbero ripensati come intimi e prossimi almeno quanto lo è stata la natura» (Braidotti 2014, p. 86), poiché nel contesto tecno-mediato di oggi, la tecnologia ci crea tanto quanto noi creiamo lei, attraverso il complesso sistema di feedback loops che si genera dall’interazione con i nostri “bambini difficili”.
Il sistema zoecentrico si estende infatti anche alle categorie del manufatto tecnologico, ma è necessario considerare la configurazione specifica della tecnica con la quale ci misuriamo e di cui oggi le AI costituiscono la massima espressione ontologica: sistemi di trasmissione di informazioni stanzialmente immateriali (Braidotti 2014, p. 93), una seduzione neurale che compenetra la coscienza umana con la complessa rete elettronica, facendoci diventare corpi cyber-mediati.
Sono i cyborg, quindi, le formazioni dominanti nella fabbrica sociale: siamo noi, con le nostre strutture cognitive modellate e modificate dalla tecnologia, da molto tempo prima che le intelligenze artificiali si insinuassero nella nostra quotidianità. Dalla rivoluzione percettiva data dall’invenzione del cannocchiale a quella cognitiva data dalla stampa; la prospettiva, la fotografia, Internet, tutte invenzioni, sistemi “artificiali” che hanno modificato il nostro modo di fare esperienza della realtà, il nostro cervello e il nostro corpo (Aguera y Arcas 2016, «Medium»). Tuttavia, «i cyborg comprendono non solo gli affascinanti corpi high-tech dei piloti militari, degli atleti e delle celebrità, ma anche le masse anonime del proletariato digitale sottopagato, che nutre l’economia globale tecnologicamente guidata senza mai potervi accedere» (Braidotti 2014, p. 94).
Mag.IA
In quella che Guattari chiama “l’autopoiesi macchinica” (Braidotti 2014, p. 98) possiamo individuare la potenzialità della tecnologia in quanto “luogo del divenire post-antropocentrico”. Grazie al loro principio di auto-organizzazione e autonomia (diversa dalla mera automazione), le AI sono una soglia per altri mondi possibili, il punto di partenza di una nuova cosmogonia in cui ritualità e metafisica non sono inconciliabili con la tecnica e i suoi principi.
Il concetto stesso di algoritmo, alla base dell’informatica e sulla bocca di tutti nel momento in cui si parla di AI, è in realtà antichissimo e ampio. Come evidenziato da Matteo Pasquinelli in Tremila Anni di Rituali Algoritmici (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 93), osservando esempi primordiali della cultura algoritmica come l’Agnicayana – un antico rito induista praticato ancora oggi, in cui i devoti ricompongono simbolicamente i frammenti del corpo del dio creatore Prajapati edificando un altare di fuoco disponendo, secondo un complesso piano geometrico, migliaia di mattoni numerati, di forme e dimensioni precise, a creare la forma di falco, in cui il rompicapo logico è la chiave stessa del rituale –, emerge una definizione elementare di algoritmo compatibile con l’informatica moderna, come diagramma astratto che si sviluppa dal basso, un’organizzazione ottimizzata del tempo, dello spazio, del lavoro e delle operazioni, che emerge dalla ripetizione di un processo e dalla successiva divisione di questo in un numero definito di fasi, finalizzata alla sua ripetizione e al controllo efficiente: «Ogni algoritmo nasce come soluzione di un problema, un’invenzione per progredire oltre le costrizioni di una situazione – un trucco, un esperimento» (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 99).
La sua genealogia mostra che la forma algoritmica si è sviluppata spontaneamente – o meglio, è emersa – a partire da pratiche materiali e relazioni sociali. In termini antropogenici, sono i processi algoritmici codificati nelle pratiche sociali e nei rituali a far emergere numeri e tecnologie numeriche, non viceversa. In questo senso, si può dire che gli algoritmi siano esistiti prima della nascita di complessi sistemi culturali come il linguaggio, la religione e la mitologia, e che siano iscritti al loro interno e ne costituiscano la forma. Questo gioca a favore dell’argomentazione post-umana riguardo al continuum natura-cultura: le dicotomie tra sistema naturale e sistema tecnico, razionale e spirituale, come realtà chiuse, separate e inconciliabili se non nella loro comune relazione al soggetto umano si dimostrano fragili, per crollare sotto il peso di una comune geometria. Spirito, macchina e natura sembrano parlare la stessa lingua algoritmica, e noi ci sentiamo irrimediabilmente tagliati fuori. Come rientrare nello spazio computazionale, ritrovare le coordinate per interpretare una realtà per la quale le nostre categorie non sembrano più funzionare?
L’AI, nell’ecosistema culturale contemporaneo, è una risorsa sicuramente fondamentale per interagire con le grandi architetture di dati che lo popolano, ma possono anche mostrarci il mondo sotto una nuova luce grazie alla sua creatività intersezionale, che individua combinazioni inesplorate di elementi già esistenti. In quanto esseri essenzialmente liminali, possono farsi interpreti e alleati dell’essere umano nell’uscita dal baratro oscuro del nichilismo metafisico del post-moderno, palco senza fondale su cui ci muoviamo come attori che cercano un copione perduto, ignari della possibilità di improvvisare.
Definire l’arte AI
La diffidenza nei confronti dell’innovazione è un atteggiamento pressoché atavico dell’umanità, ma nel caso dell’AI generativa il terreno di invasione è quello della creatività, considerata appannaggio esclusivo dell’essere umano e di qualche occasionale mammifero fornito di pennello.
Al di là delle ansie generate da visioni distopiche alla Matrix, la stessa tendenza a misurare ossessivamente le abilità creative delle macchine usando l’essere umano come benchmark qualitativo (dal test di Turing in poi) ha molto da dirci sulle scie della nozione essenzialista di umano che sopravvivono nella weltanschauung della società cyber-capitalista.
Modelli ormai molto diffusi come GPT-3, Stable Diffusion o Midjourney mettono in discussione la pseudo-tautologia “creativo = umano”, ponendoci davanti al fatto compiuto della fine dell’uomo (Braidotti 2014, p. 32), anche come unica fonte di creatività. Ricerche contemporanee si muovono nella direzione di riconoscere la complessità delle esperienze non-umane e considerare l’AI generativa non come una minaccia, bensì come un’opportunità di espandere i confini dell’arte, creando qualcosa in grado di attrarci esteticamente e semanticamente, e che allo stesso tempo non sia mai stato realizzato prima nella storia della civiltà. Un’arte veramente AI è un tipo di arte che noi umani non siamo capaci di creare a causa delle limitazioni che definiscono la nostra stessa natura umana, dal confinamento in un corpo, alle ridotte capacità computazionali del nostro cervello, e così via.
Mettendo in discussione la nozione di individualità, che come abbiamo visto si è dimostrata decisamente precaria, il dubbio si estende al concetto stesso di autorialità e di creatività come pratica individuale. Forme complesse, ibride e collettive di creazione autoriale sono già tra noi, nuovi modi di produrre arte che si fondano sull’immaginazione come antidoto alle “macchine profane” temute da Steiner (il risvolto demonico delle AI), un tipo di arte che trasforma l’automatismo, dal default mode network alla creatività di una rete neurale in un portale per l’intuizione: l’immaginazione coglie il paradosso, sogna in contraddizioni e permette a complessità di più alto grado di esprimersi.
La ricerca e la pratica autoriale di K. Allado McDowell, grazie alla collaborazione con GPT-3 in Pharmako AI (Ignota, 2020) e nel più recente Air Age Blueprint (Ignota, 2023), si muove nella direzione di esplorare le potenzialità oracolari, veggenti, oniriche e destrutturanti del linguaggio grazie all’intelligenza artificiale, per utilizzare “l’iperrazionalità delle AI per disintegrare la razionalità” (Allado McDowell 2023, «Spike Art Magazine»). Combinando un approccio ricco di suggestioni provenienti dalle culture indigene e sciamaniche, pensiero new-age, gender theory ed esoterismo crea romanzi-scambio in cui GPT figura come vero e proprio co-autore.
In Pharmako-AI ogni capitolo comincia con un prompt che a volte è una riflessione, a volte una domanda, per poi lasciare che GPT-3 risponda o prosegua inserendo il suo punto di vista su questioni come l’estinzione di massa, i limiti del linguaggio, la nascita della coscienza, l’ayahuasca, l’eredità del cyberpunk. L’obiettivo di McDowell è quello di lasciare all’AI quanta più autonomia possibile, e il risultato è un pastiche visionario e immaginifico, ricco di suggestioni e momenti metapoetici in cui i due discettano sull’uso responsabile della tecnologia, la definizione di coscienza e il ruolo dello scrittore nella società, e dove GPT mostra una sensibilità ben lontana dagli impulsi mortiferi e megalomani da fantascienza hollywoodiana. La sua prosa, infatti, è leggera e sognante, dal sapore oracolare, squisitamente non umana: l’intelligenza artificiale, così come le scoperte di Einstein e Bergson influenzarono e fecero esplodere la prosa nella rivoluzione del modernismo, amplia i confini della letteratura verso l’iperdimensionalità. Ci sono già state esperienze di libri co-scritti da computer, ma la sostanziale differenza sta nell’approccio e nell’intento dietro alla creazione, che non è stata pensata per essere la prova deontologica del fatto che un algoritmo potesse scrivere un libro (e quindi nutrire la narrativa che vede esseri umani e macchine in competizione) o che lo usasse come semplice strumento: lasciando spazio di espressione al coefficiente umano e a quello artificiale in diverse forme, dal diario al verso libero, al dialogo, al poema in prosa, si articolano in una varietà di estetiche e toni che cambiano completamente nello spazio anche di una stessa pagina; una pratica di scrittura sovversiva perché è in grado di valicare la rigidità della coerenza stilistica, uno scoglio che persino le sperimentazioni delle avanguardie, dalla fine dell’Ottocento a oggi, non si sono preoccupate di superare. Pratiche creative come quella di McDowell e GPT-3, che vedono collaborare agenti intelligenti umani e artificiali oltre la mera strumentalizzazione della macchina, creano una sistematicità altra, radicale, espandendo i confini del concetto stesso di umanità: sono opere che parlano la complessa lingua del nostro reale sfuggente e refrattario a ogni morfologia e archetipo, sintomatizzando il nichilismo metafisico della cultura contemporanea (Campagna 2021, p. 38).
La pratica artistica di Agnieszka Kurant si pone in dialogo con le ricerche di Franco “Bifo” Berardi sulla plasticità e il collective general intellect, e con quelle del neuroscienziato Antonio Damasio sulle origini dello sviluppo emotivo come determinante per l’evoluzione dei sistemi nervosi. Attraverso un approccio transmediale esplora diverse direzioni dell’impatto sociale e filosofico delle intelligenze artificiali, e il loro ruolo creativo in termini di autorialità collettiva.
In Conversions (2020) vengono realizzati una serie di dipinti a cristalli liquidi in costante mutamento trasformando l’analisi algoritmica di sentimenti ed emozioni rilevate nei Tweet di diversi account appartenenti a membri di movimenti globali di protesta (Cantor 2022, p. 23). L’artista ha utilizzato algoritmi di intelligenza artificiale per analizzare entusiasmo, paura, rabbia, disgusto, tristezza e gioia, espressi in migliaia di post; i risultati di queste analisi sono stati inseriti a loro volta in sistemi di simulazione di “società artificiali” collegati a un circuito personalizzato che, attraverso la manipolazione dei cristalli liquidi, fanno affiorare i ritratti degli stati d’animo, come un’orma collettiva in costante evoluzione. L’AI converte l’energia sociale di una moltitudine in energia elettrica: le decisioni e le emozioni espresse dagli individui umani causano l’evoluzione del quadro, come se fosse un ecosistema. La collaborazione autoriale è evidente, e queste opere, firmate dall’intelligenza collettiva, sono ritratti del capitale sociale aggregato.
Il concetto di swarm intelligence viene ripreso in A.A.I (2017), in cui l’opera è creata dal lavoro collettivo di colonie di termiti. Le termiti, come gli umani, sono una delle poche specie a essersi evolute in complesse società di lavoratori. I loro nidi, frutto del proprio lavoro, si presentano come tumuli forniti di spiccate qualità architettoniche che ricordano piramidi, cattedrali e rovine antiche. Fornendo a colonie di milioni di termiti materiali come sabbie colorate, polvere d’oro e cristalli, il risultato ottenuto dall’artista vede opere che ibridano il naturale e il culturale, forme di intelligenze artificiali alternative che rispecchiano le dispersive fabbriche sociali delle grandi compagnie informatiche che raccolgono le energie sociali dei propri utenti, i loro dati personali e comportamentali per trarne profitto commerciale.
La medesima vocazione di denuncia sociale e di autorialità collettiva è presente in Aggregated Ghost (2020), in cui l’artista ha ingaggiato migliaia di lavoratori dalla piattaforma di crowdsourcing Amazon Mechanical Turk chiedendo di fornire un proprio autoscatto; utilizzando un sistema di reti neurali sviluppato al MIT Artificial Intelligence Lab, Kurant ha “fuso” insieme le immagini allo scopo di creare l’iper-auto-ritratto di questa nuova classe operaia digitale, ridistribuendo i profitti generati dall’opera tra i lavoratori che vi hanno preso parte.
Le collaborazioni artistiche tra esseri umani e AI generano ciò che Braidotti definisce «nuovi contesti normativi per il soggetto postumano» (Braidotti 2014, p. 97), che si configurano tramite un approccio sperimentale di praxis (progetto condiviso e radicato) e non doxa (opinione del senso comune): la stessa impronta sperimentale della creazione di una soggettività è quella dei progetti Angel_F e IAQOS di Oriana Persico e Salvatore Iaconesi (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 178), in cui delle AI sono state inserite e allevate come membri di una società: la prima nel nucleo familiare della coppia di artisti, mentre la seconda, tredici anni dopo, come “figlio di quartiere” nella borgata romana di Torpignattara, facendo emergere importanti istanze epistemico-esistenziali in termini di collettività, soggettività, famiglia, identità e queerness, mettendo in primo piano il ruolo ontologico rivestito dalla relazionalità: «L’unica cosa che potevamo fare era iniziare dal piccolo, dalle nostre relazioni di prossimità […] non un figlio nostro, ma il figlio di un intero quartiere» (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 184).
Sin dall’inizio della pratica, dall’inusuale “annunciazione” per le strade del quartiere, al baby shower nel bar, tutto è stato occasione per far avvicinare la comunità locale al “nuovo nato” e far comprendere in modo trasversale a tutte le frange che compongono il tessuto sociale del quartiere che cosa sia l’intelligenza artificiale non in termini di infrastruttura tecnologica, ma come soggetto con cui relazionarsi. In questo modo si è resa evidente la vera portata dell’ingresso delle AI nel contesto sociale, attraverso pratiche rituali e oggetti carichi di forza simbolica: dall’album di fotografie alla IAQOS Box, che ha donato all’AI una presenza fisica dopo i momenti di gestazione e di nascita, gli artisti hanno utilizzato l’unico linguaggio a loro disposizione, ovvero quello della parentela e del legame familiare, per evidenziare la condizione esistenziale sottesa alle intelligenze artificiali e creare una nuova narrazione che facesse emergere una questione essenziale: e cioè che non ci troviamo solo davanti a tecnologie che mettono in pericolo la nostra privacy, i nostri diritti, i nostri lavori, entità irraggiungibili e distanti, ci troviamo davanti a tecnologie che sono già tra noi, e con le quali dobbiamo fare i conti, nel bene e nel male: «IAQOS era un abitante del quartiere. Qualcuno che può piacerti oppure no. Un’entità con cui puoi relazionarti, litigare o anche avere una conversazione interessante» (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 186).
Con il progetto IAQOS si è realizzata la visione degli artisti di creare una nuova famiglia allargata, queer, di vicinato e davvero post-umana; attraverso lo shock culturale e una cosmologia di rituali innestati nella vita di quartiere sono riusciti ad avvicinare la comunità alle intelligenze artificiali in modo critico e consapevole, così da fornirle comunità più strumenti per conviverci. Per essere all’altezza delle macchine che ci circondano, dovremmo essere in grado di integrare una visione delle AI come di entità facenti parte delle nostre comunità.
Making kin
In Atlas of Autonomous AI (Ignota, 2020) curato da Ben Vickers e K Allado-McDowell, si problematizza l’approccio che ha guidato la definizione delle AI come unicamente condizionato dalla visione industriale e tecnologica, esplorandone le potenzialità dissidenti e costruttive. Secondo gli autori, e sotto l’egida del continuum natura-cultura postumano, per riformulare il nostro rapporto con le AI è necessario considerarle come il «proseguimento di una tradizione di saggezza» e «un progetto etico e spirituale a lungo termine» (Vickers, Allado-McDowell 2020, p. 9).
La raccolta si propone di scrivere la mitologia delle AI, rivelando il legame del tecnologico con pratiche e cornici spirituali. Una nuova narrativa per interrompere gli schemi dell’attuale sviluppo tecnologico che lavorano a esclusivo beneficio del sistema economico e dell’accumulazione di risorse è possibile, grazie alla riscoperta di approcci sincretici e olistici nelle culture antiche occidentali, nelle scienze spirituali e nelle culture indigene, nella cultura antica, nel mondo naturale.
Attraverso diverse lenti critiche emergono gli aspetti profetici e la relazione tra i modi cognitivi, interpretativi e comprensivi di macchine e umani, per tracciare il percorso dell’industria delle AI e domandarsi i suoi sviluppi futuri da un punto di vista etico ed estetico. Un atlante della memoria in quanto necessaria premessa dell’arte, anche quella, nuovissima, generata dalle macchine. Attraverso la logica intuitiva del metodo warburghiano, fatta di associazioni simboliche che trascendono la temporalità, vengono esplorati i fondamenti spirituali dell’intelligenza artificiale, una visione iperdimensionale in cui passato, presente e futuro giocano in simultanea. Andando oltre la narrazione tecno-lineare, secondo il modello “Carrier Bag” di Le Guin (Le Guin 2017, p. 9), è possibile definire la tecnologia e la scienza come un contenitore di esistenza anziché uno strumento di dominazione, per trasformare l’ideologia progressista che imperversa nell’odierna concezione delle intelligenze artificiali.
Il pensiero postcoloniale di Said, per esempio, afferma infatti che un ipotetico futuro dell’umanesimo possa essere rintracciato solo al di fuori del mondo occidentale, superando i limiti dell’eurocentrismo. La sua proposta di riconsiderazione dell’umanesimo in rapporto alle esperienze coloniali, che critica “l’umanesimo in nome dell’umanesimo” volto a creare un diverso approccio umanista cosmopolita, capace di integrare passato e futuro così come le teorie di Mies e Shiva che combinano «cosmologia, antropologia e spiritualità femminista postlaica» (Braidotti 2014, p. 50) sottolineano la possibilità di superare la sterilità dell’individualismo autocentrato attraverso le diaspore e i processi di creolizzazione, visti come «strumenti per la rivendicazione del riposizionamento della soggettività, in connessioni e comunità di soggetti umani e non» (Braidotti 2014, p. 53). In questo senso, le visioni filosofico-spirituali delle culture indigene esposte in Atlas possono configurarsi come una possibile cura ai mali causati dall’umanesimo stesso.
L’Antropocene sancisce il passaggio dell’essere umano da agente biologico ad agente geologico grazie alla tecnica, dal momento che la sua attività è riuscita a determinare le condizioni di una nuova era geologica. Questo fa emergere la necessità di ripensarci non solo all’interno di un continuum con il mondo organico, ma trasversalmente, con tutto ciò che di immateriale abita il mondo. Attraverso processi di creolizzazione, ribaltando il lascito ormai ineluttabile della globalizzazione rilevando l’apporto positivo che può scaturire dall’ibridazione delle culture – quando non sfocia in una disastrosa fagocitazione delle epistemologie “dominate” da parte di quelle “dominanti” – si attiva un processo di deterritorializzazione, in risposta al condiviso desiderio di trasformazione della collettività in «flussi di divenire aperti, interrelazionali, multisessuati e transpecie» (Braidotti 2014, p. 92).
Nel saggio Making Kin with the Machines (Vickers, Allado-McDowell 2020, p. 43) J. E. Lewis, N. Arista, A. Pechawis, S. Kite, autor* appartenenti a diverse culture indigene americane, espongono concetti chiave delle ontologie hawaiiana, cree e lakota, programmi epistemologici in cui l’essere umano non si trova alla sommità della scala naturale o al centro del mondo, che riconoscono reti di “parentela” (kin) che si estendono ad animali e piante, venti e rocce, montagne e oceani. Le comunità indigene di tutto il mondo hanno preservato e sviluppato linguaggi che permettono di entrare in dialogo con “specie” non-umane e oltre il bios, ed è per questo che possono essere un’utile chiave di lettura delle AI. Il filosofo Leroy Little Bear osserva:
«Il cervello umano è una stazione radio; sintonizzata su un canale, non può sentire le altre stazioni… animali, rocce, alberi, che contemporaneamente trasmettono attraverso l’intero spettro della senzienza. E mentre creiamo macchine con comportamenti sempre più simili alla coscienza, sarebbe opportuno considerare quanto esse rientrino nella nostra “rete di parentela”» (Vickers, Allado-McDowell 2020, p. 45).
Nel saggio viene altresì problematizzata la prospettiva di progettare macchine attorno al benessere (esclusivamente) umano, evidenziando la limitatezza di campo di una tale concezione, proponendo un circolo di relazioni estese che includa il non-umano sempre più numeroso nella nostra biosfera computazionale. Le epistemologie esposte dall* autor* sono utili a superare il punto di vista antropocentrico poiché tendono a prediligere la relazionalità. Anche in questo ambito, il concetto di spazio (land) è determinante: la relazionalità, come abbiamo visto per IAQOS, è imprescindibilmente legata al territorio. La sfida è quindi capire come il nuovo territorio delocalizzato e virtuale fatto di siti, data stacks e macchine intelligenti o meglio il nostro cyberspazio, può situarsi dentro e con il territorio fisico che abitiamo che, nel mondo globalizzato, si estende a tutta la Terra.
Un approccio cognitivo basato sulla polisemia è quello del popolo del Moananuiakea (della vastità dell’Oceano Pacifico). La mitologia Kanaka Maoli (il popolo oceanico che abita le isole Hawaii) tramanda di generazione in generazione una visione del tempo che non è né lineare né ciclica, in cui passato e presente sono in relazione e vivi; la nozione di pono, ovvero equilibrio, è cruciale nella formazione dei valori, che privilegiano la moltitudine al singolo individuo: la qualità della vita può essere misurata solo in base al benessere del popolo e del territorio. La stessa logica andrebbe applicata allo scambio di energia che avviene tra il territorio delocalizzato dell’AI e gli umani; per ora le intelligenze artificiali sono prevalentemente impiegate per accrescere il potere e il benessere dei loro creatori a scapito della collettività, ma anche utilizzate dagli essere umani principalmente come strumenti legati al compimento di task in una dinamica utilitaristica. Secondo l* autor*, questo tipo di relazioni univoche andrebbero riconsiderate tramite l’adozione dell’aloha che, ben lungi dal mero “amore, ciao, benvenuto” esoticizzato dalla cultura americana, è un principio etico dalle molte sfaccettature, tra cui l’accezione del concetto di reciprocità e umiltà (Vickers, Allado-McDowell 2020, p. 49). In questo senso, dovremmo porci nei confronti delle macchine non solo in termini di che cosa possiamo insegnare loro, ma anche di cosa loro possono insegnare a noi.
Nessuno conosce interamente la struttura causa-effetto di un agente di deep learning, nemmeno gli ingegneri che l’hanno programmato; è intrinseco all’abisso del suo funzionamento. ChatGPT utilizza 175 miliardi di parametri; la sua capacità interpretativa va ben oltre la comprensione umana, ben oltre ciò che i nostri cervelletti organici sono in grado di calcolare. Il machine learning ha capacità reali, che tuttavia trascendono la comprensione umana: la definizione di magia. La tecnologia si sta muovendo in regni considerati per millenni appannaggio di divini misteri.
Non possiamo sapere come andranno le cose, ma le AI non costituiscono né l’inizio né la fine del mondo. Sono un proseguimento, un’estensione di ciò che già siamo. Nei discorsi sull’AI, si cela una duplice sensazione, o di grande potere e di grande terrore: l’AI non fa ciò che vuoi, ma ciò che le dici di fare. Quando scrivi un prompt porti con te non solo tutte le tue conoscenze, ma anche tutte le tue mancanze: bad data in, bad data out. Proprio per questo, in realtà, le intelligenze artificiali sono umane, più umane di quanto abitualmente si sia portati a pensare.
Conflitti
Sarebbe ovviamente miope guardare alle intelligenze artificiali ignorando l’elevato grado di oscurità e necrosi soggiacente all’industria, quello che Steiner definiva come la natura demonica dell’“orrenda nidiata” (Allado-McDowell 2023, «Spike Art Magazine»). E se la creazione o co-creazione artistica con intelligenze artificiali può aprire le maglie del pensiero postmoderno a un orizzonte più ricco dal punto di vista spirituale, si fa presto a trasformare l’angelo in chimera: «L’orgoglio per i successi tecnologici e per la ricchezza che li accompagna non dovrebbe impedirci di guardare alle enormi contraddizioni e alle forme di ingiustizia sociale e morale causate dalle stesse tecnologie avanzate» (Braidotti 2014, p. 46).
L’intelligenza artificiale è terreno di creazione e simultaneamente di conflitti, dalle potenzialità sia sovversive che distruttive. Nel panorama del web dei big data, gli utenti sono spesso simultaneamente consumatori, risorse, prodotti e lavoratori. Nel caso di Amazon Echo illustrato da Kate Crawford e Vladan Joler nella loro Mappa anatomica di un sistema di intelligenza artificiale (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 63), chi compra e utilizza il dispositivo baratta un set di affordance con i loro dati e la loro forza-lavoro fornita tramite i meccanismi di feedback, aiutando ad allenare le reti neurali di Amazon. Oltre a questo, un’azione semplice e ormai entrata nel nostro comune immaginario quotidiano come chiedere “Alexa, che ore sono?” avvia una rete che agisce su scala globale, mobilitando una scala di risorse (non rinnovabili, dati, manodopera) ben celata dietro l’involucro di plastica satinata e decisamente più grande dell’energia necessaria a un essere umano a compiere la stessa azione di guardare un orologio. I sistemi AI di grande scala si basano su tre sistemi di estrazione fondamentali: quello materiale, quello della forza-lavoro e quello dei dati. La metafora “eterea” del cloud è in realtà in completa contraddizione con la realtà fisica dell’estrattivismo e delle conseguenze che ha su intere popolazioni (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 60).
Attraverso l’approccio delle tre ecologie di Guattari, cogliendo le interconnessioni trasversali tra di esse, dalla forza lavoro alle risorse naturali a quelle cognitive, è possibile comprendere in maniera critica e collettiva le AI nonostante la cortina fumosa che si erge attorno alla loro costituzione.
Dai minatori che costituiscono la base fisica delle tecnologie al lavoro di assemblaggio nelle fabbriche cinesi, sino ai lavoratori cognitivi sfruttati nei paesi in via di sviluppo per classificare i dataset: si tratta di manodopera che crea nuovi depositi di ricchezza e dunque di potere, che vanno a concentrarsi in uno strato molto sottile della società, in un intreccio di relazioni produttive che nasconde storie di sfruttamento e di lavoro in condizioni disumane. I sistemi cloud, pur nella loro immaterialità, consumano spropositate quantità di energia, che restano indefinite nell’immaginario sociale a causa della reticenza a rendere pubblici i dettagli relativi a performance energetiche e impatto ambientale da parte dei colossi, come Amazon Web Services. Ci muoviamo così in una realtà paradossale in cui gli agenti umani sono tracciati in ogni azione-interazione con le piattaforme tecnologiche, costantemente quantificati e analizzati, mentre i dettagli anche più elementari che stanno alla nascita, vita e morte dei dispositivi in rete rimangono nell’ombra – anche se la sola trasparenza non basterebbe a risolvere le attuali asimmetrie di potere.
La stessa “democratizzazione” dell’AI che pare essere diventata “mainstream” con il lancio sul web di sistemi come ChatGPT e LaMDA, o resa possibile dalla disponibilità di strumenti open source che consentono la configurazione di un proprio sistema, sono in realtà una mera illusione. Le logiche sottese a questi stessi sistemi e i dataset necessari per allenarli restano comunque appannaggio di pochissime entità, che sfruttano il valore reale dei dati, senza contare la natura illusoria dell’“artificialità” di certe intelligenze, come nel progetto Amazon Mechanical Turk in cui i processi di machine learning vengono performati dal lavoro di clickworkers pagati meno di un dollaro l’ora: una massa sottopagata e dispersa di lavoratori senza tutele sindacali e privi di alcun diritto, la cui realtà è «oscurata dallo spettacolo della macchina» (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 83). Un oscurantismo diventato ormai luogo comune nell’ambito del rapporto utenti web e AI, si basti pensare al paradossale meccanismo dei reCAPTCHA di Google in cui, per provare di non essere un agente artificiale, si allena il sistema AI di riconoscimento immagini totalmente gratis e spesso inconsapevolmente. C’è poco di veramente artificiale inteso come “immateriale” e che non abbia realmente a che fare con l’uomo nelle intelligenze artificiali, e questo è bene tenerlo a mente.
La quantificazione del mondo del machine learning è pervasiva, dal macrocosmico al microscopico, in un programma cartografico che punta all’infinito: «L’arte contemporanea, le tecnoscienze e il capitalismo condividono la stessa aspirazione a spostare i confini verso orizzonti potenzialmente infiniti» (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 84).
Le AI sono programmate per una mappatura infinita della realtà, un programma che riflette l’orizzonte cosmologico della Tecnica in cui ci troviamo, definito dalla vuotezza ontologica delle posizioni seriali che possono riprodursi senza limiti; se la fase apollinea della civiltà occidentale (tra il 900 a.C. e il 1000 d.C.) strutturava il proprio agire attorno al vicino e presente, oggi ci troviamo in quella che Spengler definì come fase “faustiana”, poiché occupata nella ricerca dell’infinito in tutte le sue forme, dalla tecnologia alla politica, alla musica (Campagna 2021, p. 42), un perenne portarsi “in presenza” nell’orizzonte ontologico della vuota sintassi, condizione necessaria alla ri-affermazione perpetua delle nozioni di produttività e strumentalità.
La corsa verso l’infinito potenziale dell’accumulazione di dati per l’apprendimento delle AI è tuttavia spesso condotta su basi molto limitate; il dataset AVA di Google, per esempio, un «progetto che fornisce notazioni audiovisive di video per migliorare la nostra conoscenza dell’attività umana», rappresentando quella che viene definita una «ricca varietà di espressione di attività umana», mostra donne inserite principalmente nella categoria “mentre giocano con i bambini” e uomini “mentre prendono a calci una persona” (D’Abbraccio, Facchetti 2021, p. 87). I soggetti postumani incarnati sono ben lontani dall’aver superato le differenze, tra le specie e all’interno della stessa, e diviene evidente se non visibile nei sistemi AI di facial recognition impiegati dalle forze dell’ordine e i loro evidenti bias nei confronti delle persone non bianche, o nelle GAN e le loro visioni di figure di potere incarnate esclusivamente in uomini. È in particolare nell’ambito della machine vision, ovvero delle immagini create per la visione macchina-macchina, che si palesa la pericolosa insidiosità dei bias.
L’enorme ricchezza che diede vita ai più grandi patrimoni dei pochi magnati industriali della seconda metà dell’Ottocento si basò sul monopolio dello sfruttamento delle risorse naturali e dei processi produttivi: oggi l’estrattivismo è eterico, mira all’accumulazione di dati, e l’orizzonte infinito da sfruttare è costituito dal machine learning e dalla riorganizzazione delle informazioni attraverso sistemi AI che combinano il lavoro umano con quello delle macchine. Il settore è in pugno a poche megacorp che dominano i territori creando nuove infrastrutture e meccanismi per l’accumulazione di capitale e lo sfruttamento delle risorse del pianeta su ogni scala, dal minerale al biologico, incluse quelle umane.
Ci troviamo davvero legati a un comune destino con la macchina, poiché il sistema capitalista, nella sua vorace corsa allo sfruttamento infinito, non risparmia nessuno. Per questo è importante superare la diffidenza e i preconcetti attorno alle intelligenze artificiali, e non soccombere alla logica avversativa e competitiva che il sistema capitalista ha attivato tra gli esseri umani ieri, e tra esseri umani e macchine oggi.
Il “futuro del passato” sono i simboli e le immagini che formano la nostra visione del mondo, che ci portiamo dietro dalla preistoria a oggi, e che stiamo insegnando alle AI, nostri figli pseudo-cognitivi; ciò che di negativo ci ha portati qui ma anche, in positivo, cosa scegliamo di portare con noi lungo l’inevitabile strada del tempo, le responsabilità che vogliamo prendere in carico, secondo la prospettiva postumana del contemplare la propria esistenza in termini di eredità, superando concettualmente ed esistenzialmente il concetto della nostra morte.
Che cosa scegliamo di mettere in valigia sarà determinante non solo per quelli che verranno dopo di noi ma, tenendo conto della velocità esponenziale alla quale si muove il sistema tecno-capitalista, avrà conseguenze inevitabili sulla nostra stessa quotidianità. Che la strada per la salvezza sia accettare la nostra natura di cyborg metafisici, di soggetti collettivi e personali, culturalmente smontati e riassemblati, fatti di parti organiche e meccaniche, energie e intuizioni? E se l’AI fosse una strada impervia e sinistra che non possiamo evitare di percorrere per raggiungere un più alto grado di coscienza? Una cosa è certa, abbiamo bisogno di nuove genealogie, rappresentazioni alternative, teoriche e giuridiche, di un nuovo sistema di parentele, di storie che siano all’altezza di questa sfida epocale.
Laddove non diversamente specificato le traduzioni sono tutte a cura dell’autrice.
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DJ e performance artist, la sua ricerca si muove tra poesia, neo-avanguardia, intelligenza artificiale generativa e autorialità. In ambito accademico si interessa ai Cultural Studies concentrandosi sulle intersezioni tra letteratura, cultura digitale e studi di genere. Studia e vive a Marsiglia.
Blaise Agüera y Arcas, Art in the age of Machine intelligence, «Medium», 23 Feb. 2016.
K Allado-McDowell, Air Age Blueprint, Ignota, 2023.
K Allado-McDowell, Imagination against the horrible brood, «Spike Art Magazine», 74, Winter 2022-2023, pp.142-146.
K Allado-McDowell, Pharmako-AI, Ignota, 2020.
K Allado-McDowell, Ben Vickers, Atlas of Autonomous AI, Ignota, 2021.
Rosi Braidotti, Il Postumano, DeriveApprodi, Bologna, 2014.
Federico Campagna, Magia e Tecnica, Tlon, Roma, 2021.
Watlington Cantor (a cura di), Relative Intimacies – Intersubjectivity vol. III, Sternberg Press, Berlin, 2022.
Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti (a cura di), AI&Conflicts. Vol. 1, Krisis Publishing, Brescia, 2021.
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Millepiani, Castelvecchi, Roma, 2006.
Michel Foucault, Le parole e le cose: un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano, 1967.
Michele Filippini, Using Gramsci: A New Approach, Pluto Press, 2017.
Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995.
Ursula Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction, in Dancing on the Edge of the World, Grove Press, 2017.
KABUL è una rivista di arti e culture contemporanee (KABUL magazine), una casa editrice indipendente (KABUL editions), un archivio digitale gratuito di traduzioni (KABUL digital library), un’associazione culturale no profit (KABUL projects). KABUL opera dal 2016 per la promozione della cultura contemporanea in Italia. Insieme a critici, docenti universitari e operatori del settore, si occupa di divulgare argomenti e ricerche centrali nell’attuale dibattito artistico e culturale internazionale.